Nella nostra presentazione di due anni fa della nuova serie della rivista Koiné riassumemmo le nostre posizioni dicendo che, per noi, i nemici devastatori delle possibilità di una vita collettiva sensata e rispettosa di tutti gli esseri umani erano i ceti economici dominanti dell’odierno capitalismo, e, di conseguenza, anche i ceti politici dei due schieramenti, di destra e di sinistra, oggi abilitati a governare, in quanto amministratori della società secondo le esigenze capitalistiche. Dicemmo anche che la sinistra governativa ci appariva sotto diversi aspetti più pericolosa ancora della destra, perché meglio attrezzata per tradurre la barbarie capitalistica in senso comune socialmente diffuso. La nostra formula sintetica fu: siamo contro il capitalismo, e quindi siamo contro la sinistra.
Due anni dopo, non possiamo che confermare tali posizioni, con la stessa certezza intellettuale e morale delle nostre ragioni che avevamo allora. In questi due anni, gran parte dell’Europa è stata governata dalle sinistre. Come? Facendo subire ai lavoratori ogni decisione del mercato.
In Inghilterra, il laburista Blair, circondato di ministri miliardari e coinvolti in gravi scandali finanziari, si è rivelato non meno nemico delle protezioni sociali della malvagia signora Thatcher, amica di Pinochet, ed è arrivato a prendere provvedimenti particolarmente odiosi come il taglio dei sussidi alle madri nubili ed ai disabili.
In Germania, il cancelliere Schroeder si è impegnato assai più del suo predecessore, il democristiano Kohl, nell’attacco alla spesa sociale, ed ha costretto alle dimissioni l’unico suo ministro, Lafontaine, orientato a porre qualche modesto limite al liberismo selvaggio.
In Italia, di fronte ai morti quotidiani sul lavoro e sulle strade, che rappresentano ogni anno una vera e propria strage, la sinistra governativa ha disatteso persino la normativa europea sulla sicurezza nel lavoro, ed ha lasciato ogni spazio al trasporto caotico su automobile. Quando D’Alema ha parlato di un’emergenza riguardo alla sicurezza, non ha inteso riferirsi agli omicidi bianchi per sete di profitto, che insanguinano ogni giorno i cantieri italiani, e che sembra non esistano soltanto perché i mezzi di comunicazione non li registrano che raramente, né all’infanzia distrutta delle centinaia di migliaia di bambini sfruttati come schiavi nella cosiddetta economia sommersa, ma soltanto alla criminalità più comune. Dei crimini delle aziende la sinistra governativa, ormai compiutamente liberista, non vuole occuparsi.
Negli ultimi due anni, in Europa, sotto i governi della sinistra, è continuata la concentrazione della ricchezza nelle mani di un’oligarchia finanziaria e industriale. Il linguaggio giornalistico e politico, sempre più bugiardo, ha continuato a dare alla sinistra governativa l’appellativo di riformista, come se il riformismo non avesse sempre indicato, nella storia, un rifiuto dell’idea dell’abbattimento rivoluzionario del capitalismo, ma in nome di una politica di redistribuzione della ricchezza da esso prodotta a favore delle classi sociali subalterne. Il centro-sinistra dei primi anni Sessanta è stato riformista, perché, pur dando sostegno all’accumulazione del profitto capitalistico, ha assicurato più risorse e più protezione sociale ai ceti subalterni. La sinistra di Craxi degli anni Ottanta, e quella di D’Alema oggi, come in genere tutte le sinistre di governo da un quarto di secolo, non rientrano invece nella categoria di riformismo, ma appartengono a pieno titolo al reazionarismo sociale, in quanto strumenti di una redistribuzione di redditi e di poteri a vantaggio delle oligarchie capitalistiche.
Si tratta, naturalmente, di un reazionarismo culturalmente antitetico a quello tradizionale, perché modernizzatore sul piano della tecnica e su quello del costume. Ma che sia reazionarismo, e non riformismo, lo testimoniano le statistiche sulla distribuzione della ricchezza. Quando, nel 1998, Rifondazione comunista si è separata dalla sinistra governativa, la menzogna linguistica è arrivata al punto di definire la vicenda nei termini ridicoli di una contrapposizione tra massimalismo da una parte e riformismo dall’altra, come se Bertinotti e Prodi fossero simili rispettivamente a Serrati e a Turati.
