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Cat.n. ebp 069 |
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Costanzo Preve
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Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità.
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ISBN 88-88172-14-9, 2002, pp. 160, formato 170x240 mm., ex prezzo di copertina € 13,00 Collana “Divergenze” [34].
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indice - presentazione - autore - sintesi
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€ 5,00 |
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Introduzione
Questo mio libro che presento qui al lettore, e che viene pubblicato nell’anno 2002, esce in un momento storico caratterizzato da un’inaudita offensiva delle forze politiche, economiche e culturali di indirizzo capitalistico ed imperialistico. Temo, purtroppo, che questo mio inizio, questo mio incipit, possa sembrare datato e rétro. Nel linguaggio politicamente corretto della stragrande maggioranza degli intellettuali, il capitalismo viene ormai chiamato modernità oppure post-modernità, e l’imperialismo viene battezzato globalizzazione. Questo travestimento semantico non è ovviamente innocente, perché un conto è trovarsi ancora e sempre nel capitalismo imperialistico, ed un conto è trovarsi nella globalizzazione moderna (o post-moderna). Nel primo caso bisogna resistere, organizzarsi e lottare, nel secondo caso bisogna invece adattarsi, comprendere, ed al massimo protestare e disubbidire. Per questa ragione vi sono alcuni sciocchi che battezzano oggi “disubbidienti” coloro che un tempo erano chiamati rivoluzionari.
Il lettore ha dunque fra le mani un libro che non ha nulla della sinistra politicamente corretta, in nessuna delle sue varianti indigene o europee. Ma questo libro non ha neppure assolutamente nulla dell’estrema sinistra che afferma a parole di volere una rifondazione del marxismo e del comunismo, e poi cerca i percorsi di questa rifondazione a partire da una ortodossia ritenuta tuttora riproponibile (il marxismo ortodosso, l’operaismo, il bordighismo, il trotzkismo nelle sue molteplici varianti, l’anarchismo, eccetera). Da un punto di vista di mercato, questo libro può certamente interessare tutti coloro che vogliono ragionare con la propria testa e sanno bene di non avere la verità in tasca e di doverla ricercare insieme, ma non può sperare (ed in fondo non è neppure molto grave) di avere molti lettori fra coloro che sono soddisfatti della loro tradizione chiesastica di riferimento e fra coloro che ritengono i girotondi contro Berlusconi la forma di testimonianza politica e culturale massima del nostro tempo.
Questo libro è composto di otto parti, che possono anche essere lette separatamente ed in tempi diversi, anche se sono ovviamente legate insieme da un discorso logico unitario. Vi è una introduzione generale, sei capitoli tematici (dedicati rispettivamente ai rapporti fra il marxismo e la scienza, l’etica, la religione, l’economia politica, la filosofia hegeliana ed infine il Post-Moderno) ed infine un’appendice dedicata alla cosiddetta globalizzazione.
Mi scuso subito con il lettore per due caratteristiche stilistiche che possono forse un po’ disturbarlo. In primo luogo, in ogni capitolo vi è sempre una prima parte di ripetizione e di ricapitolazione degli argomenti che vengono poi sviluppati, e per esperienza so che questa scelta di tipo espositivo-didattico è gradita ad alcuni, mentre appare fastidiosa e ripetitiva per altri. A mia parziale giustificazione vorrei qui sottolineare che questa scelta non è solo dovuta agli automatismi derivati dalla mia professione di insegnante (il cui motto può essere repetita juvant), ma alla pacata convinzione per cui testi come quelli che presento al lettore devono essere in un certo senso considerati come dei semilavorati e degli abbozzi, e non ancora dei veri e propri manufatti definitivi. In secondo luogo, mi scuso anche del fatto che nelle otto parti in cui è diviso il libro vi sono molte ripetizioni, e questo è dovuto però al fatto che queste otto parti sono state originariamente concepite come distinti articoli di rivista, in cui non si poteva presupporre che il lettore di uno conoscesse anche i contenuti degli altri. Tuttavia (ed il primo nobile esempio resta l’Anti-Dühring di Engels) le riviste settimanali, mensili, bimensili ed annuali non sono il luogo ideale per la pubblicazione di testi teorici, in quanto chi le sfoglia non ha spesso il tempo di immergersi nella faticosa lettura economica, storica o filosofica, e ci vuole invece un vero e proprio libro per poter ritornarci sopra, rileggere, meditare, e scoprire infine se si è d’accordo oppure non lo si è.
