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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 201

Ernesto Screpanti

Marx dalla totalità alla moltitudine (1841 - 1843).

ISBN 978-88-7588-119-1, 2013, pp. 192, formato 140x210 mm., Euro 18 – Collana “Il giogo” [53].

In copertina: Marc Chagal, Entre chien et loup [Tra cane e lupo. Al crepuscolo], 1938-1943.

indice - presentazione - autore - sintesi

18,00

 

 

«Leibniz consiglia ai cartesiani… ‘di disfarsi dello spirito di setta, sempre contrario all’avanzamento delle scienze… di attaccarsi alle esperienze e alle dimostrazioni, invece che a quei ragionamenti generali [che non] non servono che a mantenere la pigrizia e coprire l’ignoranza; di cercare di fare qualche passo avanti, e di non accontentarsi di essere dei semplici parafrasti dei loro maestri; e di non trascurare o disprezzare l’anatomia, la storia, le lingue, la critica, disconoscendone l’importanza e il valore… Mi sembra che coloro che s’attaccano a un solo maestro s’abbassano in tal maniera alla schiavitù, e non concepiscono pressoché nulla dopo di lui’» (Marx, BHL, 210).

 

 

Ciò che Leibniz consiglia ai cartesiani Marx parrebbe volerlo consigliare agli hegeliani, e innanzitutto a se stesso. Così, già a partire dalla preparazione della tesi di laurea, quando è ancora un hegeliano convinto, si interessa ad alcuni filosofi del tutto estranei alla koiné idealista in cui si è formato. È come se il percorso di ricerca iniziato con la tesi fosse mosso dall’esigenza di trovare una via d’uscita dalle gabbie concettuali delle sette hegeliane.

Comincia a lavorare alla tesi di laurea nel 1838, e la consegna nel marzo del 1841. Nei mesi di gennaio-marzo del 1841 s’impegna in uno studio approfondito di Leibniz e Hume e compila due quaderni di estratti da loro opere; poi tra marzo e aprile fa lo stesso lavoro con Spinoza. La tesi di laurea è ancora tutta un esercizio di filosofia hegeliana, seppur curvata sulla dottrina dell’autocoscienza di Bruno Bauer. Ma in essa Marx comincia a prendere qualche timida distanza dall’idealismo rivalutando, contro la svalutazione che ne aveva fatto Hegel, il “materialismo” di Epicuro. Gli estratti da Leibniz, Hume e Spinoza d’altronde rivelano l’emergere di un interesse di ricerca che è dominato da ambizioni scientifiche.

Un nodale punto d’approdo del percorso iniziato nel 1841 è raggiunto nel 1843, anno critico nella vita di Marx. Il capo redattore della Gazzetta Renana rimane disoccupato. Così ricomincia dedicarsi agli studi teorici, dopo aver speso undici mesi nell’attività giornalistica, e avvia una collaborazione con Arnold Ruge per la fondazione degli Annali franco-tedeschi. A Kreuznach nel 1843 scrive la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Inoltre studia approfonditamente Il Contratto sociale di Rousseau, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, i Discorsi di Machiavelli e altre opere di teoria e storia politica dedicate soprattutto alla Rivoluzione Francese. Con il suo solito metodo di studio riempie alcuni quaderni di brani tratti dai vari testi. Le sue posizioni politiche subiscono una rapida evoluzione. È proprio questo il periodo in cui compie la conversione dall’idealismo e dal democraticismo radicale al materialismo e al comunismo (Mosolov, 1973, 159). Secondo quanto scrive Engels in un articolo pubblicato l’11 novembre 1843 su The New Moral World, a quella data la conversione di Marx al comunismo è stata completata.

Gli studi del 1843 sono dunque decisivi per la nascita del pensiero comunista moderno. Come suggeriscono Rubel (1957, 397n) e Mustè (1981-82, 58-9), il passaggio di Marx al comunismo alla fine del 1843 rimarrebbe un perfetto mistero se non si tenesse conto dei Quaderni di Kreuznach. Le ricerche svolte in quell’anno sono importanti non solo perché ci permettono di capire l’evoluzione del suo pensiero in una fase cruciale della formazione, ma anche perché costituiscono un caposaldo della dottrina politica comunista. Ed è vero che «la produzione teorica marxiana di quest’anno rappresenta il punto della riflessione politica al di là del quale […] Marx non è più andato» (Trincia, 1985, 101). Tuttavia i Quaderni di Kreuznach e la Kritik del 1843 rimarrebbero a loro volta un perfetto mistero se non si tenesse conto dei Quaderni di Berlino, con cui inizia il percorso di ricerca che a quegli scritti approda. Perciò si deve partire dal gennaio del 1841 per cogliere il senso di tale percorso. E per motivi che diverranno evidenti nel seguito della trattazione, la data ad quem va fissata a quella del Quaderno su Machiavelli, cioè a subito dopo l’agosto del 1843, escludendone le opere scritte verso la fine dell’anno e poi pubblicate negli Annali franco-tedeschi.