Una onesta analisi dei contenuti concreti del contrasto avrebbe invece rivelato a chiunque che, in quella situazione, era semmai Rifondazione comunista ad esprimere un orientamento riformistico, peraltro moderatissimo, di contro all’indirizzo socialmente reazionario seguíto allora da Prodi, e successivamente accentuato da D’Alema.
Un altro aspetto del reazionarismo che le sinistre governative europee hanno continuato a manifestare negli ultimi due anni è stato quello di non sapere neanche concepire un modo di affrontare la questione della disoccupazione che non passi attraverso le convenienze aziendali. Così esse hanno favorito il processo di crescente precarizzazione del lavoro, che ha tolto a gran parte dei lavoratori diritti, garanzie e possibilità di progettare il futuro, e che ha indebolito la coesione sociale. Le società avanzate stanno regredendo, con il concorso dei loro governi di sinistra, a una negazione della dignità del lavoro da prima rivoluzione industriale.
Le sinistre governative europee, infine, hanno compiuto l’anno scorso l’infamia suprema di accodare i loro paesi alla guerra balcanica americana, sbandierando finalità chiaramente menzognere, e seminando a piene mani morte e inciviltà.
Tutto ciò ci rende ancora più certi dell’indirizzo di fondo da noi formulato due anni fa: siamo contro il capitalismo, e quindi siamo contro la sinistra. Siamo, naturalmente, anche contro la destra. La destra europea rappresenta un ceto politico di mestieranti di basso profilo, liberista e quindi antisociale, pronto a sollecitare gli interessi bottegai e corporativi dei ceti medi, al di fuori di qualsiasi coerente progetto globale. È persino ridicolo che in Italia sia comparso come rappresentante dei ceti medi e professionali un grande monopolista, dotato di immense ricchezze costruite non certo con una professione, ma di torbida origine, quale Berlusconi. Questa destra, tuttavia, con tutto il suo squallore, non ha tracce di fascismo (chi afferma il contrario, anche riguardo a Fini, o cerca pretesti qualsiasi per colpire un avversario, o, se crede realmente in ciò che afferma, è penosamente privo di ogni cultura storica), e non costituisce un pericolo per la democrazia se non per gli stessi aspetti per cui lo costituisce anche la sinistra governativa. Certo, se si sceglie la guerra come mezzo di risoluzione di una questione internazionale, e la si scatena senza attendere una deliberazione parlamentare, si viola tanto lo spirito quanto la lettera (artt. 11 e 78 della Costituzione) della nostra democrazia costituzionale. Ma un simile atto di eversione della democrazia costituzionale non l’ha forse compiuto l’anno scorso proprio la sinistra governativa? L’art. 3, secondo comma, della nostra Costituzione recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». L’art. 36, primo comma, recita a sua volta: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». E l’art. 38, primo comma, recita: «Ogni cittadino sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza». Queste norme supreme della nostra democrazia sono forse considerate carta straccia soltanto dalla destra? Non è evidente che la sinistra governativa è persino più efficiente della destra, grazie alla organicità del suo legame con le oligarchie industriali e finanziarie, piuttosto che con i ceti medi e professionali, e grazie alle sue cinghie di trasmissione amministrative e sindacali, nel far funzionare la Repubblica come Repubblica non già fondata sul lavoro, secondo la dicitura del primo articolo della carta costituzionale, bensì fondata sui datori di lavoro?
Senza uscire dall’illusione che la destra rappresenti un pericolo speciale per la democrazia, pericolo rispetto al quale l’insieme della sinistra possa, pur con tutti i suoi gravi limiti, fungere da scudo, non si può contribuire ad arrestare la degradazione della nostra civiltà sociale. La sinistra governativa non ha, semplicemente, dei limiti: è intrinsecamente uno strumento di svuotamento della democrazia al servizio del totalitarismo neoliberista, come la destra, ed anzi addirittura con più coerenza ed efficacia della destra. Il limite gravissimo di tutte quelle forze minoritarie che in Europa manifestano una opposizione al totalitarismo neoliberista, ma rimanendo nel solco della tradizione della sinistra, sta nel non cogliere la pur solare evidenza di questo punto.
