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Cat.n. 119 |
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Costanzo Preve
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La fine dell’URSS. Dalla transizione mancata alla dissoluzione reale.
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ISBN 88-87296-35-9, 1999, pp. 64, formato 140x210 mm., Euro 7 Collana “Divergenze” [20].
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In copertina: Disegno di M. Vulcanescu.
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Titolo esaurito, si veda la II Edizione - n. Cat 361
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La dissoluzione dell’URSS, il paese guida del defunto “campo socialista” e la prima grande concretizzazione storica del comunismo storico novecentesco (da non confondere con il comunismo teorico di Karl Marx), è un evento storico compiutosi nel 1991, ed in quanto evento storico è già da tempo un fatto archiviato nel passato storico. Ma se la dissoluzione reale dell’URSS è un evento storico, la transizione mancata al comunismo di un paese che si era assunto per 74 anni (1917-1991) questa finalità è un problema teorico ancora aperto, e sostanzialmente non ancora risolto. L’evento storico ed il problema teorico coincidono solo per gli “storicisti”, che credono che il semplice scorrimento temporale dei fatti produca spontaneamente la propria autoriflessione teorica. Ma non è così, e questo breve studio cerca appunto di dimostrare che non può essere così.
La dissoluzione dell’URSS è dunque in qualche modo legata alla teoria marxista, al leninismo, ed in generale al comunismo. Un paese che si era per decenni legittimato in nome della lotta mondiale al capitalismo deve prendere in conto di essere giudicato storicamente anche considerando la sua finalità metastorica, che è appunto il comunismo. In questo senso non hanno avuto torto i due storici dell’URSS Geller e Nekric’ ad intitolare l’edizione russa originale del loro lavoro L’utopia al potere. L’oggettività storiografica viene forse un po’ violata, ma senza incorporare l’elemento finalistico, utopico e metastorico dell’URSS nella narrazione storica degli eventi dei suoi 74 anni di vita è impossibile cogliere il nocciolo della questione.
Questo breve studio è stato stimolato dalla lettura di tre opere recenti di diversa natura, quelle di Orlando Figes, Andrea Catone e Giuseppe Boffa, che richiamerò ovviamente nella nota bibliografica finale, in cui dirò anche in forma sintetica quali siano a mio avviso le caratteristiche essenziali e peculiari. Tuttavia, la mia particolare interpretazione teorica della transizione mancata al comunismo dell’URSS è debitrice fondamentalmente allo studioso francese Charles Bettelheim. Su Bettelheim vi è a mio avviso un curioso fraintendimento, perché si insiste soprattutto sulla sua connotazione della società sovietica come capitalismo di stato (avvicinandolo così ad Amadeo Bordiga, che difese tesi analoghe), mentre il punto essenziale non è questo, ma è la definizione dell’URSS come società di classe, cioè come società divisa in dominanti e dominati. Se ci si avvicina a Charles Bettelheim secondo questo punto di vista, le sue posizioni appariranno convergenti con quelle di Paul Sweezy, al di là delle diatribe nominalistiche ormai parzialmente obsolete sull’esatta “natura sociale dell’URSS”, che sarebbe più esatto definire “natura modale dell’URSS”, intendendo con “modale” la dinamica del modo di produzione nel senso marxiano del termine.
Questo saggio è diviso in dieci paragrafi, di cui tre (il primo, il secondo e l’ultimo) hanno un carattere esclusivamente teorico, mentre gli altri sette, di diseguale importanza, hanno invece un carattere storico, o quantomeno di riflessione storica. Nel primo paragrafo si ricorda la teoria della transizione al comunismo di Marx, che escludeva esplicitamente ed irrevocabilmente una costruzione politica, partitica e statuale di esso. Si tratta di cose notissime ai marxologi, ma che è sempre bene ricordare al lettore non specialista. Il secondo paragrafo contiene invece in forma sunteggiata ed ultrasintetica la mia teoria personale sul comunismo, fenomeno che non può fisiologicamente durare oltre le tre generazioni, in base al gioco dialettico dei parametri della tattica (socialista) e della strategia (comunista). Nonostante la mia esposizione “leggera” possa sembrare una curiosità un po’ buffa, prego il lettore di considerare che la questione della “prospettiva”, cioè del rapporto fra tattica e strategia, è al centro della riflessione di un pensatore comunista “serissimo” come Lukàcs.
I paragrafi dal terzo al nono prendono brevemente in considerazione sette personaggi di diseguale importanza storica come Lenin, Stalin, Krusciov, Breznev, Gorbaciov, Eltsin, per finire con Primakov, il leader politico emerso negli ultimi tempi dopo la grande crisi economica russa dell’agosto 1998. Come sono diseguali i personaggi storici cui sono dedicati, così sono anche diseguali i paragrafi, in termini di serietà e di attendibilità di giudizio. Per quanto riguarda Lenin, Stalin, Krusciov e Breznev mi sono fatto opinioni abbastanza sicure e stabili, se non altro perché vengono dopo decenni di riflessione, lettura e dibattito. A proposito di Gorbaciov invece non ho ancora maturato un giudizio stabile, nonostante abbia a suo tempo seguito quasi giorno per giorno gli eventi della cosiddetta perestrojka (1985-1991). Su Eltsin e Primakov quasi tutto ciò che si può dire è inevitabilmente contingente, giornalistico ed umorale, ma mi è sembrato corretto verso il lettore non sfuggire di fronte all’attualità ancora in corso, cercando di darne una valutazione in termini di “presente come storia”.
Il decimo paragrafo, infine, è gemello del secondo. Si tratta di un’ennesima riflessione filosofica sull’utopia comunista come fenomeno storico globale, che merita un “ritorno” continuo, a volte inevitabilmente un po’ ossessivo, perché il suo enigma profondo non è stato a mio avviso ancora svelato, e le etichette come “totalitarismo” e “modernizzazione” sono tautologiche, perché mettono al posto della comprensione un timbro politologico.
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