Se non ci fossero specchi, resterebbero gli occhi a dire ad una donna brutta che è brutta. Gli occhi degli altri sono uno specchio. Sono il giudice che decreta se esistiamo o no. Se siamo belli o brutti.
Possiamo ignorare il giudizio, cercare di esserne indipendenti, ma tutti desideriamo che qualcuno nel mondo si accorga e guardi la nostra bellezza. La ricononosca. Non essere guardati equivale a non essere amati.
Crescere storti, rinchiusi, evitati dallo sguardo degli altri, provoca dolore. Ma la possibilità di trasformare il dolore genera a volte una nuova inaspettata bellezza.
La bellezza della musica, della poesia, la bellezza che sta nelle mani di questa bambina brutta. L’atto scandaloso di una bellezza che ha bisogno di orecchie e di anima per essere vista, più che di occhi.
Questa storia sfida il tempo in cui è stata scritta: un’epoca in cui l’apparire ha seppellito l’essere, in cui “photoshoppare” visi e corpi è la regola che si impone per correggere e falsificare ogni minima imperfezione del corpo umano.
Mettere in scena la bruttezza come metafora, conservarne il mistero, non banalizzarlo rendendo realisticamente “mostruosa” la protagonista, è un compito non piccolo poiché tutto quello che accade nel romanzo di Mariapia Veladiano e nella efficace riduzione teatrale di Maura Del Serra, ruota intorno a questa condizione.
La letteratura e la poesia possono far vedere solo dicendo, il teatro deve far vedere anche agli occhi. L’invenzione della bruttezza sarà dunque il nostro punto di partenza, il cambio dello sguardo del pubblico alla fine del racconto; ci auguriamo sia il punto di arrivo.
Cristina Pezzoli
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