In Italia, Rifondazione comunista, dopo aver sostenuto per oltre due anni senza alcun costrutto il governo Prodi, è passata bensì meritoriamente all’opposizione, ed ha bensì avuto la dignità costituzionale e morale di combattere intransigentemente la guerra balcanica (per cui non sarebbe né generoso né razionale metterla sullo stesso piano dei comunisti italiani di Cossutta e dei verdi, che rivelarono allora tutta la loro cialtroneria e la perfetta inutilità della loro esistenza), ma non ha mai cessato di cercare convergenze con la sinistra governativa, considerandola a tutti gli effetti, a differenza della destra, politicamente praticabile.
Il gravissimo limite della cultura politica di questo partito si è reso particolarmente trasparente quando il suo giornale ha accolto con accorati toni di lutto, del tutto ridicoli, la notizia della storica conquista del municipio di Bologna da parte di un sindaco di destra, come se la continuità dell’amministrazione di sinistra rappresentata da una funzionaria diessina fosse qualcosa di meglio. Tale limite si radica in un modo di essere da ceto politico che tratta il proprio partito, in quanto base identitaria e materiale del proprio ruolo sociale, come un’azienda che deve fatturare voti e accumulare spazi di presenza nell’ambito dei poteri istituzionali.
Questo modo di essere porta infatti a temere più di ogni altra cosa l’emarginazione dalle istituzioni e l’isolamento dalle forze che ne controllano l’accesso, e non consente perciò di accettare la verità che tutte indistintamente quelle forze sono politicamente impraticabili da chi voglia difendere un minimo di civiltà sociale: non si può eliminare il brigantaggio combattendo un brigante a fianco di un altro brigante.
Dentro la sinistra, tutta la sinistra, non può dunque maturare alcun orizzonte nuovo rispetto al capitalismo: non, ovviamente, dentro la sinistra governativa, che è un mero, infame strumento del totalitarismo neoliberista, ma neppure dentro la sinistra sedicente antagonista, che, per il suo modo di essere, e la sua corrispondente ideologia, non sa concepire una linea politica di vera autonomia, in quanto non è in grado di sostenere la perdita di voti, di contatti e di spazi di presenza istituzionale che una scelta di reale autonomia comporterebbe nel medio periodo.
Ci si colloca, allora, in un orizzonte anticapitalistico quando ci si oppone simultaneamente alle oligarchie economiche e ai loro servitori di destra e di sinistra nell’ambito delle istituzioni statuali? Tutti coloro che condannano le politiche economiche e di guerra dei centri del potere imperialistico, e si sono separati dalla cultura della sinistra, si ritrovano su una comune linea anticapitalistica, dalla quale tutti gli altri sono necessariamente molto più distanti? Le cose non sono così semplici, ed è per questo che non ci appare sufficiente la nostra formula sintetica del primo numero della rivista: siamo contro il capitalismo, e di conseguenza siamo contro la sinistra.
