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Introduzione
L’età dell’oro del cinema americano, che copre all’incirca il mezzo secolo che segue allo scoppio della prima guerra mondiale, non è stata forgiata solo da talenti nati e cresciuti negli Stati Uniti ma deve in gran parte il suo splendore all’apporto conferito da artisti provenienti da quasi ogni angolo dell’Europa per contribuire a modellare la nuova arte del XX secolo secondo gusti, prospettive e sensibilità che affondano saldamente le radici nella cultura europea. Così Stroheim e Sternberg, Lubitsch e Chaplin, Curtiz e Lang, Siodmak e Wyler, Hitchcock e Wilder, insieme a tanti altri, danno vita a un corpus stupefacente di opere, tanto sfaccettato quanto pervaso da una miriade di echi e rimandi interni, la cui unicità può essere racchiusa nella definizione di arte cinematografica euro-americana.
Molti di costoro, provenienti per lo più dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Germania e dalla Russia, sono ebrei, e insieme alla cultura del Vecchio Continente portano con sé umori e idiosincrasie profondamente radicate nella visione del mondo del loro popolo, anche in assenza di qualsiasi legame tradizionale di tipo religioso. Mentre le loro comunità vengono sradicate con la deportazione e lo sterminio dal tessuto sociale che le ha ospitate per secoli e a cui hanno dato un contributo straordinario nel mondo delle professioni, delle arti e del pensiero, questi cineasti insieme agli scrittori e ai musicisti salvano i tesori di ingegno di cui sono depositari trasferendoli in America, dove spesso trovano a capo delle case di produzione altri ebrei, già espatriati prima di loro.
Tutta questa schiera di uomini di cinema, geniali innovatori o semplicemente professionisti di grande talento, darà un contributo incalcolabile allo sviluppo della nuova arte in cui il XX secolo riesce a esprimere al meglio la propria identità. Con loro entra nelle storie e nel linguaggio delle opere cinematografiche anche se dominati dalle regole spesso rigide dello studio system ciò che forse agli autori nati e cresciuti in America sarebbe mancato: l’analisi degli strati più oscuri della psiche, l’ambiguità, l’erotismo, la lussuria, l’eccesso, la follia, il sogno, il bizzarro, il terrificante, il soprannaturale, il crepuscolare, l’angoscia dell’individuo perseguitato dalla società o dal destino, ma anche l’eleganza sofisticata mitteleuropea, l’ironia mordace, l’umorismo tanto beffeggiatore quanto intriso di comprensione nel ritrarre l’assurdità della condizione umana. E poi il ricordo ora nostalgico, ora distaccato dell’Europa: i suoi caffè, i suoi boulevards, i suoi negozi, i suoi vicoli; i suoi prìncipi e aristocratici come i suoi operai e umili commercianti; i suoi ricchi giacimenti di saggezza e cultura e gli orrori e le brutalità delle antiche e nuove barbarie. Questa articolata, ma intimamente unitaria, produzione artistica si dipana lungo l’arco di mezzo secolo dagli anni della prima guerra mondiale sino a quelli delle contestazioni e delle effervescenze degli anni Sessanta, preludio a un nuovo mondo tecnologico ed omogeneizzato. In essa si materializza un incontro, miracoloso e irripetibile, tra la genialità, l’introspezione e la secolare eredità culturale e artistica dell’Europa da una parte, e dall’altra, la freschezza, il dinamismo, la spontaneità (anche ingenua), così come pure le risorse economiche e imprenditoriali, dell’America. Un matrimonio spesso difficile e tempestoso, e non di rado votato all’insuccesso, ma che nel complesso ha arricchito entrambe le realtà culturali producendo feconde forme di sincretismo, di meticciato intellettuale, dove la tradizione dell’alta cultura si è rivitalizzata, pur declassandosi, a contatto con l’esuberanza energica ed effervescente della cultura “popolare”, che a sua volta ha sublimato la sua volgarità intrinseca nel balsamo dell’arguzia ironica e dello spirito critico.
In particolare, il cinema americano dell’epoca classica, quello che prende slancio dall’avvento del sonoro e viene messo parzialmente in crisi nel corso degli anni Cinquanta tanto dalla commissione per le attività antiamericane quanto dalla comparsa di un rivale formidabile come la TV, sino al declino dei grandi studios alla fine del decennio, è in gran parte il meraviglioso frutto di un incontro culturale tra Europa e America, paragonabile in qualche modo a ciò che sono stati in campo musicale il blues e il jazz, prodotti dalla creatività afro-americana e poi entrati nel mainstream della cultura di massa.
Questo periodo storico, tanto tragico e tormentato quanto fertile culturalmente, vede un apporto straordinario da parte dei registi europei1 che si impossessano con entusiasmo delle nuove tecnologie e le mettono al servizio, in un rapporto spesso fruttuoso anche se non esente da forti contrasti con la politica degli studios, di una produzione artistica di altissimo livello che riesce a coniugare la raffinatezza estetica con la spettacolarità popolare, la sofisticazione europea con la concretezza americana, la creazione di mondi fantastici con l’analisi impietosa della realtà sociale. È qui che l’arte euro-americana raggiunge i suoi massimi trionfi: è qui che si forgiano miti e modelli che godranno di vitalità duratura, frutto di una collaborazione tra due culture unica e irripetibile, alla cui intensità contribuisce certamente anche la terribile drammaticità dell’epoca, nella cui temperie si sollecitano e si incalzano le coscienze e le intelligenze, coinvolte in una svolta epocale della nostra civiltà.
1 E insieme a loro, degli attori, musicisti, direttori della fotografia, sceneggiatori, provenienti anch’essi dall’Europa, con cui questi registi scelgono spesso di lavorare.
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