L’amputazione della compagna
Dopo un processo di conversione protrattosi con ondivaga, interminabile, spossante laboriosità, Aurelio Agostino ricevette il battesimo dalle mani consacrate del vescovo Ambrogio, a Milano, nel 387. Oggi, sia pure solo nella finzione di un testo drammaturgico, viene finalmente battezzata da Maura Del Serra anche la donna che per lunghi anni, a partire da un’ancora acerba giovinezza e fino alla vigilia di quello storico battesimo, amò Agostino. La donna che ne condivise il letto, la casa, la vita di coppia. La misteriosa cartaginese da cui il brillante retore di Tagaste ebbe, appena diciottenne, un figlio di promettente quanto effimera traiettoria, Adeodato. Sul palcoscenico virtuale dove la proietta l’azione di Scintilla d’Africa, l’oscura Innominata acquista ben più di un nome “parlante”, dai riverberi sfavillanti e dal suono e dal significato identici in latino come in italiano. Si riveste di una prepotente fisicità. Si arricchisce di una psicologia complessa, radicata in un abisso d’interiorità. Attraverso una vorticosa alternanza di gioie e sofferenze, slanci e umiliazioni, vive l’ineluttabilità del suo destino con una fierezza che la rende degna di ergersi come co-protagonista, più che deuteragonista, alla stessa altezza (se non persino al di sopra) del protagonista chiamato al trionfo della Grazia. In sintesi, la Scintilla di Maura Del Serra usufruisce di un clamoroso riscatto dall’anonimato in cui, forse per una sorta di pudore retroattivo o magari per scrupolo di mantenere il riserbo sull’identità di una persona ancora vivente durante la stesura dell’opera autobiografica, il figlio di Patrizio e Monica l’aveva relegata nelle pagine reticenti delle Confessioni.
Tale (relativa) reticenza ha generalmente suggerito, in merito al rapporto di Agostino con l’Anonima Cartaginese, interpretazioni di carattere riduttivo. Fondandosi su un passo delle Confessioni in cui l’Autore si raffigura, nel primo approccio con quella ragazza, come oggetto piuttosto che soggetto d’amore,1 Rodolfo Doni nega che il giovane africano abbia vissuto l’esperienza dell’innamoramento nella sua pienezza: non ci sarebbe stata la decisiva componente sentimentale.2 E anche Giuliano Vigini, pur prospettando una visione molto più bilaterale di «questo legame semiconiugale», apprezzato come «elemento equilibratore nella vita affettiva», in un quadro di reciprocità che non mortifica il ruolo del sentimento,3 tende poi a smorzare la luce sul momento della separazione intervenuta a Milano, irrinunciabile presupposto tanto sollecitato da Monica per il definitivo ingresso del figlio nella Chiesa.
Ma è filologicamente legittimo un simile ridimensionamento? Con tutto lo svolgimento della sua pièce agostiniana, Maura Del Serra lo confuta nel modo più radicale, appassionato e convincente. Oserei persino asserire che a darle ragione è lo stesso Agostino. Andiamo infatti a rileggere il passo critico delle Confessioni in cui si rievoca l’“imbroglio” architettato da Monica, certo in buona fede e nella persuasione di promuovere il bene supremo del figlio, per liberarlo dalla catena che lo avvince all’Innominata in una disdicevole mésalliance, e gettare le basi di un “santo” matrimonio purificatore con una fanciulla “di buona famiglia”.
Il disagio del vescovo d’Ippona nel volgersi indietro a riconsiderare «il più oscuro episodio del suo comportamento e di quello di Monica», «l’unico gesto discutibile moralmente per la nostra sensibilità d’oggi»,4 traspare a chiare lettere. Al di là dell’imbarazzo, tuttavia, quello che percepiamo con un brivido, a distanza di sedici secoli, è un vero e proprio gemito, un singhiozzo, uno spasimo di sofferenza atroce, la rivelazione, nel colloquio dell’anima con Dio, di un terribile suicidio amoroso:
Quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze, la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore […] ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo. Essa partì per l’Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei. Ma io, sciagurato, […] mi procurai un’altra donna, non certo moglie […]. Non guariva per questo la ferita prodotta in me dall’amputazione della compagna precedente; però, dopo il bruciore e lo strazio più aspro, imputridiva, e la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata.5
Di che lacrime gronda e di che sangue potremmo commentare con accenti foscoliani questo addio all’amore terreno, alla giovinezza, alla virilità sponsale! E quale potenza di afflato poetico spira in questa pagina che sembra rivaleggiare con la sublime tragicità dell’eros in Sofocle o in Euripide!