La forma di questo libro non è né divulgativa né sistematica, ma è critica e decostruttiva. Mi spiegherò meglio. Non è divulgativa, perché certamente presuppone nel lettore una conoscenza precedente dei concetti della filosofia e del marxismo, conoscenza precedente che deve provenire da testi introduttivi alle conoscenze basilari sia del marxismo che della filosofia. Bisogna allora sapere in anticipo che cosa vuol dire plusvalore, e che cosa sono la dialettica ed il materialismo, Hegel e Nietzsche. Io ho molto rispetto per le opere divulgative, ritengo che siano assolutamente necessarie, e che oggi se ne scrivano sempre troppo poche, in particolare in questo momento storico, in cui l’azione concentrica degli apparati giornalistici, editoriali ed universitari tende a far “saltare una generazione”, cioè a far sì che i giovani perdano la conoscenza anche delle nozioni più elementari del dibattito marxista durato più di un secolo. Ma oggi una divulgazione dogmatica e non critica rischia di essere una divulgazione inutile ed anzi dannosa. Io so fin troppo bene di non essere il Copernico o il Newton della nuova fase del marxismo di cui abbiamo bisogno, ma so anche che la semplice divulgazione delle teorie astronomiche di Aristotele e di Tolomeo è del tutto inutile, perché il sole non gira affatto intorno alla terra, e non esiste un cielo supremo di stelle fisse incastonate nella volta celeste. I vecchi catechismi marxisti staliniani o trotzkisti poco importa, sono per me come i mappamondi aristotelici, ed allora non vedo perché perdere del tempo a scriverne versioni divulgative.
La forma di questo libro non è neppure sistematica, ma non certo per una scelta in favore dell’aforisma, della scrittura nicciana o esistenzialistica, eccetera. Per me la concezione della storia inaugurata da Marx è una scienza, sia pure molto particolare e comunque non assimilabile alle scienze della natura (come sostengo nel primo capitolo di questo libro), ed è normale che una scienza possa prendere la forma di una esposizione sistematica, anche se questa forma sistematica cambia fisiologicamente ogni volta che si hanno teorie nuove e scoperte decisive. Io sono dunque favorevole alla forma del sistema, ed concordo pienamente anche con Hegel, che sosteneva che anche la filosofia può e deve essere esposta in forma sistematica. Se però io non ho scritto un libro in questa forma, ciò non è dovuto solo al fatto empirico della mia personale incapacità, ma a qualcosa di più profondo ed essenziale, e cioè al fatto che siccome ci troviamo nel mezzo di una crisi scientifica, o meglio della crisi di un paradigma scientifico (nel senso di Kuhn), non è possibile in questa situazione scrivere un’esposizione sistematica. I “sistemi” si scrivono solo quando una crisi scientifica è superata, un nuovo paradigma si è imposto ed assestato, e soprattutto quando vi sono già alcuni gruppi di studiosi che, sia pure poco numerosi ed ancora esclusi e marginalizzati dalla comunità scientifica universitaria, ne hanno accettato almeno le linee generali. Francamente, non è ancora questo il caso, e ne siamo anzi ancora lontani. Oggi io vedo prevalere nel cosiddetto campo degli studiosi di marxismo tre posizioni, per me non solo estranee, ma addirittura nemiche: il dogmatismo tradizionale variamente ripetuto, lo specialismo universitario monografico, ed infine la trafelata corsa all’adattamento ai pensieri alla moda nel circuito del narcisismo intellettuale a rapida obsolescenza.
