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Cat.n. 056

Costanzo Preve

L’educazione filosofica. Memoria del passato - Compito del presente - Sfida del futuro.

ISBN 88-87296-73-1 2000, pp. 168, formato 170x240 mm., Euro 10,00.

In copertina: Raffaello, Platone e Aristotele. Particolare dalla Scuola di Atene.

indice - presentazione - autore - sintesi

10,00

Questo saggio, ad un tempo teoretico e didattico, è composto da questa introduzione, da cinque capitoli largamente autonomi, da una breve nota bibliografica e da una più corposa nota didattica. Il primo capitolo tematizza il rapporto generale fra filosofia ed educazione, fino a giungere al centrale concetto di educazione filosofica. I capitoli due, tre e quattro, di prevalente carattere storico e didattico, cercano di sviluppare il concetto di educazione filosofica a proposito di tre momenti culturali centrali della nostra storia, la sapienza filosofica dialogica degli antichi greci (e di Platone in particolare), l’idealismo classico tedesco (ed in particolare Hegel), ed infine il progetto classista e comunista di Marx, spesso liquidato in modo inaccettabilmente affrettato come un’utopia autoritaria, illiberale e disciplinaristica. Il quinto capitolo, infine, tematizza il concetto di educazione filosofica nella nostra epoca, chiamata spesso in modo assai più prescrittivo che descrittivo “epoca della globalizzazione”. Le conclusioni generali verranno tratte soprattutto, come è ovvio, nel quinto ed ultimo capitolo. Un unico filo conduttore centrale percorre l’intero saggio, quello dell’importanza ed anzi della crucialità dell’educazione filosofica. Ciò potrebbe a prima vista sembrare un’ovvietà, perché il nesso fra educazione e filosofia, o più esattamente tra filosofia ed educazione, è un oggetto immediato del senso comune culturalmente educato, e non dovrebbe aver bisogno di “dimostrazioni” di tipo storico e teorico. Ma non è così, purtroppo. Questo nesso deve oggi essere riguadagnato, teoricamente legittimato, storicamente recuperato. Questo significa che esistono buone ragioni per temere questo nesso si sia perduto, o si stia perdendo. In questa introduzione si porteranno alcuni argomenti preliminari per sostenere la tesi della perdita e del recupero, più esattamente del pericolo della perdita e della necessità del recupero.

 

Gli esiti storici del Novecento (di cui nel quinto capitolo accetteremo la feconda tesi del “secolo brevissimo”, e non solo “breve”) hanno portato alla diffusione, in un’area abbastanza vasta di persone di cultura spesso soggettivamente oneste ed in buona fede, di una concezione superficiale e viziosa della filosofia che definirò per brevità concezione giudiziaria della filosofia. Per concezione giudiziaria della filosofia intendo il fatto che molti filosofi, e non a caso quasi sempre i più grandi, vengono portati sul banco degli imputati per essere giudicati, processati e (quasi sempre) condannati in nome di una sorta di “responsabilità oggettiva” pregressa a causa di (reali o presunti) crimini storici e politici commessi o da loro seguaci “diretti” (che si richiamavano cioè esplicitamente al loro insegnamento) oppure da loro seguaci “indiretti”, che si può ritenere siano stati influenzati in qualche modo dalle loro teorie “pericolose”.

Questa concezione giudiziaria della filosofia è anche un caso particolare della teoria generale del complotto e della paranoia che questa teoria porta inevitabilmente con sé, e di cui l’antisemitismo novecentesco (o più esattamente il presunto complotto ebraico per dominare il mondo) è stato un esempio inarrivabile. È anche del tutto plausibile che questa concezione giudiziaria della filosofia converga con altri riduzionismi giudiziari, come ad esempio la concezione giudiziaria della politica, per cui statisti e/o politici professionali non vengono più sostituiti a colpi di maggioranze elettorali (ritenute evidentemente “pericolose”, perché la politica è pur sempre una forma di sovranità in via di principio differente ed ostile alla sovranità assoluta di tipo economico e finanziario), ma attraverso processi per corruzione o attraverso rivelazioni giornalistiche di scandali (economici ma soprattutto sessuali). La concezione giudiziaria della filosofia e della politica è particolarmente affine alla sovranità dominante dell’economia, perché i meccanismi economici sono preventivamente dichiarati ingiudicabili, impuniti e impunibili.