Il capitalismo, inteso come modo di produzione, è infatti un sistema di relazioni sociali che nella sua progressione storica determina la sussunzione reale nel capitale, vale a dire nel plusvalore che si valorizza, non soltanto del lavoro produttivo, ma anche dell’ambiente naturale e del modo di essere personale degli individui umani. Al di fuori di una resistenza d’insieme a tutte queste forme di sussunzione non si dà alcun orizzonte anticapitalistico. Un anticapitalismo giuocato esclusivamente sul terreno politico è illusorio, perché si oppone non già alla logica sistemica del modo di produzione, bensì soltanto ad un suo particolare segmento. Occorre cioè comprendere che il capitalismo si autoriproduce non soltanto attraverso la politica economica delle sue imprese, e neppure soltanto attraverso la divisione sociale e tecnica del lavoro che innesca, bensì anche, in maniera essenziale, attraverso l’operare apparentemente autonomo di elementi antropologici e di forze ambientali su cui ha impresso in profondità il suo sigillo dinamico e necessitante. La celebre immagine della gabbia d’acciaio, a cui si è sempre pensato come ad una rappresentazione estrema della costrittività intrascendibile del capitalismo, è invece una raffigurazione troppo limitata della sua penetrazione schiacciante nella sostanza antropologica. Il capitalismo, infatti, non è costituito da una serie di sbarre che, come quelle di una gabbia, imprigionano l’essere umano dall’esterno, ma è una logica sistemica di rapporti sociali che opera anche come forma interna delle dinamiche ambientali e personali dell’uomo. Nello stesso tempo, la sua necessità non è mai assoluta, perché l’introiezione delle sue forme plasmatrici presuppone una soggettività, e non può quindi mai irreversibilmente escludere una resistenza. Soltanto l’attivazione a questo livello di una tale resistenza apre uno spazio difficilissimo, ma non illusorio, di anticapitalismo.
L’anticapitalismo vero, e non fasullo, non può quindi esistere se non sulla base di un modo di essere personale capace di resistere in qualche sia pur limitata forma alla logica di contrapposizione commisurante (per usare un termine heideggeriano) che traduce in termini di motivazioni individuali l’impersonale dinamica sistemica dell’accumulazione senza fine di plusvalore.
L’idea secondo cui ciò che definisce il rapporto con un sistema di potere, e che determina l’efficacia dell’opposizione ad esso, sia soltanto la linea politica scelta, rispetto alla quale la caratterizzazione personale di chi la sceglie sia irrilevante, è una delle idee più sbagliate della tradizione della sinistra. L’effettiva incidenza storica dell’agire umano riguardo all’evoluzione dei sistemi di potere dipende, al di là delle linee politiche e dei modi di essere personale, dalle dinamiche impersonali dei rapporti sociali di produzione e dal peso degli interessi che essi generano.
Ma l’efficacia nel creare condizioni preliminari di incidenza storica è strettamente connessa alle modalità di esistenza personale, che danno alle linee politiche la loro determinazione concreta, spesso diversa da quella astrattamente enunciata. La linea politica effettiva della sinistra governativa odierna, ad esempio, ha i suoi presupposti lontani di nascita, e le sue condizioni presenti di gestione, in forme di cultura consolidate proprio da particolari modi di essere personale.
È stata infatti la chiusura psicologica ad accogliere interiormente l’autonomia e l’oggettività del momento morale, tipica della personalità del militante della sinistra, che ha portato ad accettare qualsiasi arretramento ideale della sinistra stessa.
È stato il bisogno psicologico, tipico anch’esso della personalità del militante della sinistra, di non spezzare la continuità della sua appartenenza, per preservare un riconoscimento di ruolo e di potere necessario a riempire il suo interno vuoto spirituale, che ha dato alla sinistra individui che non se ne distaccano quali che siano i capovolgimenti che essa compie. È il meccanismo psicologico della rimozione dell’ascolto di ogni messaggio rispecchiante, e della negazione di realtà di ogni ritorno alla concretezza di motivazioni ideali pragmaticamente ripudiate, che consente al militante della sinistra governativa di non farsi toccare dal disprezzo di se stesso che porta dentro se stesso. Si osservi bene come reagisce il vecchio sindacalista o amministratore della sinistra governativa di fronte ai purtroppo ancora rari movimenti che riportano alla luce valori sociali a cui un tempo aveva aderito (sia pure estrinsecamente, perché allora sembravano vincenti, e soddisfacevano il suo bisogno di autoaffermazione): ne distorce il senso, ne minimizza la portata, li riconduce ai motivi meno plausibili, insomma ne cancella la realtà, e non si lascia rivelare da essi ciò che è diventato. Così rimane tranquillamente il servo ignaro, sciocco e presuntuoso del totalitarismo neoliberista.
Modi di essere personale la cui forma necessitante sia la traduzione a livello intrasoggettivo della logica sistemica delle relazioni sociali rappresentano però forze di adeguazione al capitalismo non soltanto quando sono di supporto alla cultura politica dominante, ma anche quando convivono con analisi e prospettive apparentemente di opposizione al sistema.
