L’esistenza di un testo filosofico si dovrebbe sempre giustificare con il bisogno del medesimo: sul tema in oggetto, ossia sul diritto e la proprietà nella antica Grecia, vi sono in effetti, almeno nella nostra lingua, pochi studi complessivi. Il valore di un testo filosofico dipende invece dal modo di affrontare l’argomento nella sua totalità, nella sua struttura e nelle sue parti, che deve insieme essere svolto con completezza, profondità e sensatezza.
Se, per quanto riguarda l’esistenza, crediamo che questo testo colmi almeno pur con tutti i suoi limiti una lacuna, sul valore del medesimo non spetta a noi affermare alcunché. Ciò che possiamo dire è solo che, mentre il valore di un’opera è solitamente proporzionale alla universalità delle ragioni e delle passioni che la sorreggono, la genesi, ossia lo spunto iniziale, può essere in parte casuale; tuttavia, anche questa genesi è significativa, in quanto essa è un po’ come la prima fiammella da cui parte tutta la ricerca. Nella fattispecie, la genesi di questo libro è da far risalire alla lettura di una intervista rilasciata da Oliviero Diliberto segretario del Partito dei Comunisti Italiani ed ex Ministro della Giustizia ad Andrea Catone, uscita nel 2009 sulla rivista L’Ernesto. Non leggendo, in generale, riviste, dobbiamo ringraziare di questa segnalazione (e, soprattutto, della ennesima “fiammella”) l’amico Carmine Fiorillo, le cui parole ci facilitano sempre l’opera.
Premettiamo subito, prima di entrare nel merito dei contenuti, che per l’oggetto stesso del testo, e per il nostro modo di affrontare il problema, non ci interessa affatto un confronto personale. Riteniamo infatti che le tesi qui espresse rappresentino tendenze generali, le quali devono essere discusse in generale da parte di chi si pone, sul piano culturale, all’interno di una prospettiva che possiamo ancora definire pur con tutte le ambivalenze insite nel termine “comunista”1. Chiariamo inoltre che questo non è nemmeno un testo specialistico dedicato ai pochi giusgrecisti esistenti (che pure in questo libro, ad avviso di chi scrive, potranno trovare spunti di riflessione), bensì un testo dedicato a tutti coloro che desiderano conoscere cosa gli uomini contemporanei possono ancora trarre, in termini di diritto e di giustizia, dalla riflessione filosofica e politica greca.
Il titolo della intervista di Diliberto ci è apparso subito, comunque, molto interessante: Il diritto e la transizione al socialismo nella Repubblica Popolare Cinese. Pur avendo pubblicato un libro sulla antica filosofia cinese2, non conosciamo approfonditamente la realtà sociale della Cina contemporanea; siamo tuttavia interessati a comprendere meglio quella che è da alcuni ritenuta l’ultima totalità sociale “comunista” rimasta, ed in che modo quella che Marx avrebbe definito una “sovrastruttura”, ossia il diritto, abbia potuto favorire secondo l’autore la transizione al comunismo. Ammesso infatti che questa transizione in Cina vi sia o vi sia stata, ben difficilmente essa avrebbe potuto, almeno secondo la prevalente interpretazione della teoria di Marx, essere condizionata dal diritto; Marx sostenne in effetti, ad esempio nei Grundrisse, che ogni forma di produzione produce i propri rapporti giuridici, e che il diritto è solo un riflesso di determinati rapporti sociali, che si limita a sancire e legittimare: uno soltanto degli strumenti, insomma, con cui la classe dominante esercita il proprio dominio sulla classe dominata.
L’ipotesi teorica di Diliberto, in quanto controcorrente, è interessante, in quanto egli pare sostenere, implicitamente, che una idea filosofica (in questo caso una concezione del diritto, e dunque della giustizia) possa guidare, o quanto meno accompagnare, la struttura di un modo di produzione sociale verso il comunismo. Riflettendo gli argomenti di questa riflessione accompagneranno la prima parte del testo , ci pare che la parte generale della ipotesi di Diliberto (secondo cui le idee possono avere una ricaduta forte sui modi di produzione, tanto da poter giungere a modificarli) sia assolutamente degna di essere seguita, mentre la parte specifica di tale ipotesi (inerente il rapporto specifico fra diritto e transizione cinese al comunismo) non lo sia affatto, per due motivi sostanziali. Il primo è che, analizzando la struttura della moderna economia cinese, essa non ci pare affatto in transizione verso il comunismo, bensì verso l’esatto opposto, ossia verso un modo di produzione sociale compiutamente privatistico e mercificato. Il secondo motivo, connesso al primo, è che il diritto moderno così come il diritto romano che la Cina contemporanea ha posto alla base del proprio ordinamento giuridico è essenzialmente un diritto proprietario e contrattuale, dunque adatto ad un modo di produzione privatistico e mercificato, ed inadatto ad un modo di produzione comunista; anche per questo esso non può favorire la transizione al comunismo. In generale, infatti, lo sviluppo dei modi di produzione non dipende affatto dalla “scelta” del modello giuridico di riferimento, la quale è sempre, sostanzialmente, una conseguenza di tale processo di sviluppo; questo non toglie, tuttavia, che la parte generale della ipotesi di Diliberto che pure rimane molto “nascosta” nel suo discorso sia, come detto, interessante e degna di essere seguita.