L’esempio forse più importante del Novecento di concezione giudiziaria della filosofia è forse il noto libro di Karl Popper, La Società Aperta ed i suoi nemici, in cui vengono filosoficamente processati Platone, Hegel e Marx, per essere stati storicamente i massimi ispiratori di una società politicamente totalitaria. Nell’impostazione dilettantisticamente riduttiva di Popper, Platone è colpevole di aver auspicato una società chiusa ferreamente guidata dalla dittatura di filosofi-re e di guerrieri, Hegel è colpevole per aver teorizzato una dittatura illiberale dello Stato prussiano sulla società civile moderna, ed infine Marx è ovviamente colpevole per aver legittimato la dittatura comunista novecentesca, inaugurata da Lenin e realizzata da Stalin. Non c’è dubbio che l’opera di Popper, peraltro di facile (e consigliabile) lettura, rappresenta un modello inarrivabile di concezione giudiziaria della filosofia. In essa infatti non ci si limita a condannare gli esecutori, ma si risale decisamente agli ispiratori. Dal momento che Platone, Hegel e Marx non sono figure di seconda categoria nella storia della filosofia, ma sono a tutti gli effetti pietre miliari senza cui l’intero pensiero mondiale diventerebbe incomprensibile, tutta la storia della filosofia è investita da un sospetto paranoicamente soverchiante, quello di essere stata un grande complotto nemico della libertà umana e del buon senso. Da questo punto di vista, la novità di Popper è solo apparente, perché l’accusa alla filosofia di essere inutile e pericolosa risale già agli albori della filosofia stessa nella sua fondazione greca. La “lavagna dei cattivi” in cui sono scritti i nomi di Platone, Hegel e Marx non è che la concretizzazione novecentesca di una vecchissima tradizione, quella dell’ostilità verso la filosofia in quanto tale.

Un difensore di Popper potrebbe a questo punto osservare che Popper non se la prende affatto con la filosofia in quanto tale, ma soltanto con una “cattiva” tradizione filosofica, quella della dialettica. Per tornare sulla buona strada la filosofia dovrebbe soltanto liberarsi della dialettica. Ma ad un esame più ravvicinato appare chiaro che il termine di “dialettica” non può essere decentemente limitato al significato negativo di giustificazione sofistica ex post di tutto quanto volta a volta è storicamente vincente, e neppure di previsione deterministica (definita da Popper – in modo peraltro improprio – “storicistica”) del futuro sulla base del prolungamento meccanicistico (ed appunto non “dialettico”) di tendenze economiche e politiche estrapolate dal presente. Il termine di “dialettica” è un termine costitutivo dell’intero tessuto della storia della filosofia, e non può essere semplicemente espunto perché a Popper (in modo peraltro del tutto legittimo) non piaceva il modello sociale dell’ormai defunto comunismo storico novecentesco.

A proposito della concezione giudiziaria della filosofia sostenuta da Popper abbiamo parlato di dilettantismo riduttivo. La stragrande maggioranza degli studiosi seri di Platone, Hegel e Marx sanno perfettamente (e lo hanno abbondantemente scritto) che il modello semplificato di Popper è anche filologicamente indifendibile. Eppure, il relativo successo della concezione paranoica e giudiziaria della filosofia sostenuta in questa opera di Popper è verificabile anche in correnti di pensiero di derivazione esplicitamente non popperiana. Ad esempio, il cosiddetto pensiero debole, che ha avuto una certa diffusione in Italia negli anni Ottanta e Novanta, in cui ha accompagnato spiritualmente e sociologicamente la dissoluzione della tradizione storicista del marxismo italiano, pur non rifacendosi per nulla a Popper, ne ha ripreso di fatto la concezione giudiziaria della filosofia, per cui i sostenitori “dialettici” della verità filosoficamente accertabile sono stati i responsabili diretti ed indiretti dell’intolleranza politicamente esercitata in loro nome. I popperismo ed il pensiero debole sono accumunati dall’idea per cui l’uso della dialettica per perseguire la verità filosofica (e questo uso è innegabilmente presente, sia pure in forme diversissime, in Platone, Hegel e Marx) è l’anticamera teorica del totalitarismo politico. La dialettica è così penalmente giudicata come responsabile teorica della violenza nella storia.

Passata la congiuntura teorica ed ideologica degli anni Ottanta e Novanta e sulla base di una prospettiva più ampia come quella possibile nel nuovo decennio che si apre ora, è possibile capire le ragioni che hanno favorito il successo di questa concezione giudiziaria della filosofia. Queste ragioni, al 100% ideologiche e non filosofiche, possono essere capite, attraverso un’opera di contestualizzazione storica precisa, che ricostruisca i conflitti ideologici della seconda metà del Novecento, in particolare sotto il profilo della contrapposizione fra il sistema economico capitalistico a guida americana ed il comunismo storico novecentesco a guida sovietica. Comprendere le ragioni ideologiche non significa però giustificare le ragioni filosofiche, a meno che non si voglia identificare filosofia con ideologia. Ma il concetto di educazione filosofica è incompatibile, radicalmente incompatibile, con l’identificazione di filosofia ed ideologia.