Ebbene, sono propenso a credere che la finissima intuizione da cui è sgorgato l’atto creativo, e insieme ri-creativo, di Maura Del Serra, quel guizzo della mente e del cuore che ha scelto di percorrere la via del teatro, della sua ineguagliabile comunicatività, risieda precisamente in una rilettura, non meno razionale che emozionale, della più inconfessabile tra le confessioni fatte da Agostino “davanti a Dio e agli uomini”. È dalla dolente cicatrice dello strappo, dallo stigma della lacerazione, dalla croce (audemus dicere) del sacrificio e della rinuncia a sentimenti troppo umani, che la poetessa e drammaturga pistoiese ha visto scaturire le stille o, per giocare sul titolo, le scintille di una storia che reclamava di essere salvata dalla cancellazione di una censura spirituale. Una storia antica da raccontare con moderni strumenti espressivi, intersecando la prosa recitativa con squarci di poesia lirica. Una storia talmente carica di drammaticità da non poter essere rappresentata altro che in chiave drammaturgica. Poiché, in ultima analisi, la dinamica di questo sacro delitto, «l’amputazione della compagna», consiste nello scontro impacificabile fra l’eros e l’agape, nella lotta senza quartiere fra l’amore umano incarnato da una giovane amante e l’amore divino veicolato dall’impietosa santità di un’anziana madre, non per sé possessiva ma in nome del Signore al quale si è consacrata come infaticabile ancella della Provvidenza («levatrice paziente», secondo la definizione di suo figlio in una battuta della scena iv).
Gran parte del fascino sprigionato da Scintilla d’Africa dipende proprio dall’impostazione del dramma come un duello di alto profilo morale e sentimentale, combattuto sul terreno della giovinezza di Agostino dalle due donne per lui “fatali”: Monica e Scintilla, “suocera” e “nuora” archetipiche eppure, al tempo stesso, fortemente caratterizzate nella loro individualità, nella loro diversissima femminilità. Al centro del campo di battaglia sta l’eterno catecumeno, preda di una fede oscillante, protagonista di una conversione sempre imminente e mai matura, ostaggio di una vana ricerca dell’equazione che risolva il dilemma, la dicotomia figlio/amante. È lui, Agostino, la posta in palio: il suo destino, il suo futuro, l’alternativa fra una normalità “borghese” (nel caso prevalesse Scintilla) e una eccezionalità mistica (esito della vittoria, comunque annunciata e scontata, di Monica). E con la vera vocazione del professore di retorica è in gioco addirittura la sorte del cristianesimo in Occidente, la possibilità per la nuova religione venuta dall’Oriente di fondersi con il retaggio della cultura latina, di conciliare il pensiero di Platone e Aristotele con il kérygma di Cristo, la lingua di Cicerone con il lessico del Vangelo.
Questo fondale per così dire “metastorico” si distende attraverso tutte le cinque scene costitutive del dramma. Gli episodi si dipanano invece in contesti di storicità quotidiana, tenuta suggestivamente in bilico fra l’oggettività del mondo tardoantico, con il suo stile di vita, le sue concezioni filosofico-religiose, i suoi riferimenti culturali, e la soggettività di un sentire moderno che spande sui dialoghi, con discrezione, una sottile patina attualizzante. Certo, la frammentarietà e lacunosità delle fonti, a partire dalle Confessioni stesse, concede spazio al talento immaginativo della drammaturga, soprattutto nel trattamento della sfaccettata figura di Scintilla. Non poco giova al dinamismo dell’intreccio, inoltre, l’invenzione ex nihilo di un personaggio-chiave per i raccordi fra i tre vertici del triangolo madre-figlio-amante come l’oste Bucefalo, sanguigno popolano che si direbbe preso in prestito da una commedia di Menandro o dalle Metamorfosi di Apuleio, pungente contraltare alla raffinatezza intellettuale di Agostino, del suo amico Alipio e delle due donne, anch’esse tutt’altro che incolte.
Sempre nel regime di una libertà tanto lontana dall’arbitrio quanto attenta alle esigenze della letteratura al servizio del teatro, rientra una leggera e non illegittima forzatura dei dati storico-biografici su cui sono intessute le vicende sceniche. L’invasione dei Vandali di Genserico, ad esempio, viene opportunamente antidatata a poco dopo il ritorno di Agostino da Roma a Tagaste, anziché essere situata nell’ultimo scorcio del suo episcopato a Ippona. E felici ancorché infedeli ritocchi investono un po’ tutti i personaggi “reali”, con cospicui vantaggi per l’economia dell’opera.
