La parola è, nell’ambito dell’attività cosciente, quello che [...] è assolutamente impossibile per uno solo ed è possibile per due. Essa è l’espressione più pura della storicità essenziale della coscineza umana.
La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come un piccolo mondo a uno grande, come una cellula organica al suo organismo, come l’atomo al cosmo. Essa è il microcosmo della coscienza umana.
Lev Semenovich Vygotsky,
Pensiero e linguaggio.
È con le parole di Vygotsky che l’Associazione culturale «Petite Plaisance» ringrazia gli autori e i curatori di questo libro: dono prezioso, dialogante stimolo, empatico invito a proseguire nel nostro impegno di ricerca e di approfondimento culturale.
C’è bisogno di queste “gocce di sole” per fugare le ombre della “città degli spettri”, che sovente incombono e contrastano nel loro addensarsi in grumi di indifferenza individualistica il desiderabile vissuto di una “comunità solidale” e l’effettualità di una libera individualità sociale.
Gli autori ci hanno indicato una possibile strada per liberarsi dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno (sfociato nel mito della autointellegibilità dell’esperienza in quanto esperienza soltanto presente).
Il puro presente, in realtà, è lo zero dell’intellegibilità, perché il presente, soltanto allargando la sua presenza a quella di un passato restituitogli da una storia (della propria storia), può rendersi comprensibile a se stesso.
Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia (anche “minore”, anche della nostra storia personale e psicologica) è da ricercare nella dialettica per cui il presente si comprende attraverso il proprio passato, e comprende il passato attraverso il proprio presente.
Sempre quindi occorre la compresenza di «passato» e «presente», ovvero la presenza del passato mediante la memoria che vince il tempo, e, vincendolo, costituisce la soggettività della persona manifestandola creativamente in una identità.
Carmine Fiorillo e Ilaria Rabatti
Da anni presso il Centro Diurno Desii 3 si riunisce un gruppo di scrittura e dà vita ad un lavoro discreto, certamente umile dal punto di vista letterario, ma che tuttavia interrompe per chi vi si dedica la ripetizione dell’abissale e ossessivo testa a testa tra il dolore mentale e la risposta che lo rispecchia: sono un malato, perciò non posso vivere serenamente, non vivo serenamente perché sono malato: i miei pensieri sono i pensieri di un malato, non posso pensare pensieri non malati perché sono malato.
Sempre lo stesso, l’uno, eternamente uguale, l’altra, immediatamente pronti a ripetere la medesima immobile illusione di una danza: niente mi potrà trasformare, io non trasformerò mai questa mia posizione
La frattura originata nel confronto con il dolore mentale dal viraggio verso la scrittura, è un taglio, forse ridotto e minimale, ma è indubbiamente una cesura che impedisce che si riproduca l’adesione reciproca e immediata dell’emozione alla sua speculare attribuzione dello stesso significato. Perché essa introduce nell’immobilità il tempo che trascorre e articola vicinanza e lontananza dando un ritmo al vissuto così da distinguere ciò che si vede da chi guarda e differenziare i loro spazi.
È articolazione che apre lo spazio in cui si può scrivere, pensare e ricordare la propria o l’altrui storia.
Con la dedica al foglio bianco (come ad uno spazio aperto ad attese indefinite, indecise, nebbiose scrive l’autore), inizia questa singolare e notevole raccolta di scritti collettivi, ora in forma di brevi riflessioni, o di lettere, ora di poesie o di fiabe per non dimenticare.
Una raccolta di tracce incise nella memoria di donne e uomini comuni dagli eventi delle loro vite, un’agenda, un diario di segni minimi, una rubrica, forse una lista, una scaletta o un elenco di pensieri e di immagini che, contenute e curate entro parole piene di emozioni del tempo che trascorre, tracciano, nell’originario offuscamento e nell’incertezza sui significati dell’esistenza, i contorni delle storie indicandone le loro direzioni. Un programma di lavoro della scrittura, direi, tramite il quale le ferite procurate dalle unghie di esistenze irresponsabilmente dimenticate ai margini, trovano modo di curare se stesse trasfigurandosi nelle leggere scalfitture, intagli e incisioni che istoriano “la colonna della vita” e la fanno risuonare.
Si tratta di storie il cui pilastro emerge inizialmente come da aperture impalpabili, da eventi come la paura “dei mostri davanti agli occhi” che graffiano profondamente la vita, e si mostra, poi, tramite la traccia della scrittura, l’affermarsi, cioè, di una forma, anche nella sua significatività estetica della loro bellezza.
