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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 026

Maura Del Serra

Eraclito. Due risvegli. Con uno scritto di Jacopo Manna.

ISBN 88-87296-93-6, 2001, pp. 64, formato 110x170 mm., Euro 5,16 – Collana di teatro, “Antigone” [3].

In copertina: Testa bronzea del IV sec. rappresentante il Sonno con i lineamenti di un fanciullo alato. Londra, British Museum.

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5,16

“Agire e parlare come chi dorme”; “le cose che avvengono nel mondo chi dorme le fa e contribuisce a farle”. Questi due frammenti di Eraclito ce li ha tramandati Marco Aurelio, che come lui si trovò di fronte al bivio e dovette decidere se diventare filosofo o re. Poté permettersi l’astuzia di non scegliere: erano ormai altri tempi, un imperatore romano combatteva su un fronte interno dai termini ben definiti e le insidie, per quanto pericolose, si ripetevano secondo il più scontato dei copioni.

Non così Eraclito, che in questa messa in scena di scontato non trova niente e si muove incerto tra la veglia e il sonno, deciso a destarsi ma continuamente spinto a sognare. Coi sogni farà i conti nel finale, quando gli si presenteranno, con la chiarezza sfrontata di certi stati onirici, tre messaggeri per proporgli altrettante possibili svolte di vita: consigliere del principe (e che principe!), o co-reggente insieme al fratello, al cui glaciale sistema di leggi dovrebbe ispirare un po’ di vita, o infine emulo di Ermodoro, l’antico sodale divenuto poi discepolo di Pitagora e assertore della Grande Rinuncia (e infatti gli appare sotto sembianze che ricordano molto quelle di un monaco zen); tutti e tre verranno respinti, con durezza o sofferenza. Non solo perché il potere è un’arma a due tagli che minaccia anche chi lo detiene, e neppure perché in un altro frammento (stavolta consegnatoci da Filodemo) Pitagora è definito copìdon archegòs, che a tradurlo senza cerimonie vuol dire grande capo dei cialtroni; a spiegare il rifiuto di Eraclito prima ancora viene il fatto che accettare una di queste soluzioni significherebbe rinunciare al suo opposto, cancellare quella tensione che è la premessa e la condizione fondamentale dell’esistenza. Gesto impossibile per un filosofo che ha paragonato il mondo alla cetra, le cui corde rimangono tese solo per la divergente energia del telaio che le sostiene; e ancora più impossibile per un personaggio di Maura Del Serra.

 

In Adagio con fuoco c’è una poesia che commenta il proverbio Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e ha il merito di restituire a quello che è ormai un vecchio e usurato luogo comune la sua originaria forza espressiva. A scontrarsi, nel componimento, sono i rappresentanti di due gruppi umani inconciliabili: quelli che vorrebbero unire i due estremi separati del mare grazie a uno sforzo di immaginosa coerenza, e quelli che contrappongono a un simile volo mentale la loro pazienza di “mercanti del mezzo”. I primi invocano in loro aiuto “vele e ponti/ d’arcobaleno o di lame di fuoco”; immagini molto simili a quelle che la sacerdotessa Selene propone qui ad Eraclito. I secondi, nel loro argomentare a forza di senso comune, si rivelano della stessa genìa alla quale appartengono due dei tre messaggeri. Se a loro Eraclito ha risposto con dure parole, a Selene risponderà con un tentativo di stupro (e di incesto): a nessuna delle due offerte si può dare ascolto senza snaturare i termini del conflitto, l’eris su cui si fonda il cosmo.

A Maura Del Serra piacciono molto le vite vere; le piacciono così tanto che, se necessario, riesce a inventarsele. In questo si trova in un’ottima compagnia che vanta tra i suoi frequentatori Schwob e Savinio: ma a rendere inconfondibili le sue biografie è una evidente passione per gli individui out-siders, perennemente schiacciati fra la norma del cuore e quella del codice, fra visioni straordinariamente concrete e realtà percepite con dolorosa chiarezza. I suoi personaggi hanno sempre abbastanza intelligenza da capire che nessuna di queste due voci può semplicemente venire ignorata: il loro drama consiste in genere nel prenderne coscienza, il finale spesso li coglie in pieno sforzo verso una sintesi superiore che risolva i due poli del conflitto senza abolirli, o alla ricerca di un punto di vista spiazzante, che sposti completamente i termini della questione.