In Italia godiamo di una condizione privilegiata per lo studio delle opere giovanili di Marx perché, soprattutto per lo stimolo di Galvano Della Volpe, si è avviata nel secondo dopoguerra una fertile tradizione di ricerca e un profluvio di dibattiti che hanno portato a sviscerare le complesse problematiche epistemologiche e teoretiche del giovane Marx in modo così approfondito e così vasto che sembra oggi non ci sia rimasto quasi più nulla da chiarire.

Della Volpe e la sua scuola1 hanno preso sul serio il tentativo di superare Hegel fatto con la Kritik, e hanno cercato di portare alla luce le innovazioni introdotte entro due problematiche basilari della filosofia hegeliana: quella metodologica e quella politica. Nel primo ambito di discorso la Kritik è interpretata come un attacco all’idealismo che, facendo leva sulla condanna feuerbachiana delle ipostasi di Hegel, accettando il principio aristotelico di non-contraddizione quale base imprescindibile della logica, e postulando la priorità ontologica dei soggetti concreti rispetto alle astrazioni concettuali, pone le basi del successivo approdo alla concezione materialistica della storia. Nel secondo ambito di discorso la Kritik viene letta come un caposaldo dell’evoluzione politica di Marx, un caposaldo che segna il passaggio dalla visione ancora fondamentalmente liberale che era propria del giornalista radical-democratico nel 1842-43 a quella egualitario-socialista che il politico rivoluzionario comincerà a costruire a partire dal 1843-44. Il passaggio sarebbe stato effettuato sotto l’egida di Rousseau, teorico della «democrazia egualitaria».

Le due tesi sulle innovazioni introdotte da Marx nel campo epistemologico e nel campo della teoria politica sono state elaborate da Della Volpe e dalla sua scuola con grande spessore filosofico. Molti altri le hanno riproposte senza significative varianti, perciò non mi parrebbe una sineddoche fuorviante definirle “tesi dellavolpiane”. Sarebbe troppo dispersivo stare ora a citare tutti quegli altri. Così mi limiterò a richiamare solo due interessanti riformulazioni recenti, quella di Little (1998), che elabora soprattutto la tesi epistemologica, e quella di Abensour (2008), che si concentra specialmente sulla tesi politica.

Il contributo di Little è notevole perché, nel tentativo di enucleare le basi metodologiche della scientificità dell’analisi critica di Marx, da un lato porta alla luce il suo approccio di “empirismo galileiano”, un realismo illuminato dall’astrazione teorica che gli evita di scivolare nell’empirismo “scettico” di tradizione britannica, dall’altro illustra con precisione l’individualismo istituzionale di cui Marx, sia in gioventù che nella maturità, si serve per decostruire le ideologie del potere e costruire le sue spiegazioni della struttura e della dinamica del capitalismo. A dire il vero l’individualismo metodologico di Little resta ancora po’ suggestionato dal rational-choice Marxism (ai cui limiti accenno in appendice B), tuttavia la sua tesi sul metodo della «logica delle istituzioni» apre a un approccio di individualismo istituzionale che l’affranca da certe americanate analitiche.

Quanto alla proposta di Abensour, mi sembra apprezzabile non soltanto perché disloca il quadro di riferimento interpretativo dall’empirismo logico all’ermeneutica, ma soprattutto perché introduce degli spostamenti di accenti che possono essere utili per correggere alcune pecche dell’interpretazione di Della Volpe. La correzione principale riguarda il discorso marxiano sulla «vera democrazia», che viene riletto in una visione politica libertaria facendo piazza pulita di tutte le utilizzazioni ideologiche novecentesche, quelle che il marxismo-leninismo ufficiale ha piegato a servire un’ideologia del potere.

