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Cat.n. 262

Carlo Carrara

L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger

ISBN 978-88-7588-200-6, 2016, pp. 176, formato 140x210 mm., Euro 16 – Collana “Il giogo” [70].

In copertina: René Magritte, Il maestro di scuola (1954).

indice - presentazione - autore - sintesi

16,00

Pochi giorni prima di morire, Heidegger decise di mettere in esergo all’edizione completa delle sue opere il motto: “Wege - nicht Werke”, “Vie - non opere”, tre semplici parole per indicare che il suo pensiero non è un pensiero sistematico ma Denkweg, “pensiero in cammino”, che le sue opere non sono opere definitive ma Wege, “vie”, “cammini”, “sentieri”: «una serie di tappe sulla via di un solo problema: quello dell’essere»1, inscindibile dalla questione del pensiero2.

Nell’Intervista resa da Heidegger a “Der Spiegel” il 23 settembre 1966, pubblicata, come convenuto con gli inviati del settimanale, dopo la sua morte, avvenuta il 26 maggio 1976, a proposito delle lezioni apparse col titolo Che cosa significa pensare?3, il filosofo tedesco dichiara: «Il fatto che proprio questo scritto tra tutte le mie pubblicazioni, sia quello meno letto, è forse un altro segno dei nostri tempi»4.

1 M. Heidegger, Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. XV. D’ora in avanti, essendo di Heidegger i testi citati, il suo nome verrà omesso.

2 Protocollo seminariale, in Tempo ed essere, tr. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, p. 138.

3 Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1996.

4 Ormai solo un Dio ci può salvare, tr. it. di A. Marini, Guanda, Parma 1992, p. 145.

Introduzione

La domanda “Che cosa significa pensare?”

Il presente studio ha per oggetto la questione del pensiero nel cammino di pensiero di Martin Heidegger. I sentieri di questo cammino, per loro natura, sono sempre e ancora da pensare.

Nella prima lezione del secondo corso universitario Che cosa significa pensare?, il filosofo tedesco evince quattro modi di porsi di fronte alla domanda in esame. “Che cosa significa pensare?”, in tedesco Was heißt Denken?, vuol dire: 1. Che cosa significa la parola “pensiero”? 2. Che cosa intende la dottrina tradizionale del pensiero per “pensiero”? 3. Quali sono i requisiti per pensare in modo davvero essenziale? 4. Che cosa ci chiama al pensiero?1. La domanda cui spetta il primato è quella enunciata al quarto posto, soltanto in essa la parola heißen esprime tutto il suo dire autentico.

Il significato più corrente di heißen è “voler dire”, “significare”. Abitualmente esprime anche qualcosa come “chiamare”, “chiamarsi”, “esser chiamato”. Was heißt Denken?, con il verbo heißen inteso in questo modo, viene a significare: «Che cosa ci si deve rappresentare con il procedimento che prende il nome di “pensiero”?»2. La domanda suona come se si trattasse di chiedere semplicemente una più precisa informazione su qualcosa come il pensiero. L’umana capacità di pensare qui si presenta come uno dei tanti temi di cui si può trattare.

Nel suo senso poco abituale e all’apparenza inconsueto heißen vuol dire “chiamare qualcuno a qualcosa”: «Heißen significa: comandare, a condizione che ascoltiamo anche questa parola nel suo dire originario. Giacché comandare non significa in fondo: impartire dei comandi e degli ordini, ma invece: raccomandare, affidare, rimetter alla protezione di qualcuno, custodire. Heißen è l’appello che affida, un lasciar-pervenire che rimanda»3. Was heißt Denken?, con il verbo heißen inteso nel suo senso iniziale, viene a significare: «Che cosa ci chiama al pensiero? Che cosa fa appello a noi, affinché noi pensiamo e in questo modo, in quanto pensanti, siamo quelli che siamo?»4. La domanda qui non chiede di fare del pensiero oggetto di una ricerca, ma interpella su qualcosa che tocca direttamente l’essenza dell’uomo. La domanda chiede espressamente della provenienza dell’appello (Geheiß) che chiama l’uomo a essere quello che è. «Ma da dove potrebbe mai venire il Geheiß verso il pensiero – osserva Heidegger –, se non da ciò che ha bisogno per sua natura del pensiero?»5. Ciò che chiama l’uomo al pensiero richiede per sé il pensiero: «Ciò che ci chiama nel pensiero e in questo modo raccomanda la nostra essenza al pensiero, cioè la custodisce, ha bisogno del pensiero, in quanto ciò che ci chiama vuole esso stesso nella sua essenza essere pensato. Ciò che ci chiama al pensiero reclama di per sé di essere servito, curato e custodito nella sua essenza per il tramite del pensiero»6. La domanda “Che cosa ci chiama al pensiero?” vuol dire allora guardare tanto a “Quello” (das Es) che affida all’uomo il pensiero come sua determinazione essenziale, quanto all’uomo stesso, la cui essenza consiste nell’essere dotato del pensiero.