La pulsione, ad esempio, ad annichilire chi si sottrae ad un progetto che si vorrebbe comune, e a togliergli ogni merito prima riconosciuto, che tanto è stata utilizzata nelle lotte intestine dei vecchi partiti comunisti, non è affatto riscattata da una linea politica formalmente giusta, ma anzi distorce quella linea fino al punto da renderla sostanzialmente sbagliata.
La chiusura interiore alla dimensione metafisica ed etica della propria umanità, l’avidità narcisistica di autoaffermazione, la difesa identitaria mediante il non ascolto degli altri e la designificazione dello sguardo altrui su di sé, la paura invidiosa di riconoscere e di valorizzare il meglio degli altri, sono modi di essere personale che costituiscono altrettante forze di riproduzione del capitalismo. Per questo non basta, non ci basta, un atteggiamento, anche analiticamente sorretto, di opposizione al potere economico dominante e alla sinistra che lo serve, per una comunanza di ideali anticapitalistici.
La teoria anticapitalistica ha infatti bisogno urgente, per non rimanere fasulla, di venire articolata ben al di là di una raffigurazione riduttiva del modo di produzione. Non c’è neppure una reale teoria del modo di produzione capitalistico senza far luce su come la sua dinamica autoriproduttiva determini particolari strutture di essere personale e ne tragga impulso. È nostro fermo proposito dedicare di qui in avanti una parte delle nostre energie a questo compito, nella consapevolezza che senza colmare questo vuoto ogni analisi del capitalismo è destinata a ricadere, al di là di ogni intenzione, in un piatto economicismo e in un semplice formalismo. Occorre capire, ad esempio, che chi riduce la realtà umana alla sola dimensione della prassi empirica, e ne ignora la profondità metafisica, il cui riconoscimento gli sembra magari roba da new age, compie un’astrazione mentale che ricalca e fa apparire necessaria la corrispondente astrazione reale quotidianamente operata dal modo di produzione capitalistico: è il funzionamento di tale modo di produzione, infatti, che nel sussumere l’uomo in se stesso, nel suo ciclo di produzione e di consumo, lo fa essere sola prassi empirica, e lo rende cieco ad ogni altro lato ontologico. Noi vogliamo combattere questa cecità, e cercare uno spessore vero e reale per l’anticapitalismo, che riguardi anche gli stili effettivi di esistenza e di esperienza eidetica, e non le semplici posizioni di tipo riduttivamente politico.
Tutto ciò ci conduce ad un’altra questione nodale. Si è fin qui parlato del modo di essere personale degli individui come elemento antropologico realmente sussunto sotto il capitale in funzione della sua autoriproduzione. Ma si è anche accennato come in una situazione perfettamente analoga si trovi anche un altro elemento, quello cioè dell’ambiente dell’uomo. Anche se non è facile a capirsi, e non è questo il luogo in cui spiegarlo adeguatamente, l’ambiente dell’uomo non è ormai più la natura, ma è la tecnica. Certo, tutte le radici della vita umana stanno ancora nella natura, ma questa natura non è più la natura originariamente autoregolantesi, bensì è una natura regolata dalla tecnica, e condizionatrice dell’uomo soltanto attraverso le maniere in cui è a sua volta condizionata dalla tecnica umana. La tecnica, poi, è umana esclusivamente nel senso che è derivata da azioni compiute dall’uomo, sia pure sulla base di prescrizioni e mediante strumentazioni a loro volta tecniche, ma non nel senso di essere espressione della libertà dell’uomo, perché anzi il suo operare riduce le pratiche sociali a mero servizio obbligato delle sue funzioni. Queste funzioni costituiscono i soli binari su cui è fatto scorrere il mondo, e rappresentano perciò un ambiente necessitante.