La forma di questo libro è invece critica. Il termine “critico” è usatissimo, è quasi un pleonasmo, e non conosco nessuno, neppure il dogmatico più coriaceo e bovino, che non si dichiari a gran voce “critico”, ed anzi “criticissimo” e intriso di spirito critico. Ma non è quasi mai così. Il termine critico deriva dal greco krino, che significa giudicare, formulare un giudizio. Per essere critici bisogna allora formulare dei giudizi espliciti e chiari nel doppio senso di Kant (per cui occorre giudicare le pretese di legittimità conoscitiva di un’affermazione) e di Gesù di Nazareth (per cui bisogna che sì sia sì, e no sia no, e tutto il menar per l’aia senza osare un’affermazione chiara ed univoca sia diabolico, cioè appartenga al nemico). Nel senso etimologico del greco krino, io ritengo di essere critico, cioè di giudicare con chiarezza, senza prendere in giro il lettore con frasi ambigue ed oscure, sempre sistematicamente scelte dal 90% di coloro che si autoattribuiscono il titolo di “critici”, ed invece fanno come i pesci in barile, secondo uno spiritoso detto popolare.
La forma di questo libro è anche decostruttiva, e voglio subito spiegare di che cosa si tratta. È del tutto intuitivo che per costruire un edificio bisogna sempre spazzare via le macerie del precedente, e che un edificio precedente può essere restaurato e ristrutturato, e non demolito, solo se le sue fondamenta sono ancora solide. Se queste fondamenta non sono più solide, e per di più ci troviamo in una zona sismica soggetta a frequenti terremoti (e questa è appunto la fase storica in cui ci troviamo), allora non bisogna ristrutturare, ma ricostruire. Il pensiero non funziona però come un bulldozer da demolizione. I pensieri-bulldozer sono dei non-pensieri, ed assomigliano agli incendiari pazzi che dopo aver demolito i monumenti corrono qui e là trafelati, con gli occhi spiritati ed un’espressione idiota sul viso. Oggi un pensiero serio deve porsi in un atteggiamento di destrutturazione verso le eredità metafisiche precedenti. Su questo punto sono d’accordo con gli ermeneutici e con i decostruzionisti, con i Gadamer che parlano di fusione di orizzonti e con i Derrida che parlano di decostruzionismo. Questo ci chiede la fase di discontinuità forte in cui ci troviamo. Io non sono affatto d’accordo con tutto quello che dicono Gadamer o Derrida (ma non vi è qui lo spazio per chiarirlo), ma ritengo che essi abbiano ragione nell’essenziale. Con Marx non si può più avere un rapporto di eredità pura, ma solo di fusione di orizzonti. L’eredità di Marx si è storicamente cristallizzata in una metafisica marxista novecentesca, che dobbiamo comunque destrutturare, senza paura degli sgradevoli atteggiamenti di scherno, sufficienza o indifferenza che questo comporterà. Gli insulti dei settari e l’indifferenza snobistica del politicamente corretto “di sinistra” sono non solo possibili e probabili, ma addirittura sicuri. Non bisogna farsene spaventare. Personalmente, non me ne sono mai spaventato, anche se ovviamente non si possono evitare conseguenze spiacevoli nei rapporti politici e personali.
Prima di concludere questa prefazione, desidero chiarire ai lettori una mia intenzione soggettiva che non intendo tacere o lasciare implicita. Questo mio lavoro, pubblicato nel 2002, è in un certo senso anche una “autocorrezione spontanea” di alcune posizioni maturate a metà degli anni Novanta. Questo mio chiarimento non interessa il lettore “nuovo”, cioè chi per la prima volta si accosta ad un mio lavoro, ma può certo interessare le persone che conoscono alcuni miei scritti precedenti ed anche il mio impegno politico passato. Sono infatti contrario sia all’abolizione della memoria sia alla sua opportunistica falsificazione a posteriori. Parlando di “autocorrezione spontanea” intendo riferirmi al fatto che, a partire almeno dalla metà degli anni Novanta, ho sovente espresso l’idea che, dopo gli eventi tragicomici del triennio 1989-1991, per poter salvare il futuro dell’opposizione al capitalismo, bisognava andare verso un “nuovo pensiero”, che avrebbe dovuto lasciarsi alla spalle non solo la dicotomia sinistra/destra, ma anche il marxismo e il comunismo. Tuttora penso che ci voglia un “nuovo pensiero”, che non c’è ancora e che è necessario. Ma perché questo nuovo pensiero non voli in assenza di gravità, credo ormai che questo nuovo pensiero non possa nascere senza un ripensamento radicale ancora interno al modello di pensiero marxista e senza un riferimento esplicito all’idea di comunismo. In termini più semplici, non mi considero più assolutamente di sinistra, mentre mi considero ancora interno alla prospettiva del comunismo e del marxismo. Si tratta di una posizione specularmente opposta a quella di quasi tutti (cioè il 99% degli intellettuali italiani, che sono ancora di sinistra, ma appunto non più marxisti e comunisti, oppure che si dichiarano ancora marxisti e comunisti, ed appunto per questo di “sinistra rivoluzionaria”, o plurale). Io non ricerco affatto l’isolamento per l’isolamento, o per l’ansia narcisistica del distinguermi. Faccio questi rilievi con una certa tristezza ed a ragion veduta, e voglio subito chiarirli al lettore perché possa leggere il mio libro senza equivocare sulle intenzioni soggettive dell’autore, che sono pur sempre un elemento (anche se non l’unico, e neppure il più importante) della corretta lettura del testo.