Alla luce della ricerca recente si può dire che le tesi di Della Volpe, benché sostanzialmente giuste, sono state formulate con un eccesso di reverenza nei confronti dell’icona ufficiale di Marx, eccesso che ha portato a sottovalutare alcune aporie delle idee elaborate nel 1843. Nello sforzo di mostrarne la coerenza interna e la congruenza con gli sviluppi successivi, Della Volpe ha ricostruito il discorso del giovane Marx in termini un po’ acritici. In particolare non ha dovutamente riconosciuto il legame che conserva con la filosofia idealista, legame in forza del quale non riesce a spingere la sua critica a Hegel fino al punto di liberarsi completamente delle inclinazioni olistiche. Sul piano della teoria politica poi, il connubio Marx-Rousseau è costruito in modo piuttosto forzato, non tenendo conto delle distanze che il Moro prende dal filosofo ginevrino o fraintendendole. Non solo, ma le forzature sembrano finalizzate all’interpretazione della teoria della «vera democrazia» quale prefigurazione con più di un secolo d’anticipo delle grandi realizzazioni democratiche delle democrazie popolari.2 Forse però il limite principale dell’interpretazione dellavolpiana risiede in un difetto di approfondimento: avendo individuato le due principali innovazioni introdotte dal giovane Marx in tema di metodo e in tema di teoria politica, Della Volpe non è stato capace di coglierne l’intima connessione in un’unica radice filosofica: la critica dell’olismo ontologico di Hegel.

Si sarebbe tentati di guardare alle acquisizioni della scuola althusseriana per trovare degli antidoti a quelle forzature. In effetti Althusser (1967) ha calcato la mano sull’influenza nefasta che Feuerbach ha esercitato sulla formazione dell’umanesimo del giovane Marx e sulla sua incapacità di distaccarsi completamente da Hegel. Ma è rivelatore il fatto che, per portare alla luce la cosiddetta “rottura epistemologica», ha concentrato l’attenzione sugli scritti del periodo 1844-46, non accorgendosi che Marx pone i presupposti di quella «rottura» nella Kritik. La sua opinione secondo cui la critica marxiana della filosofia hegeliana del diritto pubblico si configurerebbe come un «momento razionalista-liberale» basato su un «umanismo piccolo-borghese» è stata sfatata dalla ricerca più recente (Mercier-Josa, 1999, 20). Peraltro la stessa tesi della «rottura epistemologica» attuata attorno al 1845 va presa cum grano salis, sebbene questo non sia un grosso problema.3 Il vero problema delle tesi di Althusser non riguarda la datazione della «rottura», bensì la definizione di ciò che c’è al di là di essa, vale a dire la caratterizzazione della scienza di Marx. Ne tratterò nell’appendice B.

Alcuni estimatori italiani di Althusser4 si sono trovati in migliore posizione per interpretare correttamente gli scritti del 1843, avendo potuto far tesoro delle acquisizioni della scuola dellavolpiana. E in effetti, pur accettando la tesi della «rottura epistemologica» avviata con le Tesi su Feuerbach e compiuta con L’ideologia tedesca, non hanno mancato di rilevare che le sue premesse sono state poste già prima del 1844 e proprio nell’opera in cui Marx cerca di prendere le distanze dalla filosofia politica hegeliana. In quest’ottica sembrerebbe che la «rottura» s’è verificata con più di un anno d’anticipo rispetto all’indicazione althusseriana e che le opere del 1844 costituiscano quasi una parentesi rovinosa, una sorta di regresso filosofico rispetto agli avanzamenti scientifici della Kritik, un regresso determinato forse dall’influenza di Feuerbach e Hess, ma anche del giovane Engels.5

Senonché per capire il Marx del 1843 e del 1844, per afferrare il senso del suo tentativo di distaccarsi criticamente da Hegel, non si può prescindere da Bauer e da Feuerbach, i quali lo influenzano fortemente sia nel bene che nel male. Nel bene perché gli forniscono gli strumenti concettuali per la critica alle ipostasi hegeliane, la leva di cui si serve per tentare di sollevare il macigno dell’olismo di Hegel. Nel male per-ché col razionalismo astratto dell’uno e l’essenzialismo antropologico dell’altro mettono una palla al piede di Marx che, bloccandolo nello slancio per saltare oltre Hegel, quasi come per contraccolpo talvolta lo spingono addirittura qualche passo indietro sul piano dei presupposti etici e ontologici della teoria dello Stato.