Da pochi e incerti lineamenti biografici ecco dunque nascere suor Juana e il suo difficile confronto con Viceré e Arcivescovo, l’artista puro Andrej Rubljòv alle prese con le urgenze della guerra e col potere dei mercanti, o Agnodice, donna-medico in vesti maschili, posta di fronte a tutte le contraddizioni di una duplice identità... Abbastanza intelligenti, anche, da prevedere i rischi insiti nella loro condizione di consapevoli spostati, primo fra tutti quello di far naufragare il dramma negli eccessi del sublime, o di rendere l’atmosfera del palcoscenico irrespirabile per rarefazione. Così, eccoli a volte munirsi di un interlocutore ironico e giullaresco col quale provocano il pubblico avvicinandosi pericolosamente alla farsa, o almeno alla boutade, per fermare poi tutto all’ultimo istante riconducendo abilmente l’azione al registro di partenza: e intanto la tensione è cresciuta, la narrazione ha aumentato la sua energia.

 

Di questi outsiders, Eraclito di Efeso è sinora certamente il più complesso. Crede nell’eris, ma ci mette tutto il tempo del dramma per cogliere le conseguenze della sua fede; e sì che l’autrice gli ha messo a disposizione numerosi indizi sin dalla prima scena, coi personaggi che si scrutano girando l’uno intorno all’altro senza mai colmare davvero la distanza che li separa. In questa azione teatrale sembra proibito toccarsi: tutt’al più si può trattenere chi fugge per la mano, il bordo della veste, o tendere le braccia col continuo e inconfessato timore di trovarsi a stringere il vuoto; la sola volta in cui un vero contatto avviene, come sappiamo, si tratta di uno stupro che svanisce in un caos sonoro dove tutto sembra sprofondare di colpo. Fusione impossibile: ma questo vale per ognuno dei personaggi che, almeno all’inizio, sembrano tutte figure dimidiate alla ricerca della metà perduta; e ognuno finisce per imbattersi in quella sbagliata. Ermodoro che cerca Demetra, Eraclito che cerca sua figlia... Gli unici esentati da questo tormento sono quelli convinti, come Demetra, che non c’è niente da capire: sarà appunto lei a liberarsi dai poteri del tempo, avendone scoperta e accettata la circolarità, così come Ermodoro, discepolo di Pitagora, si acquieta nella scoperta della continuità dell’essere. Per Eraclito la risposta arriva nel finale, e la risposta è forse che non c’è bisogno di completare nulla, ma piuttosto di fidare nel potere dell’incompleto. Prima però la compattezza del logos ha dovuto adeguarsi alle nuove condizioni: la luce invocata da Eraclito tocca il papiro, opera di una vita di studio, e lo sbriciola. Ma non lo annulla. Non stiamo assistendo a una distruzione, ma a una reinvenzione: quei frantumi sono la sola forma di scrittura coerente con una percezione del mondo che accetta la propria parzialità, l’irriducibilità del cosmo a un ordine stabile, e queste mancanze possono trasformarsi in capisaldi.

Un personaggio per cui la frammentarietà non è un incidente di percorso ma un destino richiede di essere portato in scena con un linguaggio adeguato. I versi liberi di Eraclito – Due risvegli sono un abilissimo gioco ad incastro, cui la tradizione poetica ocidentale offre i materiali più disparati: gli aforismi dei presocratici (ma il magnifico Giorgio Colli preferiva parlare di “sapienza greca”) si nascondono tralucendo con garbo, e nel loro chiarore ecco trascorrere Dante, Saba e la stella danzante... A una prima impressione verrebbe da dire che l’Eraclito dei Due risvegli, col suo sofferto vagare tra gli estremi dell’esistenza e i suoi sguardi sul rischio del caos, deve molto a Nietzsche. In realtà è l’esatto contrario: è Nietzsche che deve molto a Eraclito. Anche di questa restituzione dobbiamo essere grati a Maura Del Serra.

 

Jacopo Manna



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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