Luisa Giaconi è una di quelle gentili figure di donna che la letteratura offre alla nostra attenzione ai margini delle cronache ufficiali, come in sordina ed avvolte da un velo di mistero. Le poche notizie biografiche di cui siamo in possesso concorrono tutte a disegnare il profilo di un’esistenza semplice ed umile, non attraversata da avvenimenti “memorabili”, ma costantemente calata in un’umbratile atmosfera di silenzio e di assorta contemplazione. Timida ed introversa, seppe esprimere se stessa dietro quel velo di pudore che spesso coincide con l’oggettività artistica e con l’autentica vocazione.
Nacque a Firenze nel 1870 da una nobile famiglia decaduta a modeste condizioni, e lì ricevette, insieme con la sorella, la sua prima educazione in un istituto religioso che abbandonò non appena compiuti gli studi elementari. La sua infanzia fu triste e solitaria, dolorosamente segnata dalla morte della madre, avvenuta quand’era poco più che bambina. Insieme alla sua piccola famiglia, trascorse gli anni dell’adolescenza peregrinando per l’Italia centrale al seguito del padre, insegnante di matematica negli istituti tecnici. Rimasta presto orfana, tornò a Firenze dove frequentò i corsi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti, dedicandosi da autodidatta anche allo studio della lingua e della letteratura inglese che sentiva particolarmente congeniali al suo animo. Sentì profondamente la bellezza della natura e le gite con la sorella tra le dolci campagne che abbracciano Firenze, insieme ad intense ed appassionate letture che spaziano dai classici latini (Orazio e Virgilio) ai testi biblici (soprattutto le Ecclesiaste), da Dante e Petrarca a Leopardi e Foscolo furono quasi le sole gioie della sua breve ed amara esistenza. Le precarie condizioni economiche della famiglia la costrinsero infatti ben presto a tralasciare gli studi e a guadagnarsi da vivere copiando per i turisti i quadri celebri nelle gallerie cittadine.
La sua fu una duplice vocazione: oltre che nella pittura, in cui rivelò una non comune perizia tecnica ed una sottile e personalissima tensione interpretativa dei soggetti prescelti, espresse la sua inquieta sensibilità in poesie che venne pubblicando, spesso a lunghi intervalli di tempo, sulla rivista fiorentina “Marzocco”.
Una delusione d’amore di cui i suoi versi in parte recano dolorosa testimonianza (si veda La casa sul monte, Pianto, Silenzio, Il rifugio e, soprattutto, Senz’ombra d’amore, nella cui espressione lapidaria echeggiano i cupi rintocchi del leopardiano A se stesso) e la salute cagionevole, inesorabilmente minata dalla tisi lo spettro della terribile malattia è evocato nella lirica Il vento, “un soffio sveglia ora la mia lunga tosse funesta”, la portò a rinchiudersi in se stessa e ad isolarsi, presentendo la morte. In una drammatica lettera scritta al Gargano lei stessa dirà il dilacerante conflitto tra la fragilità del suo corpo e la vigorosa e ardente vita dell’anima: “Io sono spettatrice dei vostri sforzi per gettarmi una fune che io non posso afferrare. La mia anima vede con la più grande lucidità questo suo corpo lottare contro una corrente più forte di lui, e, cosa strana, mi pare anche che questo corpo non sia mio, ma un altro che io contemplo nelle sue sofferenze, e che io abbia in me tutte le forze della giovinezza e della salute”.
La morte la colse nel 1908, a soli trentotto anni.
Ha lasciato un’unica, matura, raccolta di versi, Tebaide, pubblicata postuma nel 1909 a cura dell’amico Gargano e ristampata poi nel 1912 arricchita di molte poesie inedite e sparse.