Ebbene gran parte di questo male è stato portato alla luce dalle ricerche di Trincia e Finelli,6 ricerche le cui acquisizioni costituiscono ormai un punto fermo negli studi sul giovane Marx, se non altro perché rappresentano il necessario contraltare di quelle della scuola dellavolpiana. Di ciò che ho appreso da esse dirò nel capitolo 3. Qui mi limiterò a rilevare che i due studiosi danno talvolta l’impressione di compiere una forzatura di segno opposto a quella di Della Volpe. Calcano la mano sull’anima romantica del giovane Marx e, benché rilevino ripetutamente le aporie e le contraddizioni in cui si dibatte, ce la presentano come un’anima ancora fondamentalmente hegeliana. Le sue ambizioni critiche e scientifiche ne risultano un po’ sminuite, quasi il prodotto di una certa inadeguatezza rispetto alle profondità del pensiero di Hegel. Così ecco un Marx che «non approfondisce le ragioni per cui Hegel [...]»; mentre «avrebbe dovuto prendere atto della profondità [...]»; un Marx il cui impianto critico «non giunge a una consapevolezza pari almeno a quella hegeliana [...]».7

In realtà la sua principale difficoltà teorica deriva dal fatto che la vocazione anti-idealista e rivoluzionaria resta ancora in parte prigioniera di un’influenza feuerbachiana, ma principalmente, nel 1843, di una baueriana. Trincia e Finelli, nelle opere sopra citate, pur lasciando intravedere quella vocazione, insistono sugli effetti dell’influenza di Feuerbach. Tuttavia in un suo contributo più recente Trincia (2000, cap. 3) ha apportato le dovute correzioni alla precedente forzatura, presentandoci un Marx più complesso e profondo del classico idealista giovane hegeliano, soprattutto più ambivalente, un critico di Hegel che è allo stesso tempo un organicista feuerbachiano e un realista anti-essenzialista.

Anche Kouvélakis (2001, 13; 2003, 380 et passim), insistendo sull’apparente paradosso di un Marx che riesce a essere più conseguente di Hegel mentre lo uccide con un “libero uso” dei suoi schemi dialettici, ha notato l’ambivalenza del giovane Marx. La sua anima non feuerbachiana sarebbe riconducibile a un approfondimento di “Hegel al di là di Hegel”. Il popolo che affiora nella Kritik sarebbe un soggetto collettivo definito coniugando il concetto spinoziano di «moltitudine» con quello hegeliano di «vita del popolo». In quest’ottica la rivoluzione si configurerebbe quale processo pratico di mediazione de­mocratica. Kouvélakis attinge a una tesi interpretativa della Mercier-Josa (1999, 18-20 et passim), secondo cui il concetto di «vera democrazia» sarebbe stato elaborato da Marx proprio per risolvere il problema della mediazione tra Stato e società civile. Non solo, ma la teoria della mediazione democratica non sarebbe affatto marginale e solo giovanile nella ricerca di Marx, configurandosi piuttosto come uno snodo filosofico centrale che sta alla base di tutte le sue prese di posizione politiche della maturità.

Ora, che le tesi sulla vera democrazia costituiscano il nucleo generatore di gran parte della teoria politica del Marx maturo è vero. Ciò che lascia perplessi in questa interpretazione è l’idea che la democrazia si risolva in una mediazione istituzionale di tipo ancora hegeliano. Intanto non sembra che Marx abbia voluto costruire la teoria di una forma di Stato. E poi è abbastanza evidente che, sotto l’influenza di Bauer e di Feuerbach, il soggetto della trasformazione democratica è spesso visto come un corpo omogeneo capace di accedere direttamente all’autocoscienza politica saltando ogni forma di mediazione. Per converso, se è vero – e in buona parte lo è – che nella Kritik la trasformazione democratica è studiata quale processo di rivoluzione permanente portato avanti da una «moltitudine» priva di essenza etica, allora siamo chiaramente in presenza di una fuoriuscita dall’universo di discorso hegeliano.

