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Introduzione: l’economia tra confini e relazioni
Pensare la natura umana per pensare l’essere umano, per scoprire che parlare di essere umano significa parlare di diventare umani, di dipendenza e di comunità, nella convinzione che il mondo di oggi offra al più le possibilità dell’ominizzazione, ma purtroppo non ancora quelle dell’umanizzazione. Quasi dando ragione ai «pentiti» dell’economia (cfr. Noiville 2010), l’economista Kenneth Boulding, ricorda Serge Latouche, affermava che «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito o è un pazzo o è un economista» (Latouche 2011: 60). Oggi siamo tutti pazzi, siamo tutti economisti, la semplicità di Aristotele è finita nel dimenticatoio, quella semplice schiettezza con cui notava che l’economia, come arte dell’amministrazione, è limitata perché non esiste tecnica illimitata, non esistono strumenti che possono essere usati senza limite:
la quantità di siffatti beni [quelli necessari alla vita e utili alla comunità dello stato o della casa] sufficienti alla vita beata non è illimitata, come pretende Solone nei suoi versi: limite alcun di ricchezza non c’è né si scorge per gli uomini. Ce n’è, infatti, uno qui, come nelle altre arti: nessuno strumento di nessun’arte è illimitato né per numero né per grandezza e la ricchezza è un insieme di strumenti adatti all’amministrazione della casa e dello stato (Aristotele, Politica, I, 8, 1256b 31-37).
È proprio perché non c’è perfezione (cfr. anche Ricossa 2006) che l’economia deve giungere a una fine, ma questo nel senso che deve avere un ben preciso con-fine, dove il con- indica proprio il rapporto che lega l’attività economica alle altre attività umane, perché l’uomo - come vedremo - è pluri e non monodimensionale.
Le tesi che verranno proposte in queste pagine sono per certi versi radicali, estreme e provocatorie (ma non per questo prive di argomentazioni e di ragioni, come cercherò di mostrare), come sono per certi versi radicali, estreme e provocatorie (ma non per questo prive di argomentazioni e di ragioni) le tesi rispetto alle quali esse si oppongono, come quelle per cui laddove c’è scelta c’è decisione singolare e volontaria di un individuo libero e razionalmente calcolatore che valuta e apprezza personalmente, ossia c’è economia, interazione e scambio tra soggettività all’insegna di una ragione concepita in termini di Wirtschaftsrechnung, e secondo cui «la cooperazione sociale può essere basata solo sul fondamento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il socialismo - la proprietà pubblica dei mezzi di produzione - renderebbe infatti impossibile ogni calcolo economico e quindi è impossibile» (Mises 2003: 40). Oltretutto, in una tale prospettiva, si giunge non solo ad affermare che nel marxismo, e soprattutto in Marx stesso, ci sono dei grossi fraintendimenti dal punto di vista della scienza economica (come la ripresa dell’idea aristotelica per la quale lo scambio esprime un’equazione tra due beni equivalenti, o che la forza-lavoro è la sostanza di ogni bene prodotto secondo il tempo socialmente necessario, indipendentemente dalla qualificazione di tale lavoro, e così via - obiezioni certo di rilievo, ma che non sono al centro delle seguenti riflessioni), ma addirittura che l’esperienza del vasto e vivo mondo umano, «così reale e complesso […], appare irrimediabilmente ignorata nel discorso di Marx» (Leoni 2004: 140):
le sue analisi si applicano infatti, o vogliono applicarsi, soltanto a oggetti, non a soggetti di azione: così il lavoro gli diventa una “merce”, il valore una “sostanza” “contenuta” nei beni, quasi che si potesse analizzarla in un laboratorio merceologico, lo scambio una semplice “equazione” fra grandezze fisiche equivalenti, il processo di produzione dei beni una “accumulazione”, una “incorporazione”, una “cristallizzazione” di “lavoro astratto” (sono tutti termini marxiani). Manca in questo discorso l’uomo. […] Lo stesso moralismo latente, l’indignazione e la protesta, sempre almeno implicite nel discorso marxiano, contro il preteso “sfruttamento” del “lavoratore” non bastano a introdurre l’uomo come soggetto vero e proprio di questo discorso: che è quindi uno strano discorso non già di “beni”, ma di “merci”, di “sostanze”, di “cristalli”, di “atomi”, di “tempi-lavoro”, e così via (ivi: 140 s.).
Pertanto, proprio l’«umanista radicale» Marx, il Marx pensatore della materialità produttiva dell’esistenza, non sarebbe mai riuscito a parlare dell’uomo nel suo discorso, non avrebbe mai posto davvero al centro delle sue ricerche e delle sue riflessioni l’uomo reale, l’uomo produttore e consumatore, l’uomo vivente e agente. Senza dimenticare (cfr. ivi: 137-159) che Marx non seppe mai proporre un modello economico teorico realmente in grado di sostituire il sistema capitalistico, dimenticando che i difetti di tale sistema sono forse legati a «difetti» propri della natura umana in quanto tale, che renderebbero comunque imperfetto anche qualsiasi tipo di sistema alternativo.