Chi oggi comprende correttamente come la tecnica sia il vero ambiente dell’uomo, e sia necessitante, commette però di solito il duplice errore di considerarla autonomamente autoriproduttiva, come se il suo incessante sviluppo non nascesse che da se stesso, e di concepire la sua necessità in maniera antropologicamente assoluta, come se non potessero più esistere in linea di principio soggetti e progetti, ormai sostituiti completamente e irreversibilmente da ruoli e funzioni. Il primo errore oscura il fatto che la tecnica è entrata in una fase di sviluppo veloce, e poi velocissimo e senza più alcun controllo da parte di altre istanze sociali, soltanto da quando è diventata strumento di produzione del plusvalore, e fa così scomparire il capitalismo dietro la tecnica. Il secondo errore confonde la determinazione sociale con quella ontologica, facendo apparire umanamente superato ciò che è soltanto socialmente sconfitto: un po’ come se, per farci capire con un esempio banalizzante, la considerazione economica e statistica che un certo paese sopravvive con i proventi delle attività mafiose fosse intesa nel senso che nessuno in assoluto dei suoi abitanti possa essere estraneo alla mafia, e che non abbia alcun valore essere estraneo alla mafia.
L’insieme dei due errori, la cui ascendenza culturale sta nello schiacciamento storicistico dell’ontologia sulla storia, porta ad un antiumanesimo che, legittimo e fecondo sul piano delle analisi delle strutture e dei sistemi, è privo di senso su quello ontologico. Non solo, ma per noi la cultura di questo antiumanesimo è una cultura nemica, al pari di quella della sinistra. Essa, infatti, riducendo la realtà dell’uomo al condizionamento tecnico, negandone la dimensione etica, e sciogliendo la disumanità del capitalismo nell’ambiente della tecnica, traduce in teoria il modo in cui il capitalismo opera e appare nella pratica. Diciamo dunque con forza: siamo contro il capitalismo, e quindi siamo contro l’antiumanesimo della tecnica. Siamo dalla parte, con Anders, di quell’uomo che la tecnica ha reso antiquato. Le meraviglie del progresso scientifico (nel senso e nella direzione che la scienza ha nel mondo contemporaneo), e soprattutto di quello tecnologico, non ci incantano: ne faremmo volentieri a meno, pur di avere un altro progresso, quello della giustizia e del rispetto dell’uomo. Se potessimo, fermeremmo del tutto l’avanzamento scientifico nel campo dell’ingegneria genetica, perché sappiamo fin troppo bene, con la nostra conoscenza del funzionamento sociale, che i suoi risultati, indotti dal capitalismo (non esiste in questo mondo una ricerca scientifica pura e disinteressata), finiranno per porre l’intera economia mondiale sotto il dominio ed il ricatto di pochi grandi centri di potere, e metteranno nelle mani dei potenti armi biologiche da incubo.
Chi considera l’uomo legittimamente manipolabile dalla tecnica, adducendo come ragione che non esiste un’essenza immutabile dell’umano, e che l’umano è sempre stato una costruzione, è un nostro nemico, perché è un amico del capitalismo, quand’anche si consideri anticapitalista: è il capitalismo, infatti, che non riconosce alcun limite invalicabile alla flessibilizzazione dell’umano.
Per noi, invece, esistono limiti etici e ontologicamente inviolabili anche quando sono socialmente e storicamente valicati: la loro invalicabilità ontologica, in tali casi, non è mero fumo, ma, in quanto radicata nei principi costitutivi della dimensione umana, e perciò mai eliminabili in assoluto, di soggettività e di riconoscimento, è sorgente di resistenza effettiva, pur se del tutto minoritaria, prospettazione di speranza, promessa di un’altra storia.