Ritengo che questa linea interpretativa neo-hegeliana contribuisce a chiarire la natura delle sopravvivenze idealiste nel pensiero di Marx, ma non il senso profondo del suo tentativo di criticare Hegel. Eppure non si può ignorare che il giovane critico definisce le proprie posizioni filosofiche nel 1843 in un’esplicita e radicale polemica con Hegel. Perché gli sforzi degli interpreti devono essere volti solo a dimostrare che non era poi così anti-hegeliano come credeva di essere? Perché non cercare anche di porre in evidenza le importanti innovazioni teoretiche e metodologiche che quel tentativo di critica ha cominciato a far emergere nel pensiero marxiano orientandolo verso un approccio realista ai problemi politici?

Bisogna essere indulgenti col giovane Marx e fare un grande sforzo di comprensione. Poiché gli studi del 1843 si collocano in una drammatica crisi di passaggio nell’evoluzione del suo pensiero, sarebbe sorprendente se non fossero pieni di aporie e se non si prestassero a interpretazioni contrastanti. Ed è ormai accertato che non si può sostenere che gli scritti giovanili, la Kritik in particolare, sono solo imbevuti di organicismo, cioè dell’idea che l’individuo è completamente assorbito nella totalità del popolo-genere. Questa concezione c’è, ma c’è anche il suo antidoto. Bisogna avere il coraggio di ammettere che la ragione di fondo delle aporie del giovane Marx risiede in quella sua doppia anima filosofica che lo fa continuamente oscillare tra romanticismo e illuminismo, tra idealismo e scienza. Peraltro è «l’instabilità interna», «l’indeterminazione concettuale» derivante dai «due lati in conflitto del pensiero di Marx» che rende vive e interessanti le ambiguità di cui sono intessute le sue prime opere.8

Dopo le tante ricerche svolte dai filosofi sul giovane Marx, si potrebbe dubitare che sia possibile dirne ancora qualcosa di nuovo, e da parte di un economista! Credo invece che un ulteriore chiarimento possa essere apportato proprio a partire da un punto di vista esterno alla filosofia, e in particolare se si riesce a far tesoro di un importante dibattito svoltosi nell’ambito dell’epistemologia delle scienze sociali, quello sull’individualismo metodologico. Nell’appendice B presento in modo sintetico le principali posizioni che sono state assunte dagli scienziati sociali su questa problematica.

Il dibattito fu avviato nel 1883 da Carl Menger (1937), economista di formazione filosofica aristotelica, dalla quale derivava da una parte il diniego del rigore scientifico dell’induzione dall’altra la convinzione che le istituzioni e le entità sociali, benché fenomeni reali, non possono essere antropomorfizzate quali soggetti olistici. Lo studioso austriaco lanciò un attacco letale all’impostazione metodologica di alcuni esponenti delle “scuole storiche tedesche”, specialmente di alcuni economisti che, ancora succubi di un certo «realismo concettuale» di stampo romantico, praticavano una sorta di reificazione di concetti riferiti ad enti collettivi, filosofando intorno a soggetti storici come la Nazione, lo Spirito del Popolo e le corporazioni e gingillandosi nello studio di fantomatiche «leggi di sviluppo storico», con cui travestivano da discorso scientifico delle filosofie della storia alquanto idealistiche. Il dibattito ha successiva­mente interessato altre discipline sociali, oltre l’economia, e ha coinvolto svariate scuole di pensiero contemporanee, dal funzionalismo allo strutturalismo, dall’istituzionalismo all’evoluzionismo. È proseguito fino a oggi e, benché abbia portato a far chiarezza su molti punti oscuri degli approcci olistici nelle scienze sociali, non è destinato a una prossima chiusura.

Potrebbe sembrare audace e fuorviante il tentativo di interpretare il Marx del 1843 usando concetti, come quelli riferiti alla dicotomia olismo-individualismo, che sono stati elaborati quaranta anni dopo nell’ambito di un dibattito apparentemente estraneo alle problematiche marxiane. Ma, a parte il fatto che l’olismo delle scuole storiche tedesche proveniva dallo stesso retroterra filosofico entro cui si muoveva Marx e da cui stava cercando di liberarsi, il punto essenziale è un altro. È che per quella dicotomia passa una discriminante fondamentale del discorso scientifico nelle discipline sociali, e che la lotta contro i tentativi della metafisica di indurre il «sonno della ragione» tramite paralogismi basati sull’antropomorfizzazione dei processi storici e sociali e la reificazione delle astrazioni concettuali la scienza continua a combatterla oggi quanto ai tempi di Marx. E se i dibattiti più recenti ci hanno fornito una strumentazione analitica rivelatasi utile per chiarire le posizioni dei nostri contemporanei, perché non usarla per chiarire anche quelle che si davano ai contemporanei di Marx?

