Introduzione
Educare, cioè “tirar fuori” dal bambino tutte le potenzialità cognitive, affettive e sociali: non è un impegno da poco.
I genitori in primo luogo, poi la scuola e infine gli educatori sportivi: ecco qua i protagonisti del processo educativo, senza tralasciare le possibili influenze dei mass-media, oggi più potenti di ieri.
Molte cose sono cambiate col passare degli anni: la famiglia, i genitori. Siamo passati dalla “famiglia etica” (negli anni ’70), basata su regole e principi, che scatenava sensi di colpa, desiderio di trasgressione, di autonomia e di distacco, all’attuale “famiglia affettiva”, caratterizzata da affetto e approvazione, restia alle frustrazioni, ai “no”, che provoca noia, difficoltà di fronte alle rinunce ed il desiderio di “rimanere dentro”, di non staccarsi da un così ben munito, a livello materiale, “nido” familiare.
Ecco spiegate le “lunghe adolescenze” dei nostri giorni, dove il verbo avere è molto più coniugato dell’essere.
La scuola è oggi un “organismo in divenire”, alle prese con i cambiamenti, con un insieme di novità, tanto necessarie quanto frastornanti. Essa sta cercando di darsi una nuova identità, talvolta è alle prese con risorse materiali non sufficienti, tuttavia non accetta più deleghe da parte dei genitori, in quanto cerca di esser loro complementare.
L’organizzazione scolastica, poi, deve obbligatoriamente considerare il contesto circostante, l’ambiente sociale e economico nel quale è inserita, tutto questo con i sempre più “globali” P.O.F. (Piano dell’Offerta Formativa) per il benessere del soggetto in età evolutiva.
Qual è allora il ruolo degli educatori sportivi? Il loro compito è quello di operare sul tempo libero del bambino.
Non dimentichiamoci, tanto per cominciare, che il tempo libero significa soprattutto divertimento, svago e gioco. Questa dimensione ludica dello sport è alla base della buona riuscita, sia psicologica che pedagogica, dell’attività sportiva.
Si dice che “giocando il bambino, attraverso la finzione, si prepara alla vita adulta”, niente di più vero, è la storia dell’uomo che ce lo insegna.
Fin dai tempi più remoti, i bambini giocavano a fare i “grandi”, si esercitavano nell’emulazione, preparandosi ad assumere e a far propri, con l’interiorizzazione, i ruoli dell’adulto.
Al tempo stesso lo sport è anche movimento: correre è conoscere così il proprio corpo come coordinazione, scatto e resistenza; niente a che vedere con i pesanti pomeriggi passati a guardare la televisione oppure a giocare con i videogame.
Lo sport all’aria aperta è in perfetta sintonia con il famoso “men sana in corpore sano”: il divertimento e la spensieratezza soddisfano le principali necessità psicologiche del bambino.
Possiamo rintracciare così la “pulsione esplorativa”, tanto ben realizzata nel famoso “gioco del nascondino”, ma che possiamo ritrovare anche nelle prime strategie sportive per segnare un punto o semplicemente aiutare il compagno di squadra; parimenti la “funzione catartica” (presente in tutto ciò che riguarda il gruppo), dove movimento, fatica, sconfitta e successo divengono fondamentali per l’equilibrio emotivo del bambino, senza dimenticare l’importanza della “simulazione dei ruoli e delle regole”, tanto cara ai giochi al “maestro”, al “dottore”, ma individuabile anche nella voglia di emulare l’allenatore, quello che dice e che fa, oppure un compagno di squadra.
A questo punto abbiamo ben compreso come, dietro lo sport, ci sia un intero universo di dimensioni psico-educative e come sia impossibile escluderlo dal processo educativo.
«Quale sport far praticare a mio figlio?».
«Qual è il migliore per lui?».
Domande classiche per un genitore, tutti interrogativi importanti.
A questo proposito occorre prestare molta attenzione a non farsi trarre in inganno dal “bisogno” di avere un figlio “compensativo”, cioè far diventare il proprio figlio come tu genitore avresti voluto essere, ma che non sei riuscito a realizzare.
Oggi, dopo che il parlamento ha ratificato la convenzione sui diritti dell’infanzia (27 maggio 1991, legge 176/91), sappiamo bene come il bambino debba avere la propria identità, essere se stesso.
Tradotto nel linguaggio dei genitori significa non “aver bisogno” di un figlio come lo vuoi tu, piuttosto invece “desiderare” per lui le cose migliori, aiutarlo, lasciandogli comunque la possibilità di decidere e di scegliere.
Lo scopo primario dell’educazione è proprio quello di formare il bambino alla scelta, dotandolo del giusto spirito critico, tenendo conto di quelle attitudini che egli sente come proprie.
L’obiettivo del processo educativo di un bambino è la realizzazione del suo potenziale e ognuno ha il proprio.
Tornando all’interrogativo di quale sport far praticare al proprio figlio, l’ovvia risposta sarà: “Lo sport che piace al figlio, quello che lui sceglie; sia perché lo fanno gli amici o perché piace ai genitori”.
Al genitore spettano dei compiti, il cui valore educativo è complementare a quanto appena detto: osservare con attenzione l’allenatore del figlio, come si pone a livello relazionale, quali valori porta avanti, quanto tiene conto dell’individualità del bambino, evitando quelli allenatori che, per farsi rispettare, sanno solo urlare, che hanno sempre i titolari fissi e che sono sensibili solo ai consigli dei dirigenti o, peggio ancora, dei genitori.
L’allenatore dovrebbe essere un esempio di buona educazione, salutando per primo i suoi allievi ed esigendo che anche questi facciano altrettanto, è anche colui che apprezza molto la sconfitta, non valutandola per il risultato in sè, quanto per l’impegno profuso e l’unità del collettivo.
Solo chi sa perdere può vincere e migliorarsi, la sconfitta è il punto di partenza per la crescita.
La pazienza, l’umiltà, il saper vincere e il saper perdere tutti insieme, sono altre qualità che il genitore deve ricercare nell’allenatore del figlio.
Ormai è ampiamente dimostrato come i bambini ascoltino molto di più i testimoni dei predicatori, infatti osservano ed imparano molto più dall’esempio concreto che dalle parole.
Stiamo parlando di quella autorevolezza tanto necessaria al genitore quanto all’allenatore: “Io faccio nella mia vita quello che poi pretendo dalla tua”.
Un altro compito del genitore, una volta che il figlio ha scelto lo sport da praticare, è quello di pretendere che sia portato a termine: iniziare un’attività sportiva e di fronte alla prima difficoltà, cambiarla per poi dover interromperla di nuovo, è un pericoloso “zapping” educativo.
Non abitua il figlio a cavarsela da solo, caratteristica importante nella sua vita futura da adulto, ma lo spinge ad evitare l’ostacolo, cosa che la vita consente raramente.
I bambini, a cui è concesso di cambiare continuamente disciplina sportiva, vengono abituati a quel “disimpegno sociale”, che pagheranno molto quando saranno adulti.
Infine, sempre a proposito dei compiti genitoriali, non dobbiamo dimenticare l’importanza dell’autonomia personale e sociale del figlio: dal prepararsi la borsa per lo sport, al rimetterla in ordine, dall’essere autonomo nello spogliatoio, al ricordarsi giorno ed ora dell’allenamento.
Questo processo stimola progressivamente la crescita; la positiva educazione a “piccoli passi” paga molto più delle richieste contraddittorie o paradossali, talvolta troppo difficili, altre volte troppo infantili.