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In premessa
Questa ricerca parte dall’interrogativo posto dal singolare paradosso che investe la caccia alle streghe: essa, malgrado il suo carattere evidente di grande rito collettivo apotropaico, conosce il suo momento culminante fra XV e XVII secolo, dunque accompagna, pur con scansioni temporali diverse, l’ingresso dell’Europa nella modernità e la straordinaria fioritura intellettuale del Rinascimento e della rivoluzione scientifica.
A partire dall’esame di un caso concreto un processo di stregoneria svoltosi in Ungheria nel 1728 il lavoro punta ad individuare i nessi tra costruzione dello Stato moderno e persecuzione. L’attenzione è concentrata sia sulle trasformazioni sociali ed istituzionali che creano il presupposto culturale e la base giuridica per la caccia, sia sui conflitti di potere tra organi di governo locali e centrali all’interno dei quali il procedimento giudiziario finisce per assumere una dimensione politica, in quanto strumento per ottenere il consenso di popolazioni impaurite da eventi nefasti percepiti come aggressioni di tipo magico ai beni ed alle persone.
L’analisi delle testimonianze degli accusatori sfata, infatti, un mito duro a morire: le persecuzioni risposero spesso a richieste di protezione dal basso, di cui si fecero sovente interpreti e spietati esecutori i tribunali dei nascenti Stati centralizzati.
Altro luogo comune che l’esame delle carte processuali demolisce è quello della presunta marginalità e diversità delle vittime delle accuse: si trattava, per la maggior parte, di guaritrici (non mancano, tuttavia, gli uomini) che svolgevano un ruolo centrale nella vita di villaggio e che, in virtù dell’ambivalenza di chi, sapendo guarire, dispone anche delle conoscenze per nuocere, in un momento di grave crisi una carestia e di disgregazione dei vecchi vincoli comunitari finirono per essere appiattite sul versante negativo della propria professione, fino a subire lo stigma, di impronta colta, della demonizzazione.
La peculiarità di questo caso la scoperta di una compagnia diabolica organizzata militarmente, cui si attribuisce la responsabilità di avere provocato la siccità nella città di Szeged, vendendo la pioggia ai Turchi mette in scena altresì l’istituzione di un immaginario centrato sulla lotta tra il Bene e il Male che permette di compattare il corpo cittadino (soggetto a forti tensioni politiche legate al difficile rapporto con Vienna) intorno all’individuazione ed alla punizione esemplare del Nemico.
La vicenda, conclusasi con il rogo di quattordici imputati, vede l’intreccio di tradizionali pratiche e credenze ormai defunzionalizzate, di paure sociali in cerca di risposte e di scontri tra fazioni avverse che si contendono la guida del governo locale. La complessità dei fattori in gioco fa di questo processo, nonostante la sua collocazione sia spaziale sia temporale periferica, un interessante “laboratorio” per comprendere alcune delle dinamiche sottese alla caccia e, allo stesso tempo, ripropone un’interrogazione quanto mai attuale sull’inquietante deriva aperta dalla polarizzazione sociale tra forze del Bene e forze del Male, in cui sono le prime a dovere essere salvaguardate dalla loro stessa hybris.
La ricostruzione dell’accaduto si avvale di fonti processuali (testimonianze e verbali dei processi, contenuti in una storia della città di Szeged del XIX secolo) inedite in Italia e dall’Autrice tradotte.
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