 

Il lettore si accorgerà presto che i capitoli due, tre e quattro, dedicati anche e soprattutto a Platone, Hegel e Marx, rovesciano integralmente la concezione giudiziaria della filosofia di Popper e del cosiddetto “pensiero debole”, perché Platone, Hegel e Marx (ma non solo) vengono visti come pensatori essenziali per concretizzare un adeguato concetto di educazione filosofica. Nello stesso tempo bisogna ammettere apertamente che la concezione giudiziaria della filosofia non è la sola che deve essere superata, criticata e scoraggiata, ma bisogna anche contestualmente superare, criticare e scoraggiarne un’altra anch’essa molto diffusa, che definirò brevemente concezione sociologica della filosofia. Questa nefasta concezione, diffusissima nel Novecento in particolare fra gli intellettuali di orientamento marxista, riduce integralmente il significato di validità e di verità di una filosofia alla sua origine sociale storicamente accertabile. Ritornerò ovviamente su questo problema nel primo capitolo. Ma la cosa è di tale importanza da giustificare ampiamente la segnalazione di questo problema già nell’introduzione. Non è infatti possibile progettare un’educazione filosofica, e criticare conseguentemente la concezione giudiziaria della filosofia, senza liberarsi integralmente della concezione sociologica della filosofia.

Ma cos’è questa concezione sociologica della filosofia? In prima approssimazione, è la concezione che scioglie ed annulla la verità filosofica nella cosiddetta “rappresentanza diretta” di interessi individuali e sociali. Non mi sogno neppure di negare che la filosofia ha un rapporto, diretto ed indiretto, con gli interessi individuali e sociali. Questo rapporto esiste, ed è anche un bene che ci sia, perché la stessa riproposizione di un adeguato concetto di educazione filosofica ha un rapporto con gli interessi, diretti ed indiretti, di tutti i viventi su questo pianeta. Ma la concezione sociologica della filosofia non si limita a prendere atto di questo evidente e fisiologico rapporto di interessi. Essa si spinge a sostenere il relativismo della verità, definito appunto sociologicamente sulla base della “rappresentanza”, diretta o indiretta, di precisi interessi individuali e collettivi. Questi “interessi”, a seconda che siano individuali o collettivi, danno luogo a varianti del sociologismo che potremo chiamare rispettivamente psicologismo ed economicismo. Si ha lo psicologismo quando l’elaborazione di un filosofo è integralmente ricondotta, non solo nella sua genesi ma anche nella sua validità, all’elaborazione dei suoi bisogni e delle sue condizioni personali. Per fare un esempio fra i molti, la concezione solidaristica e pessimistica della filosofia di Giacomo Leopardi è integralmente ricondotta in modo psicologistico alle sue condizioni fisiche ed ai suoi conflitti infantili. Si ha l’economicismo quando l’elaborazione di un filosofo è integralmente ricondotta, non solo nella sua genesi ma anche nella sua validità, all’elaborazione degli interessi collettivi del gruppo sociale di cui egli si fa rappresentante culturale e simbolico. Per fare un esempio fra i molti, l’individuazione da parte di Talete di Mileto dell’acqua come l’elemento essenziale, primordiale ed originario di tutte le cose è integralmente ricondotta in modo economicistico agli interessi dei gruppi sociali di commercianti, marinai e naviganti di Mileto, per cui l’acqua del mare, e non la terra, era effettivamente la principale risorsa economica.

È bene naturalmente ripetere che sia lo psicologismo che l’economicismo sono prospettive in un certo senso legittime ed anche in alcuni casi illuminanti. Non si tratta dunque di escluderle, e di applicare loro incongruamente la stessa concezione giudiziaria della filosofia che abbiamo prima recisamente sconsigliato. Ma occorre però ribadire che essi confluiscono in una comune concezione sociologica della filosofia che resta fuorviante, come appare del resto chiaro se intraprendiamo un’analisi un po’ ravvicinata delle concezioni prima positivistica e poi marxista della filosofia.

