La filosofia, o più esattamente la pratica filosofica, è una forma di conoscenza della realtà. Considero uno pseudoproblema, e non voglio intenzionalmente occuparmene in modo teoretico, se essa sia superiore o inferiore alla conoscenza scientifica, religiosa o artistica. Chi si mette in questo orizzonte di tipo gerarchico-topologico a mio avviso parte già con il piede sbagliato. Il modo tradizionale positivistico di inquadrare la questione è la nota gerarchizzazione stadiale successiva religione-filosofia-scienza, e questo modo non è cambiato da Auguste Comte a Jurgen Habermas. Per alcuni la modernità si caratterizza proprio dall’abbandono dell’illusione che esista una specifica conoscenza filosofica. Non certamente per me. Per altri, che hanno il dono della fede religiosa (e non è il mio caso) la filosofia è di fatto propedeutica ed integrativa della fede stessa. La mia posizione è diversa sia da Jurgen Habermas sia da quella degli estensori dell’enciclica Fides et ratio. Essa riprende invece intenzionalmente la concezione della filosofia che ereditiamo dagli antichi greci, miei venerati maestri, per cui la conoscenza filosofica ha come oggetto la verità e come metodo il dialogo. La mia posizione sarà ispirata a questo principio.
Prima di iniziare l’esposizione, che sarà strutturata in quattro punti successivi (antichi greci, dinamica della modernità, statuto filosofico del marxismo, situazione contemporanea) voglio subito fare due importanti precisazioni di carattere semantico e filologico, chiarendo le radici greche dei due termini “verità” e “fondamento”. Il termine verità in greco antico si rende con aletheia. Aletheia significa disvelamento, non-nascondimento, passaggio da una situazione di oscurità e di ignoranza ad una situazione di conoscenza e di visibilità. Questo concetto non è allora identico a quelli di certezza (empirica) o di esattezza (scientifica in senso moderno), perché la certezza e l’esattezza non si nascondono, e richiedono solo procedure consensuali per essere definite. Ma l’aletheia non può essere per definizione oggetto di procedure consensuali, perché rimanda ad un fondamento che le precede sia sul piano logico che su quello ontologico. L’identità di logica e di ontologia non è allora una invenzione stravagante ed arbitraria di Platone e di Hegel, ma la semplice presa d’atto del fatto che il fondamento veritativo non può essere definito in termini di procedure linguistiche consensuali, ma queste ultime, pur necessarie, devono in qualche modo aderire al processo di progressivo disvelamento del fondamento stesso. Come è noto, a suo tempo Martin Heidegger propose una terza concezione di verità, che si pone in alternativa sia alla concezione della verità come corrispondenza (e cioè la concezione di tutte le filosofie religiose, dal cristianesimo tomistico al marxismo sovietico), sia alla concezione della verità come accordo linguistico e consensuale di tipo procedurale (e cioè la concezione di tutte le filosofie di tipo relativistico e convenzionalistico, di centro, di sinistra e di destra). Ma qui non si vuole aderire o criticare la concezione heideggeriana. Non è questo l’oggetto di questo mio testo. Si vuole solo ribadire che il cammino verso la verità filosofica non è qualcosa di immediatamente evidente e neppure di proceduralmente costruito. La verità è aletheia, l’aletheia si nasconde, e ciò che si nasconde deve essere ricercato. Il termine fondamento in greco antico si rende come aitia o logos. Il termine aitia rimanda ad una concezione allargata del moderno concetto di “causa”, non coincide con il concetto di causa emerso dopo la rivoluzione scientifica del Seicento e perciò sfugge a tutte le critiche alla causalità come quelle inaugurate da Davide Hume. Aristotele non si inventa arbitrariamente i quattro significati di causa (materiale, formale, efficiente e finale), ma li prende dalla semantica quotidiana della lingua greca antica. Il termine logos, invece, significa fondamento, ma significa anche ragione e linguaggio, senza consentire però la separazione di principio fra fondamento, ragione e linguaggio che caratterizza invece la pratica moderna e postmoderna della filosofia, per cui quasi sempre il fondamento non esiste ed è un residuo metafisico da eliminare, la ragione è un’opinione soggettiva del tutto equivalente all’opinione per cui non esiste nessuna ragione ma solo un triste irrazionalismo caotico ed infondato, ed infine il linguaggio è l’unica realtà che mette ordine razionalmente in un ammasso caotico di fatti e di valori. Ho fatto questa doppia precisazione perché in italiano il termine “fondamento” rimanda semanticamente ad una sorta di base sottostante, di “pavimento” sopra cui vengono collocati i vari arredamenti della casa. Questo inganno semantico deve però essere subito segnalato. Il fondamento come sostanza sottostante si dice in greco antico hypokeimenon, che è anche il termine per indicare il “soggetto” inteso come substrato di conoscenze, passioni, desideri. Il fondamento come essenza si dice in greco antico ousia, e rimanda a ciò che caratterizza in modo essenziale una sostanza (ad esempio, l’uomo è un animale essenzialmente razionale e sociale). Ma le vere ed uniche parole per indicare il fondamento restiamo solo aitia e logos, che non sono il “pavimento” di nulla. È necessario che il lettore tenga bene presenti questi chiarimenti semantici, perché se il termine fondamento viene concepito come “pavimento” ed il termine verità come certezza garantita dall’esattezza non è possibile intendere la lettera e lo spirito della mia esposizione…