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Costanzo Preve

Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

Pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVIII  – Gennaio-Giugno 2011 –  Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro, pp. 43.

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Sul fatto che l’uomo sia un ente storico non vi sono dubbi, almeno in superficie. Tutto ha una storia, ovviamente, anche i sistemi solari, i minerali, i vegetali e gli animali, ma la coscienza della storicità sembra appartenere soltanto al genere umano, almeno su questa terra. E tuttavia, il fatto di essere indubbiamente un ente storico, ed il fatto di avere coscienza della propria storicità non coincidono. Questa non-coincidenza dovrebbe essere messa al centro dell’attenzione filosofica, eppure questo non avviene. E tuttavia, uno dei modi (non l’unico, ovviamente) di ricostruire razionalmente l’intera storia dell’umanità (pensata unitariamente, e quindi “idealmente”, in un solo concetto trascendentale-riflessivo), è proprio quello di ricostruirla (sia pure sommariamente e con un grado inevitabile di semplificazione) sulla base della coscienza della storicità.
Questa coscienza della storicità non è affatto un dato, ma è un risultato che può anche essere perso o dimenticato. Facciamo solo due esempi sommari. I cosiddetti “primitivi” non avevano probabilmente un’adeguata coscienza della storicità, che pure caratterizzava ontologicamente le loro comunità sociali, in quanto vivevano direttamente questa storicità nella forma della omogeneità ontologica (e quindi anche gnoseologica-conoscitiva) fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. La loro strettissima dipendenza della natura (caccia, pesca, raccolta, pastorizia, eccetera) faceva sì, ovviamente, che questa piena coincidenza fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale (probabile matrice del sentimento religioso come percezione immediata, e poi elaborata in riti sociali, della loro unità) stesse alla base della loro percezione olistica globale del mondo. In una simile situazione, tendo ad escludere che i cosiddetti “primitivi” (il termine è improprio, positivistico-evoluzionistico, e me ne scuso con gli specialisti che giustamente non lo utilizzano più, consapevoli della sua ambiguità) potessero sviluppare un concetto di storicità, non solo della natura, ma anche e soprattutto di loro stessi.
Per fare un secondo esempio, l’attuale pensiero detto frettolosamente (ma anche correttamente) postmoderno rappresenta la perdita sofisticata dell’idea di storicità. Naturalmente, i pomposi accademici postmoderni non sono scusabili, a differenza dei pelosi “primitivi”, e quindi sono gnoseologicamente, epistemologicamente e soprattutto ontologicamente molto inferiori a loro. I “primitivi”, infatti, non potevano accedere alla categoria di coscienza storica nello stesso modo in cui non potevano accedere ai treni, agli aerei, alla penicillina ed all’insulina. Essi vivevano direttamente la fusione immediata fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, ed intuivano questa fusione nella forma di totem zoomorfici, di magie mimetiche, di miti di fondazione, sia teogonici che cosmogonici, eccetera. I postmoderni, invece, si sono trovati di fronte ad un’eredità di quasi tre secoli di coscienza storica, ed anziché perfezionarla e migliorarla (eliminandone – il che era del tutto possibile – i residui elementi di progressismo, determinismo, lieto fine teleologico, logicizzazione dialettica prefissata del corso storico, eccetera), hanno deciso di abolirla, formalmente in nome della cosiddetta critica alle grandi narrazioni (Lyotard, e dopo la breccia da lui aperta migliaia di accademici vocianti), ed in realtà sulla base dell’elaborazione del lutto delle loro precedenti visioni del mondo ispirate ad un marxismo estremistico, in cui l’Idiozia era stata eretta a principio metafisico di prospettazione del futuro. Questa loro soggettiva elaborazione del lutto generazionale si incontrò (per ragioni non certo aleatorie, ma strutturali) con una oggettiva esigenza ideologica delle nuove oligarchie finanziarie (purtroppo non ancora sufficientemente colpite dalla recente crisi esplosa nel 2008), che dovevano e devono sacralizzare il presente capitalistico ergendolo in fine della storia. Ripeto, la concezione della omogeneità fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, tipica dei primitivi, e la concezione della fine capitalistica della storia tramite lo smascheramento delle grandi narrazioni utopico-rivoluzionarie, tipica dei postmoderni, sono entrambe fondate su di un comune rifiuto della coscienza storica, ma la prima è antropologicamente – e soprattutto eticamente – immensamente superiore alla seconda.
In un’ottica contrastiva (ed il metodo contrastivo è il migliore per imparare una lingua straniera partendo dal contrasto con la propria lingua madre) il genere umano appare il solo in grado di effettuare rivoluzioni sociali. Api, formiche e termiti non ne sono capaci, perché la loro società è determinata direttamente (ed unicamente) dalla loro informazione genetica. Quando assisterò ad una rivoluzione delle api contro la loro Ape Regina, e non prima, abbandonerò tristemente il mio presupposto ontologico sulla differenza qualitativa fra l’uomo (inteso come ente naturale generico) e gli altri animali, compresi animali superiori, e certamente simpatici, come il bonobo, lo scimpanzé, il cane ed il cavallo. Il genere umano fa rivoluzioni (e certamente ne farà anche in futuro, alla faccia di postmoderni e proceduralisti liberali), mentre le termiti nel termitaio non ne faranno mai.
La storicità, o più esattamente la coscienza storica, non è un dato. Precisiamo: la storicità “muta” è un dato, ma la coscienza storica è un risultato. È questo un possibile criterio di ricostruzione dell’intera storia della filosofia occidentale dagli antichi greci ad oggi, probabilmente migliore del vecchio criterio aristotelico (certamente grande ai suoi tempi, ma oggi a mio avviso sorpassato, e sorpassato proprio in forza del principio della coscienza storica), secondo cui i suoi predecessori furono classificati in base alla loro preferenza per una delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale).



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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