La concezione positivistica della storia della filosofia precedente contiene elementi sia della concezione giudiziaria che della concezione sociologica della filosofia. Con poche eccezioni, i contenuti veritativi presenti nelle concezioni religiose (dette teologiche) e nelle concezioni filosofiche (dette metafisiche) sono condotti sotto scorta al tribunale della ragione scientifica e positiva, e sono poi condannati. Anche se poi come attenuante viene invocata l’ignoranza e la superstizione, i capi d’accusa sono ricavati fondamentalmente dagli interessi conservatori e regressivi dei gruppi sociali che stanno dietro alla teologia ed alla metafisica: i sacerdoti, i preti, le classi oziose, i prepotenti, eccetera. Alle menzogne della religione e della filosofia viene opposta la verità del metodo scientifico e delle discipline “positive”, per cui è pur sempre una volontà di verità e di conoscenza che viene agitata per questa strategia distruttiva verso tutte le forme di sapere che non corrispondono in qualche modo al metodo positivo. Vi è qui un punto di cruciale importanza, che non mi stancherò di segnalare nei capitoli tre e quattro. Apparentemente, la volontà positivistica di perseguire la verità scientifica razionale è incompatibile con molti dei successivi “irrazionalismi”, che negano semplicemente la possibilità della conoscenza razionale, compresa quella “moderna” e scientifica. In realtà, ad uno sguardo più profondo, è proprio la delegittimazione positivistica degli elementi di verità contenuti nelle religioni e nella filosofia che prepara il terreno alla delegittimazione successiva anche delle cosiddette verità scientifiche e positive. Il gioco della delegittimazione della conoscenza è infatti senza limiti e senza regole. I distruttori delle pretese veritative delle religioni e della filosofia, anche se questo gioco al massacro è condotto in nome della sola sovranità della conoscenza veritativa razionale, scientifica e positiva, segano il ramo su cui anche loro sono seduti, ed in più, essendo del tutto privi di senso dell’umorismo e di sensibilità autocritica (incompatibili con la spocchia scientista), si chiedono con il sedere dolorante per terra chi mai abbia propiziato questo irrazionalismo e questo ritorno dell’oscurantismo. Un comodo specchietto potrebbe essere certamente di grande aiuto. Nel terzo capitolo, in particolare, segnaleremo che la strategia filosofica di Hegel, tendente a non delegittimare le istanze veritative contenute nelle religioni e nella filosofia, finisce con l’essere la più adatta anche per non delegittimare le istanze conoscitive prodotte dal cosiddetto intelletto scientifico e dai metodi delle moderne scienze della natura.

Passando alle forme di marxismo, talvolta dette pudicamente “volgari”, ma poi di fatto concretamente le sole ad essersi incorporate storicamente nel Novecento in classi sociali, stati, partiti e soprattutto sistemi scolastici ed universitari, vediamo che la storia generale è stata incapsulata in una sorta di teoria rigida dei cinque stadi dell’evoluzione umana, e la storia della filosofia è stata riscritta sulla base di una sorta di opposizione frontale fra i “buoni”, cioè i materialisti, ed i “cattivi”, cioè gli idealisti. A proposito della teoria dei cinque stadi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo ed infine comunismo), una teoria che ha dominato per tutto il Novecento in tutti (senza eccezione) i sistemi scolastici ed educativi degli stati del comunismo storico novecentesco, è evidente che qui l’originale teoria di Karl Marx sulla successione dei modi di produzione sociali è sfigurata e ricomposta in una tipica teoria positivistica della stadialità. La grande narrazione stadiale è infatti l’inarrivabile modello della concezione positivistica del tempo storico, una metafisica del determinismo necessitato del progresso delle forze produttive. A questa stadialità illuministica e positivistica è peraltro unita una sorta di circolarità vagamente magica, per cui dal comunismo primitivo perduto si ritorna ad un comunismo classistico di partito, grazie al divino intervento delle famose “forze produttive”.

Ancora più interessante della ricostruzione dell’intera storia dell’umanità in termini di teoria dei cinque stadi (in cui l’inevitabile avvento del comunismo, dedotto dalla crescita delle forze produttive, può essere filosoficamente interpretato a piacere come un sogno o come un incubo) è però la ricostruzione della storia della filosofia in termini di scontro secolare fra idealismo e materialismo. È noto che Marx non propose mai direttamente questo schema pugilistico, ma fu il dilettante geniale Engels che lo fece, definendo materialismo il Primato dell’Essere (materiale) sul Pensiero (ideale), e viceversa idealismo il Primato del Pensiero (ideale) sull’Essere (materiale). È meno noto, anzi è pochissimo noto (anche se è rivelatore) che questo schema pugilistico non è per nulla farina del sacco di Engels, ma è derivato dalle opere dell’accademico positivista tedesco Ernst Laas, che peraltro in modo assai più corretto (anche se egualmente stravolto) parlava di contrapposizione secolare fra platonismo e positivismo. La modifica attuata da Engels dello schema di Laas peggiora ulteriormente l’originale, riconducendolo in modo unilaterale ad un classificatore puramente gnoseologico. In questo modo, per circa un secolo, la struttura fondamentale della concezione globale marxista (e quindi comunista) della filosofia non è stata altro che la semplificazione di uno schema già semplificato proposto da un onesto ed ultra-accademico professore positivista tedesco.