Non accettiamo quindi di separare alcunché dall’etica. Neanche la politica. Sul piano internazionale, consideriamo l’imperialismo americano come il peggior nemico del genere umano. Non intendiamo però assumere in maniera esclusiva, nella nostra opposizione ad esso, i criteri della cosiddetta geopolitica, la quale, quando viene assolutizzata, diventa l’ultimo sottoprodotto dell’amoralismo storicistico. Per farci capire: se ci sono due assassini, l’uno dei quali possieda mezzi per sterminare l’intero pianeta, e l’altro soltanto strumenti per fare a pezzi qualche suo vicino, e se il primo cerca di assassinare il secondo, una elementare e del tutto giusta logica di sopravvivenza induce a cercare di far vincere il secondo sul primo. Ma questa logica non deve condurre, secondo noi, a ritenere ininfluente il fatto che anche l’assassino minore ed aggredito è pur sempre un assassino, a farlo dimenticare, a chiudere ogni altro discorso che non sia di puro e semplice schieramento dalla parte di chiunque sia portato dal suo interesse a lottare contro l’assassino maggiore. Un simile atteggiamento non soltanto impoverisce moralmente chi lo assume, ma induce a forme di cecità che poi a lungo termine vengono pagate storicamente e politicamente carissime. L’Unione sovietica, ad esempio, ha avuto meriti geopolitici immensi, avendo sconfitto il nazifascismo e costretto il mondo capitalistico a grandi riforme di civiltà. Ma aver ignorato i suoi gravi crimini, o comunque non averli fatti pesare nella valutazione della sua realtà, ha reso ciechi anche rispetto alla sua natura sociale, e ha impedito di mantenere un saldo orientamento di fronte al suo crollo.
L’orientamento anticapitalistico che vogliamo promuovere, e di cui dovrebbero essere a questo punto chiari i tratti culturali, ci ha portato oltre il marxismo, soprattutto per colmare l’assenza di una vera filosofia in Marx, assenza malamente coperta, nel marxismo storico, dall’adozione di concezioni dell’uomo di infimo livello (di livello, cioè, positivistico, o empiristico, o pragmatico, o, quando è andata bene, storicistico). Cercare di andare oltre il marxismo non significa però affatto, per noi, abbandonare la sua grande idea della trascendibilità storica del capitalismo, e neppure ripudiare le sue grandi acquisizioni teoriche, culminate in un’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico che riteniamo nell’essenziale ancora valida. Il marxismo, cioè, non è la nostra concezione del mondo, ma è per noi un patrimonio di saperi che contiene tutta una costellazione di validissimi riferimenti conoscitivi (plusvalore, accumulazione allargata, rapporti di produzione, ecc.) e di prospettive sociali (esproprio degli espropriatori, superamento dei rapporti mercantili, affermazione della libera individualità sociale quale espressione consapevole di un nuovo e maturo agire comunitario perché la comunità realizzata attraverso la libera individualità è rapporto d’amore, mentre la collettività è equilibrio imposto dall’esterno; nella comunità di libere individualità infatti vi è convergenza interiore, nella collettività invece la convergenza è imposta dalla necessità dell’adattamento, ed è perciò subìta nella mediocrità di valori minimali e non vissuta in autentica pienezza di significato). Su quel patrimonio di saperi e di riferimenti conoscitivi intendiamo continuare ad orientarci.
L’impostazione ideale fin qui enunciata non rappresenta un vincolo cogente per gli interventi che compaiono sulla rivista, e che provengono e proverranno da autori di diversa collocazione culturale. Rappresenta però certamente, per tutti coloro che intendono assumere la rivista come luogo di riferimento per la loro ricerca intellettuale e morale, un impegno a prenderne in seria considerazione i valori. Rappresenta, dal punto di vista di Koiné, una proposta forte attorno a cui annodare il dialogo che si svolgerà sulle sue pagine. Perciò, da questo numero in poi, ogni numero della rivista sarà monotematico, in modo che i valori che abbiamo proposto siano ogni volta messi alla prova del confronto con tutta la complessità di un unico tema di grande importanza teorica e civile.
Il tema a cui è dedicato questo numero, e cioè la grande questione della scuola, si connette in maniera profonda alla nostra proposta ideale. Qualsiasi approccio a questo tema in chiave riduttivamente economicistica o politicistica non consente infatti minimamente di coglierne lo spessore reale. Né è possibile, sulla base di una concezione dell’umanità dell’uomo come semplice prassi empirica e funzionalismo sociale, capire realmente cosa è in giuoco nella scuola. Il tema della scuola rimanda infatti al significato dell’educazione umana, del rapporto tra le generazioni, della temporalità, della cultura intellettuale. Attraverso il prisma della grande questione della scuola vogliamo domandarci che ne è dell’umanesimo e della civiltà sociale nell’orizzonte contemporaneo.