A proposito della questione della sinistra e della sua identità politica e culturale, singolare o plurale che sia, ritengo che non ci sia più la sinistra se si sposano le posizioni del peggiore imperialismo interventista e massacratore dei popoli. La cartina di tornasole non è affatto, a mio avviso, il moderatismo o il riformismo, la partecipazione a governi interclassisti, il realismo politico, la tattica delle alleanze, eccetera. Tutto questo è possibile, ed in molti casi anche auspicabile, ed a mio avviso è sempre legittimo e possibile continuare ad essere di sinistra, o almeno a collocarsi in una dicotomia spaziale simbolica Sinistra/Destra. In molte questioni italiane mi considero un realista, un moderato ed un riformista (ad esempio sulla questione scolastica). La stessa partecipazione a governi interclassisti è a mio avviso possibile in certe circostanze, ed è anche del tutto compatibile con lo stesso riferimento ideologico a Marx ed a Lenin (alleanze di classe, eccetera). Insomma, non solo non mi ritengo un “estremista”, ma tendo a diffidare degli estremismi inutili (dal Sofri che nel 1971 inneggiava alla plebe municipalista di Reggio Calabria al Casarini del 2001 che dichiara guerra alla zona rossa simbolica di Genova). Questi estremismi verbali e corruschi sono (non sempre, ma quasi sempre) l’anticamera del più abbietto opportunismo e della più sollecita integrazione al sistema. Non conosco nulla di più simultaneamente estremistico ed integrato nel sistema delle tesi di Toni Negri, dal passamontagna fino all’impero mondiale.
La sinistra oggi, in Italia, è il luogo dell’antiberlusconismo imperialistico, uno degli ibridi più abbietti ed incurabili della nostra tradizione culturale nazionale. Da un lato si hanno ridicoli girotondi antiberlusconiani su cose assolutamente ridicole ed irrilevanti come le rogatorie o le proprietà televisive (i fautori di Di Pietro dimenticano che tutti i capitalisti, praticamente nessuno escluso, sono potenzialmente incarcerabili, e non certo il solo Berlusconi), dall’altro gli stessi girotondari approvano la guerra del Kossovo del 1999, plaudono all’osceno processo dei vincitori criminali della NATO a Milosevic all’Aia, si mescolano alle folle dei vari Israele Day proprio mentre l’assassino sionista Sharon massacra l’eroico popolo palestinese. Dal momento che la situazione è questa, purtroppo, e tutta questa sinistra ama il baffetto cinico di D’Alema, massacratore del popolo della Jugoslavia, o anche se non lo ama è pronta ad allearsi elettoralmente con lui contro il “volgare” Berlusconi, è bene chiarire che da questa “sinistra” bisogna uscire, al di là dei sofismi, dei distinguo e dei silenzi imbarazzati.
Dunque, fuori dalla sinistra, singolare o plurale che sia. Non fuori, però, o almeno non fuori del tutto, dalla tradizione marxista e comunista, qualcosa che è mille volte più importante della sinistra. Su questi due punti il presente libro segna una certa “autocorrezione” di certe mie posizioni, ed è dunque utile dire già in questa prefazione alcune brevi cose sul comunismo e sul marxismo, magari anticipando ragionamenti che il lettore troverà più avanti.