 

A questo punto, il paziente lettore di questa introduzione potrebbe chiedersi perché ci siamo indugiati tanto a lungo nella duplice critica alla concezione giudiziaria ed alla concezione sociologica della filosofia. Ciò che abbiamo anticipato fino a qui dovrà comunque essere ripreso più analiticamente nei cinque successivi capitoli, con un inevitabile rischio di ripetizione. Vi era in realtà una ragione di questo indugio, e possiamo ora segnalarla. Il duplice influsso convergente delle errate concezioni giudiziaria e sociologica della filosofia non è infatti soltanto un impedimento diretto al progetto di una educazione filosofica di cui alcuni insigni modelli del passato ci mostrano l’opportunità e la praticabilità, ma è anche la causa più immediata di uno snervante senso di impotenza e di irrilevanza che indebolisce il clima filosofico di questi anni, che definirò in prima approssimazione minimalismo filosofico. Questo minimalismo filosofico è il prodotto diretto di una indigestione di concezione sociologica della filosofia, da cui si crede di poter guarire con un’affrettata disintossicazione ispirata ad una concezione giudiziaria e purgativa della filosofia stessa. Si torna alle piccole cose non certo dopo aver realmente perseguito le grandi, ma dopo aver soltanto fantasticato ed immaginato di perseguirle. Si rinuncia all’assalto al cielo dopo aver preso una brutta sudata scalando la collinetta davanti a casa. Si dichiara che l’uva è acerba dopo aver tentato solo alcuni timidi saltini in elevazione di alcune decine di centimetri. Si proclama di essere ormai disincantati dai giochi olimpici dopo essere stati scartati alla selezione delle gare provinciali.

Il minimalismo filosofico si esprime mediante volonterosi temini, in genere molto politicamente corretti, in cui l’etica e la filosofia vengono spiegate a figli, nipoti, cugini e dirimpettai. Questo minimalismo filosofico famigliare non deve assolutamente essere disprezzato in quanto tale, dal momento che una vita buona e bene vissuta è anche (ma non solo) la somma di mille minimalismi quotidiani, dal rifarsi i letti al gettare nel posto giusto i calzini sporchi. Il fatto è che questo minimalismo filosofico, in genere, ispirato dal passaggio dal vecchio buon senso comune conservatore di “destra” al nuovo buon senso comune progressista e politicamente corretto di “sinistra”, non è affatto bonaccione ed innocente come sembra. Questo minimalismo filosofico ha interiorizzato la sconfitta storica della vecchia concezione sociologica della filosofia, ha metabolizzato integralmente la concezione giudiziaria della filosofia, e si presenta in questo modo estremamente “saggio”. In questo modo il dialogo filosofico minimalistico fra padri e figli, che si presenta ispirato al rispetto per le giovani generazioni che non si vogliono “caricare” con le utopie fallite dei genitori, si rovescia nel suo contrario, dal momento che sulla giovane ed incolpevole generazione viene sottilmente comunicata la “messa in guardia” dal volere troppo e dal pensare troppo il alto. Si è così di fronte ad un tipico esempio di ipocrisia giovanilistica, su cui vale la pena di soffermarsi un poco.

 

Che cosa intendiamo con ipocrisia giovanilistica, e come possiamo evitare questo inaccettabile atteggiamento paternalistico? Ecco un tema che non potevamo tralasciare in questa introduzione, dal momento che una messa in guardia da questo errore è preliminare ad un concetto adeguato di educazione filosofica. L’ipocrisia giovanilistica, che oggi trasuda dalle pagine culturali dei giornali, rappresenta infatti un fenomeno culturale che bisogna saper interpretare prima di affrettarci a condannarlo, come pure merita.

L’ipocrisia giovanilistica è legata ad un fenomeno apparentemente opposto, che è l’abituale deprecazione dei costumi dei giovani fatta dalle persone di mezza età (a volte ancor più degli anziani, che sono spesso più tolleranti, come lo sono i nonni con i nipoti). La deprecazione dei cattivi costumi dei giovani è un fenomeno ciclicamente presente in ogni generazione, dalle caverne ad oggi, ed è allora naturale che ce ne si sbarazzi affrettatamente come di un’infondata retorica moralistica. In realtà il fenomeno della insistita e quotidiana deprecazione dei cattivi costumi dei giovani, che impegna tassisti ciarlieri e pensionati sulla panchina dei giardinetti, insegnanti disperati ed idraulici in pausa pranzo, militanti ingrigiti ed amareggiati dalle continue pittoresche sconfitte politiche e casalinghe totalmente estranee al mondo delle illusioni politiche, eccetera, è un fenomeno troppo diffuso per essere ridotto ad una sorta di triste menopausa ideologico-culturale. Dietro la retorica deprecatoria sui giovani “che non avrebbero più valori” ci sta in realtà qualcosaltro, e questo qualcosaltro è un confuso sentimento di sconfitta culturale e morale da parte degli anziani stessi, che non possono non riflettere sull’incapacità di trasmissione generazionale di questi famosi “valori”, reali o presunti. La deprecazione dei presunti cattivi costumi dei giovani deve dunque essere decifrata come una forma di inadeguata ed impotente “filosofia popolare”, un esempio da manuale di mancata educazione filosofica.