L’interpretazione che proporrò, pur orientandosi sulle tipiche problematiche metodologiche delle scienze sociali, non trascura gli apporti della filosofia, ma anzi cerca di far tesoro di vari contributi dei filosofi sopra menzionati. Per me il Marx veramente interessante che emerge negli scritti del 1841 e del 1843 è lo studioso che imposta la critica dell’olismo di Hegel e che, sulla scorta di tale critica, pone le basi epistemologiche di un approccio realistico ai problemi politici, economici e sociali, e ad un tempo cerca di costruire un discorso altamente innovativo sulla «vera democrazia» e la rivoluzione. Questo discorso, pur nei limiti di una filosofia che è ancora principalmente negativa piuttosto che propositiva, indirizza il pensiero di Marx verso la fondazione della moderna teoria politica del comunismo e di un approccio non moralistico e non utopistico alla rivoluzione.

D’altra parte non ho difficoltà ad ammettere che, specialmente nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico e un po’ anche nel Quaderno di Kreuznach dedicato a Rousseau, Marx resta in parte prigioniero dell’Hegel e del Rousseau che vuole criticare. Ebbene sì, c’è pure un filosofo idealista in quei due testi. Marx stava cercando di superare Hegel e Rousseau, ma non riuscì a farlo fino in fondo. Resta una propensione metafisica del filosofo di Berlino e una moralista di quello di Ginevra di cui non riuscirà a liberarsi nel 1843 e di cui anzi non si libererà mai completamente.

 

 

 

1 Vedi specialmente Della Volpe (1973; 1974), Merker (1961), Colletti (1971; 1972).

2 Questa forzatura politico-ideologica diventa particolarmente evidente dopo il XX Congresso del PCUS, quando nella teorizzazione di Della Volpe «la continuità dialettica fra Rousseau e Marx sul piano del riconoscimento del merito e del lavoro rischia (così come la composizione di Kant e Marx nella ‘legalità socialista’) di servire soprattutto alla legittimazione teorica di forme moderne di società (come l’URSS degli anni ’60)» (Illuminati, 1975, 78).

3 È una semplificazione proposta in Pour Marx, ma rivista successivamente dallo stesso Althusser (1973, 68-77) nei termini di una «rottura continuata» o «tendenziale» che non va esente da «sopravvivenze e tentativi, avanzate e arretramenti». Può essere utilizzata come prima approssimazione per sostenere che il discorso scientifico è marginale nel Marx giovane e prevalente nel maturo, o meglio, che nel primo predomina una retorica di tipo dialettico e nel secondo una di tipo scientifico. Certo però non si può negare che scienza e filosofia della storia restano intrecciate in tutto il percorso di ricerca di Marx. Insomma non si tratta tanto di una rottura definitiva quanto di una frattura permanente o ricorrente (Karatani, 2003, 4, 136; Basso, 2008, 44).

4 Ad esempio Luporini (1967; 1978) e Guastini (1974).

5 Engels (LSI; CEP) era giunto all’economia politica prima di Marx, il quale restò positivamente impressionato dalla critica moralista della teoria economica classica e del sistema capitalistico sviluppata nei suoi articoli degli Annali franco-tedeschi.

6 Vedi in particolare Trincia e Finelli (1982), Finelli e Trincia (1983), Trincia (1985), Finelli (1995), Finelli (2004). Su una simile linea interpretativa si muove Fabiani (1998; 2000).

7 Trincia e Finelli (1983, 250, 251, 451 et passim). Senonché il bello di questa prima critica radicale a Hegel è che Marx, seppur con grande difficoltà, vi cerca di smascherare quell’oscura dissimulazione del vuoto che vuol far credere a delle profondità (Touboul, 2004, 128). E che dire della profondità di un filosofo che già all’età di 15 anni aveva sco-perto la potenza della contraddizione dialettica stabilendo il fondamentale «principio: Ogni cosa buona ha il suo lato cattivo» (citato da Althaus, 1993, 12)?

8 Le tre citazioni sono da Kouvélakis (2003, 380), Basso (2008, 40) e Trincia (2000, 148).

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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