Come ho detto sopra, se possiamo dichiararci fuori ed oltre la sinistra, è solo per un’unica ragione, che non ha nulla a che fare con l’interclassismo, il moderatismo, eccetera. Si è oltre e fuori dalla falsa dicotomia Sinistra/Destra per un’unica e sola ragione, e cioè perché essa è solidale con l’imperialismo, con l’impero americano e con i suoi bombardamenti. Il comunismo è un’altra questione. Prima di tutto, occorre fare chiarezza sui termini, perché in caso contrario non ci possiamo neppure capire. Per comunismo si può intendere una sorta di orizzonte storico legato ad una prospettiva di superamento del modo di produzione capitalistico. In questo significato ha ancora senso dichiararsi comunista, ed io infatti mi ritengo tuttora tale, ma so bene che si tratta di una petizione di principio astratta, perché tutto sta nell’intendersi quando si parla non tanto di comunismo (che è un luogo in cui ognuno ci porta che cosa vuole), quanto di modo di produzione capitalistico. In termini teologici, il comunismo è la teologia negativa del modo di produzione capitalistico. Per comunismo si può intendere il comunismo storico novecentesco (1917-1991) e le sue modalità di riproduzione. In questo senso non mi ritengo più comunista, perché non mi inserisco in una continuità storica rivendicata. Per comunismo si può intendere un movimento articolato di resistenza all’imperialismo, unito ad una filosofia dell’emancipazione umana e ad una scienza dei rapporti sociali di produzione. Io mi considero comunista proprio ed esclusivamente in questo senso.
Passando infine al marxismo, non ha senso qui ripetere e ricompendiare il contenuto delle otto parti di questo libro. Il lettore vi troverà alcune risposte articolate. Qui ha senso soltanto ribadire che ogni affrettato programma di superamento del marxismo verso un nuovo pensiero del tutto inedito resta legittimo come prospettiva storica, ma per ora rischia semplicemente di essere prematuro. Se non riusciamo a fare veramente meglio di Marx e di Lenin, non ha senso proclamare di essere oltre Marx e Lenin. Una decostruzione è necessaria, e per ora è meglio prudentemente collocarci in una prospettiva di decostruzione. Tutti vorremmo essere Platone e Spinoza, Hegel e Marx, e non essere solo decostruttori di un precedente pensiero creativo poi cristallizzatosi variamente in una metafisica grande-narrativa, ma essere dei grandi creatori. Ma per questo non basta autoproclamarsi tali. Non si vola in assenza di gravità, semplicemente perché non si cadrebbe mai, ma neppure ci si alzerebbe dal suolo. Questo è per ora a mio avviso il nostro rapporto con Marx.
Per finire, due ringraziamenti. In primo luogo, un ringraziamento alla casa editrice C.R.T. di Pistoia, che pubblica questo mio libro, ma ne ha già pubblicati precedentemente altri, in cui tuttora mi riconosco e che rivendico come parte importante del mio percorso intellettuale (come peraltro è il caso di molti miei lavori pubblicati dalle edizioni Vangelista di Milano). In secondo luogo, un ringraziamento al movimento del Campo Antimperialista e alla rivista Praxis, per cui questi otto capitoli sono stati originariamente scritti. La rivista Praxis ha saputo a mio avviso unire un punto di vista anti-imperialista conseguente ed intransigente con un’attenzione non episodica e non strumentale per il problema del rinnovamento teorico marxista della prospettiva comunista. Sono queste a mio avviso le due gambe su cui camminare: rinnovamento teorico radicale ed anti-imperialismo pratico e politico intransigente. Chi pensa di camminare con una sola di queste due gambe avrà bisogno di una stampella per non cadere, e questa stampella è troppo spesso l’appoggio a forze politiche quasi sempre più forti, ricche, robuste e “palestrate” (cioè parlamentarizzate), caratterizzate però proprio dall’atteggiamento strumentale e dall’attenzione episodica. Io ne ho fatto molto cattive esperienze. Non me ne pento, rivendico tutto quanto, ma ormai la strumentalizzazione e l’episodicità non mi interessano più. Si semina meglio in un orto piccolo ma ricco d’acqua che in un deserto vasto ma sterile.
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