L’ipocrisia giovanilistica non consiste però nella deprecazione, quanto nella commiserazione della situazione storica attuale in cui vivono soprattutto le giovani generazioni. L’analisi di questa commiserazione, che è recentemente diventata in Italia un vero e proprio “genere” giornalistico, è ricca di insegnamenti, perché in generale essa sostituisce, o meglio prende il posto, di un’onesta autocritica politica e storica della parte “vincente” della generazione che sta fra i cinquanta e gli ottanta anni. I giovani d’oggi vengono commiserati come generazione “scarognata” (il termine è di Giorgio Bocca), che ha cioè la scarogna di vivere in un mondo in cui la dittatura anonima dell’economia finanziaria ha creato un mondo incontrollabile, in cui l’uomo è integralmente scisso dai suoi fini, ed in cui lo stesso lavoro è sottomesso a meccanismi competitivi disumani che lo rendono precario, flessibile, pesantemente inflazionato e svalutato.

Questo heideggerismo giornalistico è estremamente istruttivo per comprendere la situazione spirituale attuale. Oggi è assolutamente abituale il fatto che saggisti e giornalisti, che hanno propugnato per decenni (e continuano a farlo) l’accettazione del “principio di realtà” dei meccanismi capitalistici rispetto alle famose utopie autoritarie della rivoluzione, esprimano quotidianamente diagnosi globali sulla totalità sociale indirettamente (o addirittura direttamente) ricavate dalle tesi più radicali di Marx o di Heidegger, senza peraltro che vengano tratte conclusioni politiche e sociali di alcun tipo. Abbiamo parlato di “heideggerismo giornalistico” per indicare la popolarizzazione della complessa tesi filosofica per cui la consumazione di tutte le tesi ideologiche o metafisiche sfocia non certo in una disincantata ma liberatoria saggezza, ma nell’imposizione anonima di un meccanismo di riproduzione tecnica di un mondo insensato. Questo heideggerismo giornalistico è così solidale con l’ipocrisia giovanilistica: poveri giovani, avete in fondo ragione a non credere in nulla, dal momento che non c’è proprio nulla in cui credere!

 

In un’introduzione, inevitabilmente, si trovano spesso esposte in modo disordinato tesi ed argomentazioni che poi nel saggio vero e proprio vengono riesposte in modo più chiaro e soddisfacente per il lettore. E tuttavia in una introduzione si trovano più facilmente le nascoste premesse emozionali che hanno motivato l’autore a scrivere. Nel mio caso, è evidente l’irritazione verso il trombone sopravvalutato Popper, la concezione giudiziaria della filosofia e soprattutto l’ipocrisia giovanilistica. È bene soffermarsi dunque un po’ su questo punto. La mia generazione (chi scrive è nato nel 1943) ha spesso fortemente creduto in miti politici largamente infondati, ed in capacità storiche incredibilmente sopravvalutate di classi sociali e di partiti politici di qualità debolissima e modestissima. La consumazione di queste illusioni ha portato quasi sempre ad esiti tutti indistintamente sciocchi e malvagi. In primo luogo, una sorta di pentitismo, quasi sempre disgustoso e stucchevole, per cui ci si è pentiti di ciò di cui invece non c’era nulla per cui vergognarsi, perché l’adesione sincera e soggettivamente motivata a miti politici socialmente mobilitanti e storicamente giustificati è la regola, non l’eccezione, per un giovane dotato di quella freschezza e di quel coraggio che ci si aspetta appunto da un giovane, in cui la sana sovrabbondanza di forze fisiche e psichiche non si è ancora ripiegata nella debolezza del corpo e nella timidezza dello spirito tipiche di età più avanzate. In secondo luogo, una sorta di cinismo, diffuso soprattutto fra i politici di professione e gli intellettuali giornalisticamente adulti ed affermati, per cui la personale consumazione delle illusioni è eretta in filosofia della storia ed in saggezza pratica. In terzo luogo, in una estetica della sconfitta, per cui il pentitismo ed il cinismo vengono per così dire trasfigurati in una immagine del mondo e nobilitati come elevata forma espressiva.