Un intelligente contributo alla rappresentazione di Scintilla come donna di innato orgoglio e di esotica indocilità è offerto dall’idea di assegnarle nobili origini antecedenti alla sua condizione di prigioniera di guerra ridotta in schiavitù: un elemento del tutto immaginario ma non contrastante con l’evidenza di uno status socialmente modesto che precludeva alla madre di Adeodato il diritto al matrimonio con il suo convivente. Nell’affresco delle Confessioni, e di riflesso nella moderna saggistica agostiniana, Alipio viene dipinto come un esemplare amico-discepolo, sempre al fianco del maestro, da Tagaste a Cartagine, da Roma a Milano passando per Cassiciacum, e poi, una volta battezzato anch’egli, di nuovo in Numidia, fino a divenire vescovo di Tagaste. In Scintilla d’Africa l’amicizia non è in discussione, ma la fedeltà subisce trasgressioni, sia attraverso il distacco dalla comune ricerca di fede verso una posizione laica, sia attraverso il tradimento sessuale consumato con la compagna di Agostino: espediente drammaturgico di straordinaria audacia ed efficacia, del resto non incompatibile con certe intemperanze adolescenziali dell’Alipio reale.6
In definitiva, se il personaggio che meno si discosta dalla linea della tradizione agiografica sembra proprio Agostino, la valutazione del rapporto fra immagine consacrata dal culto e rielaborazione artistica si fa inevitabilmente più problematica di fronte a Monica. Per una ragione di palmare evidenza. Nelle Confessioni l’autore della Città di Dio ha innalzato, in onore della sua Magna Mater, una basilica di stima orazianamente “più perenne del bronzo”, sormontata dal fastigio della duplice estasi di Ostia.7 Agostinisti medievali e moderni l’hanno corredata di metaforiche cappelle dove schiere di devoti si sono inginocchiate in venerazione.8
Di contro, la Monica di Maura Del Serra non è una santa dinanzi alla quale ci si genufletta volentieri. Non suscita simpatia. Un fattore estrinseco la dialettica degli opposti, consustanziale alla strategia del teatro e un altro intrinseco la coscienza della propria missione d’interprete della Grazia congiurano a farle accentuare la pedagogia dell’intransigenza, persino della durezza. No, questa Monica non desta simpatia. Compassione, semmai, per quella pia ossessione, per quella perseveranza, di volta in volta veemente o piangente, nel promuovere il disegno divino che le divora l’anima: un’ostinazione altamente ammirevole ma, nella lettura del dramma, certamente non amabile.
La nostra simpatia si dirige invece tutta verso Scintilla. Sino a trasformarsi in totale empatia. Perché lei sola, a conti fatti, ci appare come creatura di complessità, inquietudine e infine compiutezza davvero agostiniane. Lei che, in parallelo a quello di Agostino, intraprende a sua volta un cammino di maturazione, di metanoia, non meno faticoso né meno prodigioso, giungendo a convertirsi e a sviluppare, in seno a una comunità monastica, un proprio carisma. L’arco del Mistero la solleva, a poco a poco, dall’instabilità di ragazza volubile, sensuale, seduttiva, disordinatamente passionale, impigliata come Agostino nella rete del manicheismo, alla consapevolezza del proprio ruolo equilibratore accanto al grande compagno di vita e di ricerca religiosa. L’esperienza della maternità accresce e affina la sua dimensione femminile. Allo sconforto dell’abbandono reagisce ritirandosi in un’oasi dello spirito e liberando in sé i doni soprannaturali della profezia e della guarigione. Da una disfatta umana la misericordia del Dio che “atterra e suscita” trae dunque, paradossalmente, una sovrumana vittoria. Scintilla muore al mondo per rinascere al Regno dei Cieli, nuova serva del Signore.
Su di lei, sulla sua umiltà, sul suo sublimato amore, si è chinata Maura Del Serra. E le ha dedicato, con la musicalità di uno spartito teatrale, una sorta di polifonico Magnificat.
Marco Beck
1. «Mi gettai nelle reti dell’amore, desideroso di esservi preso. […] Fui amato, raggiunsi di soppiatto il nodo del piacere e mi avvinsi giocondamente con i suoi dolorosi legami» (III 1,1, trad. di Carlo Carena).
2. «Sembra piuttosto che egli non abbia provato per la donna sin dalla sua puerizia e adolescenza […] quel sentimento struggente anche beatificante, di cui ad esempio parla Dante […] quell’amore che per primo sorge nell’animo delle persone sensibili. Questo tipo d’amore nel giovane africano fu subito bruciato dall’attrazione sessuale? Forse» (R. Doni, Agostino. L’infaticabile ricercatore della verità, Milano 2000, p. 35).
3. «Il ménage familiare riconduce Agostino, oltreché sui binari di un’esperienza sentimentale normale, a una vita meno dispersiva e inconcludente» (G. Vigini, Agostino d’Ippona. L’avventura della grazia e della carità, Cinisello Balsamo 1988, p. 21).
4. R. Doni, op. cit., p. 65.
5. Confessioni VI 15,25 (trad. Carena).
6. «Alipio mi sconsigliava, per la verità, di prendere moglie […]. Personalmente egli osservava fin da allora una castità assoluta, e questa condotta era tanto più ammirevole, in quanto nei primi anni della sua adolescenza aveva sperimentato il piacere della carne. Però non vi era rimasto impicciato: ne aveva piuttosto rimorso e disprezzo» (Confessioni VI 12,21).
7. Cfr. Confessioni IX 10, 23-25.
8. Di recente, un originale omaggio in chiave di fiction è stato tributato a Monica da François Lebouteux nel romanzo Laurentius, dove della madre di Agostino emerge un profilo accattivante, segnato da un’affettuosa, pacata saggezza.