Chiediamoci allora, almeno in questa preliminare introduzione, quanto segue: davvero la teoria del materialismo storico di Marx ed Engels, nella parte in cui essa afferma pur tenendo conto di tutte le interrelazioni che è la realtà (la struttura) a produrre in ultima istanza le idee (la sovrastruttura), deve ritenersi così univoca? Sinceramente pensiamo che le idee, le quali pure sono sempre socialmente condizionate, possiedano una maggiore rilevanza (rispetto a quella solitamente loro assegnata dal marxismo) nel guidare i processi di sviluppo di un modo di produzione sociale, e che il pensiero di Marx possa offrirsi per sostenere una simile lettura.
Su quali basi questa lettura può essere sostenuta? A nostro avviso, sulla base del fatto che il pensiero di Marx dovrebbe essere interpretato nonostante la lettera di alcune sue affermazioni come un pensiero di tipo “classico-progettuale”, incentrato su un diretto rapporto filosofico fra teoria e prassi (in base al quale, appunto, solo una buona teoria può guidare una buona prassi). Diciamo ciò non per negare la tesi marxiana secondo cui le idee scaturiscono, sul piano effettuale, sempre da un certo contesto storico-sociale; diciamo invece ciò per affermare, come Marx ha “dimostrato” producendo idee rivoluzionarie efficaci per tutta la sua vita, che le idee possono anche opporsi radicalmente al contesto storico-sociale che le ha fatte nascere, giungendo perfino a modificarlo in modo forte. Marx sarebbe in questo senso un pensatore “idealista”3 in quanto, come Platone, la sua critica alla totalità sociale avrebbe avuto come fondamento una ideale totalità sociale alternativa conforme alla natura umana (il comunismo), che gli servì da riferimento per la critica al modo di produzione capitalistico (ed ai precedenti modi di produzione precapitalistici). Questa struttura ideale di significati ontologici ed assiologici, pur soltanto implicita nella filosofia di Marx, ne costituisce ad avviso di chi scrive l’imprescindibile riferimento, fino ad oggi sul piano teoretico assai trascurato (pensiamo a tutte le critiche del cosiddetto marxismo, e dello stesso Marx, all’idealismo filosofico ed alle utopie progettuali); essa mostra inoltre come siano le idee, dialetticamente scaturenti dalla realtà, a poter guidare la realtà medesima. Siamo, ovviamente, consapevoli di schierarci, in questo modo, contro la più accreditata ricostruzione filologico-ermeneutica del pensiero di Marx4. Tuttavia, come cercheremo di argomentare in un libro di prossima pubblicazione (Karl Marx: il comunismo pensabile. Per un nuovo manifesto “classico-comunista”)5, la progettualità filosoficamente fondata ha sempre costituito il cuore nascosto del pensiero di Marx, così come del pensiero greco classico, in quanto idee umanistiche ed anticrematistiche costituiscono il sostrato filosofico più naturale per l’uomo, dato che sono quelle che maggiormente ne favoriscono la realizzazione della essenza.
Per tornare, comunque, alla ipotesi specifica di Diliberto, riteniamo che se un modello giuridico ideale per il comunismo debba essere ricercato fra i modelli storicamente esistiti, esso vada ricercato non nel diritto romano, bensì nel diritto greco; ciò in quanto quest’ultimo, non ancora pervaso dai processi tipici di ogni economia privatistica e mercificata (come è quella capitalistica attuale, e come era anche quella romana), si incentrava su una concezione umanistica della giustizia, e su una concezione anticrematistica della socialità. Possiamo allora chiederci, per concludere questa introduzione ed al contempo cominciare la nostra trattazione: come mai tanta importanza attribuita da Diliberto e non solo al diritto romano?
1 Abbiamo sintetizzato il nostro rapporto con il comunismo (inteso come progettualità insieme umanistica ed anticrematistica) nel saggio intitolato Comunista in che senso?, in L. Grecchi, Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici greci, per la buona vita, Petite Plaisance, Pistoia, 2009.
2 L. Grecchi, L’umanesimo della antica filosofia cinese, Petite Plaisance, Pistoia, 2009.
3 Siamo, su questo punto, in piena concordanza con C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx, Il Prato, Padova, 2007, con introduzione di D. Fusaro. Segnaliamo anche, in merito, C. Preve L. Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2005.
4 Ricordiamo, in merito, D. Fusaro, Bentornato Marx, Bompiani, Milano, 2009.
5 Per il momento, dobbiamo rinviare a L. Grecchi, Karl Marx nel sentiero della verità (Petite Plaisance, Pistoia, 2003) e Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx (Petite Plaisance, Pistoia, 2003).