Rifiutando gli esiti del pentitismo, del cinismo e della estetica della sconfitta non ritengo affatto di essere moralmente e culturalmente “migliore” di coloro che hanno giustificato questi esiti. Il ritenersi “migliori” ha sempre un acido retrogusto moralistico e predicatorio, come se il restare fedeli alle proprie posizioni, e non “cambiare bandiera”, fosse di per sé un argomento filosoficamente risolutivo. È bene sapere che non lo è per niente, e la coerenza non è automaticamente una virtù. Chi segue coerentemente una sciocchezza resta uno sciocco coerente. Non si tratta allora di opporre al pentitismo, al cinismo ed all’estetica della sconfitta una fedeltà ad un passato integralmente trascorso ed ormai più vecchio dell’impero romano e del mondo medioevale. Si tratta di assumere un atteggiamento che non impedisca ai giovani di vivere (in senso spirituale e culturale) perché li si vuole a tutti i costi legare alle proprie fobie, alle proprie manie ed alle proprie ossessioni. Apparentemente, la concessione ai giovani del diritto di vivere sembra un’ovvietà derivata dal codice genetico della specie, che porta gli animali adulti a proteggere istintivamente i propri cuccioli. In realtà, ciò che sembra spontaneo ed automatico sul piano biologico non lo è più sul piano culturale, in cui si cercano continuamente “continuatori”, “perfezionatori”, eccetera.

In cosciente dissenso verso questa impostazione cannibalica, questo saggio non invita a continuare niente. Esso dice soltanto: signori, vi prego di considerare che l’esperienza storica ci tramanda alcuni modelli di educazione e di filosofia, e cioè di educazione filosofica, e che oggi sembra (spero che questo modesto e virtuoso verbo dubitativo venga convenientemente apprezzato da scettici e razionalisti) che la società in cui viviamo e vivremo non sia in grado di avere un vero modello di educazione; se è così, vedete voi se tutto questo vi piace oppure se vi suscita un leggero brivido di inquietudine. Personalmente, mi suscita un leggero brivido di inquietudine. Questo brivido di inquietudine è il principale movente psicologico soggettivo di questo saggio. In quanto alle conclusioni di questo saggio, che vengono ovviamente tratte nell’ultimo capitolo, ma che sono già anticipate qua e là nei precedenti (come è inevitabile, dato che il pensiero è circolare e non lineare, e torna sempre sugli stessi punti), giudicatele voi come preferite. Avete pagato (spero) il prezzo del libro, ed in questo prezzo è inclusa la libertà di giudizio, in una vasta gamma di posizioni che vanno dal consapevole e meditato consenso alla disapprovazione palese.

 

Per concludere questa introduzione, mi permetto di facilitare il lettore con una ricapitolazione preliminare del contenuto di questo saggio. Esso spazia su mille problemi e fa mille allusioni a complicate questioni storiche e culturali. Tuttavia, mi sembra che lo stile circolare dell’argomentazione sfoci in un racconto relativamente lineare della storia dell’educazione filosofica antica, moderna e contemporanea. Questo racconto è riassumibile in tre distinti movimenti del pensiero e dell’esposizione.

In un primo momento (che corrisponde soprattutto al primo capitolo) si insiste sui concetti di filosofia e di educazione. Al di là di dettagli che possono inevitabilmente sembrare un po’ confusi ai non specialisti, la nozione di filosofia viene strettamente correlata alla nozione di dialogo, e la nozione di educazione viene strettamente correlata alla metafora del viaggio. Ma se su questa doppia correlazione ci può essere un largo consenso (ed io mi aspetto infatti un largo consenso, visto che nessuno è apertamente contro il dialogo e contro il viaggio, che evocano entrambi cose buone ed interessanti), il consenso sarà certamente minore con l’arrivo delle specificazioni ulteriori. La filosofia vive esclusivamente di dialogo veritativo, mentre il dialogo intenzionalmente e programmaticamente non veritativo si chiama retorica, non filosofia. L’educazione vive esclusivamente di un viaggio teso alla conoscenza ed al coraggio, perché ci vuole sempre un po’ di coraggio per opporsi e resistere al sistema di valori e di comportamenti dominanti nel tempo storico in cui si vive. Un apprendimento che non comprende la possibilità della resistenza e dell’opposizione si chiama istruzione, non educazione. La retorica e l’istruzione sono entrambe necessarie, ma sono distinte radicalmente in via di principio dalla filosofia e dall’educazione. La retorica e l’istruzione possono e debbono essere praticate, perché sono utili all’organizzazione della vita quotidiana, ma non devono diventare l’orizzonte complessivo del senso della vita umana. Niente di più, ma anche niente di meno.