La sua ispirazione poetica è complessa e inquieta, ricca di energie spirituali e affettive, nutrita delle più vive matrici della poesia romantica inglese (Shelley, Keats ed i preraffaelliti) e della poesia decadente francese (Baudelaire, Verlaine). Ad una tale rete di riferimenti letterari è necessario aggiungere, come presenza immediata e quasi vigile, il Pascoli, specialmente quello dei Poemi Conviviali e dei Canti di Castelvecchio di cui ripropone a volte, scopertamente, certe immagini canoniche (i “sistri d’argento” della poesia Il vento), o alcune locuzioni (“cuore d’un cipresso”, “cade l’ombra e gracida la gora” entrambe nella poesia La casa sul monte ) oltre che il D’Annunzio del Poema paradisiaco. Ma in lei ogni esperienza spirituale e stilistica è sempre rielaborata in modo originale ed è per questo che la sua poesia risulta di una sorprendente ed inquietante modernità. Essa si dispiega spesso in una contemplazione di paesaggi naturali che rifuggono da una raffigurazione realistica ed oleografica ma ci appaiono inquietantemente trasfigurati in un’aura di sogno e di mistero, intrisi di luce lunare, velati d’ombra, o popolati dalla forza rapace e angosciante del vento, come nella magnifica lirica Il vento, che per il rintocco cupo di parole assonanti, per la martellante percussione degli ictus su alcune sillabe e per il grido ripetuto dopo ogni terzina come un truce ritornello, ricorda certe macabre evocazioni di Poe. L’ora prediletta dalla Giaconi è infatti quella irreale/surreale che “cose con sogni fioca confonde”: l’alba ancora velata dall’ombra notturna, la sera che “tesse con le stanche dita foschi velari ai cieli”, e, più di ogni altra, la notte, immagine di quel “nulla eterno” in cui si dissolve la realtà, poiché tutto è sogno, tutto è “sconfinata vanità che illude”. Il mistero dell’invisibile e la nostalgia della patria celeste che seppe esprimere con vibrante intensità di commozione in una delle sue poesie più belle, Armonia, sono tra i motivi più cari e indagati della sua poesia. I suoi occhi sembrano infatti continuamente perduti nell’infinito, presi a scrutare tra “le pagine dei cieli”, a cui l’anima nostalgicamente anela far ritorno.
Dal punto di vista formale nella poesia della Giaconi si avvertono i segni di una notevole consapevolezza letteraria e di una non comune sapienza del ritmo e della parola poetica. Ogni lirica risulta infatti sempre saldamente composta intorno ad un suo nucleo creativo e ritmico. Un intenso lavorio di sperimentazione presiede inoltre all’elaborazione dei suoi versi, che cerca di plasmare sul ritmo stesso dell’anima. In una lettera al Gargano, parlando della struttura metrica de L’ultima pagina, dirà: “Il verso è composto di un novenario accentato come l’endecasillabo e di un senario. Se mi si domanda perché scrivo di tali versi, non posso rispondere altro che è perché così li sento e corrispondono ad un mio ritmo interiore. Ma potrebbe essere un’illusione mia soltanto e che l’arminia non vi fosse ... E il ritmo interiore mi dice anche di fare come un’impercettibile sosta al novenario quando si può. Certo la poesia perde del suo carattere cantabile e circoscritto in certe battute tradizionali, ma chissà se, portata a un grado di perfezione, non possa divenire più profonda e trovare meglio le vie del cuore”.
I suoi versi lunghi, quasi prosaici, permeati di un simbolismo misterico (che ha come privilegiati emblemi lo specchio, la lampada, la luna, il vento, le “morte ombre”) rivelano un’affinità con la poesia orfica di Dino Campana. Non a caso il poeta di Marradi rimase a tal punto colpito ed affascinato da una poesia della Giaconi, Dianora, da trascriverla ed inviarla nel 1916 a Mario Novaro affinché la pubblicasse su “Riviera Ligure”, come opera di “una donna di Firenze morta a trent’anni”. L’iniziativa generò poi un curioso equivoco: Bino Binazzi che attribuì Dianora a Campana, la incluse nel ’28 nella ristampa dei Canti orfici. L’errore, successivamente chiarito, ha contribuito a richiamare l’attenzione della critica sulla poesia della Giaconi che piuttosto merita di essere letta e studiata proprio perché incarna profondamente nella sua dolente e sofferta esperienza poetica l’inquietudine del primo Novecento.