Rispetto a un tale orizzonte, sposo la tesi secondo cui «la dimensione relazionale, semantica e temporale dell’umano fa sì che anche biologicamente l’individuo non sia il fine della specie» (Biuso 2009: 149), e nemmeno la fine, perché se «l’esperire coincide con il vivere» (ivi: 203), es-perire significa spostare continuamente il peras: proprio per questo «formare un essere umano rimane un compito asintotico, che mai potrà dirsi compiuto» (ibidem). Dunque non c’è mai un individuo fatto e compiuto, perché ogni individualità è un processo aperto, e apertura significa «esigenza di interagire con l’altro da sé, con il fuori» (ivi: 202). L’individuo-atomo, come aveva ben colto Hegel è «die ärmste Gestalt des sich verwirklichendend Geistes», è «das reine leere Eins», ha solo un’«abstrakte Wirklichkeit»: le persone concepite come individui «schließen die Kontinuität mit Andern aus der absoluten Sprödigkeit ihrer Punktualität aus». La «absolute Sprödigkeit der Einzelheit» viene «zerstäubt» andando incontro alla persistente durezza del reale, scontrandosi con la «Wirklichkeit», ma questo non significa che non si possa parlare di individualità reale, di un processo di individuazione relazionale che consente la graduale e sempre aperta emersione di un individuo libero: la sua realizzazione passa proprio attraverso tale polverizzazione e il suo «Untergang», perché solo in quanto relazionale e dunque politico «der Einzelne» può essere «wirklich und substantiell» (cfr. Hegel 2000: 496-501, 605 e 647-651).
L’individuale «è un risultato, e non un presupposto» (Virno 2011: 56), ma proprio per questo «necessita di una individuazione» (ibidem), presentandosi come affermazione intensiva e «luogo in cui le maglie sono più fitte» (ivi: 61): «l’individuazione non diminuisce la comunicabilità, ma la accresce» (ibidem). In altre parole, la tesi che propongo e cercherò di argomentare in queste pagine è che l’individualità reale è un’individualità comunitaria e transindividuale, persino comunista: l’individualità reale e non semplicemente «metodologica» è un’individualità relazionale e solo per questo razionale, ossia è un’individualità r(el)azionale, è sim-bolica e non dia-bolica, perché tiene assieme e con-tiene impulsi, inclinazioni, passioni, appetiti, emozioni, sentimenti, ecc., tutti prodotti/produttori dell’apertura al mondo in comune, della relazione, come mostrano anche quelle ricerche scientifiche per le quali ragione ed emozioni sono in rapporto reciproco e non c’è intelligenza che non sia emotiva perché situata e socialmente incarnata (cfr. p. e. Damasio 1995; Damasio 2000; Damasio 2003; Goleman 1997; Goleman 2007 e LeDoux 1998). L’individuo è una mente incarnata, è corpo esposto e situato nel mondo, la ragione è sempre impura perché intaccata e contaminata da un fuori emozionale ed esteso: come aveva colto Giordano Bruno, gli esseri più ottusi sono quelli maggiormente rinchiusi dalla loro idiozia (sono idioti nel senso letterale che sono in-dividui, a-tomi: si isolano separandosi dalle relazioni che in realtà li istituiscono e costituiscono), mentre gli individui più dotati partecipano al concerto di legami che assicurano la coesione del mondo, elevandosi essi stessi a livello di operatori ed esecutori di effetti creativi multipli. L’intelligenza, per così dire, è questione di vincolo, di connessione, di appartenenze multiple e in costante movimento.
Essere stupidi significa essere ottusi, essere idioti, non r(el)azionali, chiusi in se stessi e incapaci di cogliere i rapporti, mentre l’intelligenza (l’ha notato rettamente anche Henri Bergson - cfr. Bergson 2002) è capacità di cogliere i rapporti, di vedere dentro le cose (chi è acuto è in grado di penetrare nelle cose), per vedere che esse sono fuori, sono connesse e inter-connesse. Già Platone (cfr. anche Chiurazzi 2011: 58 s.), nel definire l’anima come dynamis che coniuga eccesso e mancanza (pienezza e vuoto, come vedremo) situandosi nel regno della metexy rispetto all’essere e al nulla, descrisse tale possibilità di(-non) nei termini di capacità analogica, ossia come facoltà di mettere in relazione elementi diversi individuandone i reciproci rapporti per con-netterli temporalmente - l’anima è questa capacità perché intrinsecamente temporale e relazionale, tale capacità coincide con la temporalità e la relazionalità (cfr. Platone, Teeteto, 186a-197d): la psyche umana è un’attività dinamica e aperta sul futuro, la physis dell’uomo è potenziale, è tensione temporale verso il fuori e l’esterno e verso ciò che ancora non è, è storia (storia comune, aggiungo, anzi storia in quanto comune).
Dopo aver presentato alcuni snodi a mio giudizio fondamentali dell’antropologia liberale, in cui emerge una visione dell’umano sostanzialmente affine a quella delineata dal paradigma dell’antropologia filosofica novecentesca (cap. 1), cercherò di mostrare come proprio questi tratti antropologici mettono in crisi una concezione di individuo chiuso in se stesso e centro autarchico di ogni azione e di ogni pensiero (cap. 2), prima di concludere cercando di recuperare però le certamente irrinunciabili istanze individualistiche in direzione di un individualismo relazionale in quanto «democratico». Nell’articolazione del secondo capitolo seguirò soprattutto un recente e importante testo di Felice Cimatti, dall’emblematico e certo problematico titolo «Naturalmente comunisti», in una prospettiva che è particolarmente debitrice soprattutto alle ricerche di Lev Semenovic Vygotskij (cfr. perlomeno Vygotskij 1972; Vygotskij 1992 e Vygotskij-Lurija 1997), e che più in generale può essere ritenuta rappresentativa di una parte non secondaria della riflessione italiana contemporanea, di quel «pensiero vivente» che tanto dibattito sta suscitando anche all’estero.
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