In un secondo momento (che corrisponde soprattutto ai tre capitoli centrali, il secondo, il terzo ed il quarto) si cerca di applicare il binomio di filosofia e di educazione ad alcuni grandi esempi storici. Essi non sono assolutamente i soli che potevano e dovevano essere scelti. Ad esempio, l’educazione cristiana medioevale (di cui Dante Alighieri è un prodotto sublime) avrebbe potuto tranquillamente essere fatta oggetto di un capitolo specifico. Non voglio balbettare inutili scuse per non averlo fatto, o per non aver fatto scelte analoghe (come ad esempio l’educazione illuministica, eccetera). Ciò che ho messo è evidentemente ciò che mi è più vicino e più caro, e non posso evitare la responsabilità di aver dato spazio a presenze e di aver prodotto delle assenze. In ogni caso, questi tre grandi esempi storici scelti (la sapienza greca, la filosofia di Hegel, ed infine Marx ed il comunismo storico novecentesco) sono stati trattati come “casi di studio” della concezione di educazione filosofica prima anticipata, quella del viaggio veritativo che contiene momenti conoscitivi, dialogici e di messa alla prova di coraggio.

Ognuno di questi tre grandi esempi storici è stato “saggiato” secondo quattro dimensioni storiche e culturali, che sono state ripetute per tutti e tre i casi trattati. Primo, la genesi storica particolare di queste forme culturali. Secondo, la validità universale che queste forme culturali mantengono tuttora al di là della genesi e del tramonto storico che le ha temporalmente caratterizzate. Terzo, il modello educativo e pedagogico che queste tre forme culturali hanno proposto. Quarto, le congiunture storiche specifiche che hanno fatto storicamente tramontare la versione originaria ed autentica di queste tre forme culturali. Sarebbe sovrabbondante e ripetitivo (anche se forse didatticamente utile) anticipare qui queste quattro dimensioni (che moltiplicate per tre fanno dodici profili autonomi). Il lettore però non si perderà, perché questi dodici profili autonomi sono riassunti in dodici distinti paragrafi, quattro per ognuno dei tre capitoli. Tutto questo discorso articolato porta però ad una semplice conclusione, che tutti e tre i casi storici esaminati disponevano di un serio modello di educazione filosofica.

In un terzo momento (che corrisponde soprattutto all’ultimo capitolo, il quinto) si esamina la contemporaneità storica, che viene un po’ sommariamente individuata attraverso una definizione (largamente provvisoria come è giusto che sia per tutte le definizioni) costruita attraverso un profilo concettuale mutuato sia da Karl Marx che da Martin Heidegger. Questa contemporaneità storica sembra priva di qualsiasi modello di educazione filosofica. Questa contemporaneità ha spinto al massimo grado l’efficacia e la potenza della retorica (nella forma soprattutto della persuasione televisiva e dell’irrilevanza del dialogo ridotto a chiacchiera) e dell’istruzione (messa al servizio della mobilità, della flessibilità e della integrale sottomissione ai movimenti finanziari del denaro). Questa contemporaneità, caratterizzata dal dominio totalitario e soverchiante dell’economia, che ha per la prima volta nella storia svuotato quasi integralmente e sottomesso a sé la religione e la politica, succede ad un Novecento che è stato una sorta di secolo non solo breve (Hobsbawm), ma addirittura brevissimo (Bontempelli). Questa contemporaneità presenta tratti oligarchici sul piano pratico e nichilistici sul piano teorico. Le oligarchie ed i nichilismi devono dunque essere individuati, diagnosticati e soprattutto nominati. Per individuarli e diagnosticarli ci vuole però l’uso della conoscenza. Per nominarli, anche solo per nominarli, ci vuole un po’ di coraggio, perché in generale chi nomina, sia pure cortesemente, le oligarchie ed i nichilismi è escluso, emarginato ed espulso dal mondo delle persone rispettabili. L’esclusione non è più sancita come ai vecchi tempi delle metafisiche trionfanti dai roghi e dalle tenaglie roventi, ma è realizzata con l’esclusione dai circuiti della comunicazione amministrata e manipolata. Chi si accontenta, goda. Chi invece non si accontenta, ci faccia un pensierino.

Questo libro è dunque consigliato, ed anzi dedicato, a coloro che vogliono farci un pensierino. Con loro, ma solo con loro, mi scuso per le oscurità inutili e per le ripetizioni ossessive. Con chi si accontenta e gode, invece, non ho nulla di cui scusarmi, se non per quel minimo di cortesia che non si nega a nessuno.

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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