Vi si addensano i simboli di un’esistenza che, perduta, trova se stessa nell’incontro che allevia («meno male che ho trovato») il dolore dalla mancanza o l’angoscia di vivere con quel destino che ci è dato, foss’anche la compagnia dell’epilessia («cara epilessia, sarebbe proprio da farti una cornice e metterti lì appiccicata al muro» con tutta la rabbia che quella «cara» trasporta, ma che infine viene modulata dal «mi chiederai: ”E io cosa c’entro?” e va bene ti posso dare anche un po’ di ragione»).
Trapela nella foschia delle immagini il peso della malattia mentale, degli ottenebramenti, delle confusioni e dei misconoscimenti che genera come nella «Seconda lettera a mia madre», una malattia, un destino che si racconta lievemente come di qualcuno con cui da tempo si è in relazione o con il quale tramite la mediazione di un altro ci si può, infine, confrontare. A questo fa pensare la fiaba de «Il gigante Astolfo», una storia che trasporta al suo interno il meraviglioso cammeo di quella non meno colossale del «piccolo, magro e pauroso Ascanio» disposto a rinunciare a tutto, paura compresa, per salvare l’amico, a come sia realmente possibile in compagnia sconfiggere la terribile strega della solitudine della vita e grazie all’amicizia del «merlo Pippo» trovare la salvezza.
Emozioni, riflessioni, storie che, al vaglio di una scrittura che per la sua natura è, contemporaneamente, gesto individuale e gestazione collettiva, si trasfigurano e sublimano le più concrete e materiali, forse terribili, sollecitazioni emotive in oggetti della mente, cioè in pensieri.
Questo libro si accorda con una breve e intensa poesia giapponese, un Haiku:
Pulisco la lente
degli occhiali.
Anche dalla parte
dell’occhio cieco.
E anche con il significato profondo di quel testo di Camus dove Sisifo discende la montagna al fondo della quale è rotolato quel macigno che gli dei l’hanno condannato a caricarsi addosso fino alla vetta, dalla in cima della quale ricadrà ogni volta di nuovo a valle, per sempre. Bisogna immaginare Sisifo felice, afferma.
Pulire la lente dalla parte dell’occhio cieco è inutile, come lo è la fatica di Sisifo. Ma, come anche questa schiva e dimessa raccolta Con gli occhi nel cuore ci insegna, anche nel luogo in cui la cecità dell’occhio, oppure quando l’ avvincente attrazione dell’assenza di senso, o, meglio, la nebbia regnano, ebbene da lì e da quel momento si manifesta un gesto che ha il valore, di per sé assoluto, dato dall’unicità della sua bellezza.
Bisogna immaginare Sisifo felice, scrive Camus, pulendo la lente anche dalla parte dell’occhio cieco e scrivendo della nebbiosa caligine del foglio bianco, in attesa.
Per chi ha scritto le storie di questa raccolta, come per chi le leggerà, il breve istante della lettura apre l’immaginazione, dirada l’oscurità e trasforma la fatica nella meravigliosa bellezza del vivere.
Dott.ssa Simonetta Balestra
Responsabile Centro Diurno Desii 3
Il Laboratorio di scrittura ha un’esperienza decennale ed è nato come nascono le cose al Centro Diurno: dall’accorgersi, da piccole intuizioni, da sogni che si intrecciano, da sguardi e da parole tra utenti e operatrici.
Nascono piano piano, in sordina, i laboratori ... e poi, quasi senza accorgersene o fare calcoli, ci si rende conto di quanta arte ci sia in tutto ciò che emerge.
Con gli occhi nel cuore è l’ultima raccolta del Laboratorio di scrittura del Centro Diurno.
Come ha detto una delle scrittrici che ha partecipato alla stesura del libro: «Sì ... noi guardiamo nel cuore e poi scriviamo ...».
Il titolo scelto per questa raccolta, infatti, rende omaggio all’emozione e all’intenzione che sta dietro ad ogni scritto.
Perché quando ci sediamo a quel tavolo, quando prendiamo la penna e guardiamo il foglio bianco, il nostro invito è quello di ascoltare ciò che realmente sentiamo e proviamo, ciò che in quel momento accade dentro di noi.
Quando rileggiamo i nostri scritti non prestiamo attenzione tanto alla grammatica o alla sintassi quanto all’autenticità di quello che scriviamo. Carta e penna diventano così compagni silenziosi di un viaggio di scoperta, il cui fine è quello del raccontarsi e conoscersi attraverso l’arte della parola: un’arte umile e ricca di vita, di cui oggi, con questo libro, vogliamo rendere partecipi tutti voi.
Approfittiamo di questa occasione per ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto, e in particolar modo gli scrittori del laboratorio che, con la loro fiducia e il loro coraggio, hanno reso possibile tutto questo. È stato e sarà sempre un onore scrivere con tutti voi.
Federica Barelli
Costanza Cappellini
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