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Ebook 1047
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Ilaria Rabatti
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Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci.
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Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia Anno IX, NN. 1-3 Gennaio/Settembre 2006 Direttore responsabile: Carmine Fiorillo, pp. 21.
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autore - sintesi
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Ad identificare i contorni, dilatati in infiniti spazi di luce, dell’ultima stagione poetica guidacciana, sembrerebbe indispensabile mettere in campo una fortissima tensione verso il trascendente (quasi mistica preparazione al “viaggio” verso l’eterno, consumato e atteso ad ogni istante, drammaticamente avvertito come “confine tra l’incontro e l’addio”), oltre la “soglia” del tempo e dello spazio, in un’assorta, pascaliana contemplazione dell’universo stellare, da lei amato con una profonda conoscenza scientifica. Il tema cosmico-astrale che nasce nella Guidacci come corollario contemplativo della tarda epifania amorosa già ampiamente introdotto nell’Inno alla gioia, torna ancora più fulgido a campeggiare nel Liber fulguralis (1986) che del maggiore Il buio e lo splendore, pubblicato solo nell’89 da Garzanti, costituisce il significativo e prezioso anticipo. Nel Liber fulguralis, edito quasi “clandestinamente” a Messina, nella collana “La mela stregata”, curata dalla Facoltà di Magistero, sono riunite infatti (fiancheggiate dalla traduzione inglese di Ruth Feldmann) in un ideale ponte lirico tra passato e futuro, cinque poesie dell’Inno alla gioia (Supernova, Anche tu conosci i nomi delle costellazioni, Ubbidiente e fedele, Appuntamento di sguardi nella luna, Aratura) e dodici testi inediti che successivamente confluiranno nel libro garzantiano dell’89 (più esattamente, undici andranno a formare la sezione finale de Il porgitore di stelle, mentre uno, Sibilla Persica, arricchirà quella iniziale delle Sibyllae).
Ne Il buio e lo splendore, dantescamente diviso in tre parti (a fare da intermezzo alle due già citate si pone infatti la “rilettura” di una delle più belle Metamorfosi ovidiane, quella di Filemone e Bauci) idealmente collegate da spunti mitologici (che spaziano dalla Grecia alla Persia, dalla tradizione italica e latina a quella etrusca) e ampiamente nutrite di cultura biblica, la poetessa, con una sensibilità acutissima ed una lucidità tutta moderna, tenta una più profonda esplorazione del mistero esistenziale, attraverso un’articolata mappa di viaggi non solo per cieli sovrastorici, verso l’“oltre”, ma anche per terre storiche e mitiche, verso l’origine. Questa navigazione misterico-astrale che segna un rinnovamento dei percorsi creativi guidacciani ed allo stesso tempo un loro naturale sviluppo, rispondente com’è ad una pulsione originaria e istintiva dell’autrice si dipana lungo due filoni tematici: le sapienziali profezie, affioranti dai recessi della terra, delle Sibyllae (collocate all’inizio della raccolta, ma in realtà composte per ultime, tra l’aprile 1983 e il febbraio 1984), e gli indecifrabili enigmi siderali, lucenti nella mappa del cielo disegnata da Vecua con l’aiuto de Il porgitore di stelle (finale “paradisiaco” del libro, cronologicamente parallelo però alle liriche di Inno alla gioia); temi che finiscono per toccarsi e fondersi in una “intuibile coniugazione in grembo all’infinito del tempo e dello spazio”.
La cultura oracolare riprende colore e spessore nei dieci monologhi delle Sibyllae, “poesie mitiche” (secondo la definizione che ne dà la stessa autrice) caratterizzate da una profonda tensione drammatica, in cui la poesia guidacciana assume in toto l’andamento profetico-oracolare già emerso nelle precedenti raccolte (soprattutto ne La sabbia e l’Angelo), quel timbro tra mitico e biblico, intriso di una sostenuta e insieme piana narratività, che contiene comunque in sé il miracolo, il senso acuto della vertigine…
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