Was heißt Denken? conduce al tempo stesso anche a chiedere: “Che cosa viene nominato con il nome Denken, “pensiero”? In questo caso si tratta di dare ascolto al dire della parola Denken, così come è stato con la parola heißen.

Generalmente quando la parola “pensiero” viene pronunciata si attribuisce ad essa un significato puramente esteriore. Parimenti la domanda “Che cosa significa pensare?” incorre nello stesso pericolo, in quello di essere colta per lo più nella sua esteriorità, come se fosse soltanto una richiesta per ottenere una semplice o una maggiore informazione sul termine “pensiero”, mediante le ricerche storiche sulle lingue. «Ma le conoscenze della storiografia – sostiene il filosofo tedesco – sono, come ogni conoscenza dei fatti, solo condizionatamente certe, ma non incondizionatamente. Tutte sono limitate dal fatto che le loro asserzioni valgono finché non si presentano nuovi fatti, tali che richiedono la sospensione delle asserzioni precedenti»7. Non solo: «Ciò che la scienza del linguaggio enuncia deve prima esserle storicamente dato, dato cioè su un cammino prescientifico tracciato dalla storia della lingua. Soltanto là dove è già data una storia, e non prima di allora, i suoi dati possono diventare oggetto della storiografia, in cui i dati non cessano di essere ciò che di per sé sono»8. Il chiarimento della parola Denken non può quindi basarsi né su conoscenze storiche, né sul semplice ricordo e nemmeno sulla riesumazione, sempre che sia possibile, di un tesoro della lingua, antico ma dimenticato: la parola antica deve essere seguita, ma non accettata in senso esclusivamente storico; il suo dire deve essere accolto, ma con l’unico scopo di seguire ciò verso cui esso indica.

L’area di significato del verbo denken (pensare) implica principalmente queste parole: Gedachtes (pensato), Gedanke (un pensiero), Gedächtnis (memoria), Dank (ringraziamento). La storia di queste parole fornisce una prima indicazione: in esse la parola antica, originariamente parlante, e tale che dà la misura, è Gedanc.

Correntemente un pensiero corrisponde a un’idea, un’opinione, una rappresentazione, una riflessione e ad altro ancora. Gedanc non solo dice di più, ma lo dice in maniera decisamente diversa: «La parola iniziale Gedanc dice: il raccolto ricordare (gedenken) che tutto raccoglie. Gedanc dice la stessa cosa che animo, muot, cuore»9, non però nel senso emotivo, quale aspetto della coscienza umana, ma in quello che fa dell’essenza dell’uomo quell’essenza che è: «Il Gedanc, il fondo del cuore, è il raccoglimento di tutto ciò che ci tocca, che ci riguarda, che ci interessa, noi nella misura in cui siamo umani»10. Il senso di questo “interesse” non deve però essere confuso con ciò che correntemente indica la parola “interessante”: «Inter-esse significa: essere tra e per entro le cose, stare in mezzo a una cosa e perseverarvi. Invece, per l’interesse odierno ciò che conta è solo l’interessante. Tale è ciò che ci permette, un momento dopo, di essere già indifferenti e di pensare a qualcos’altro, che ci importa altrettanto poco del precedente»11.

La parola iniziale Gedanc, essenzialmente ascoltata, non dice soltanto la stessa cosa di ciò che nominano le parole animo e cuore, dice anche nel medesimo tempo Gedächtnis, “memoria”, e Dank , “ringraziamento”.

Inizialmente Gedächtnis non si identifica affatto con la capacità che l’uomo ha di ricordare. Il suo significato originario è qualcosa di sostanzialmente diverso dalla semplice facoltà umana, psicologicamente intesa, di trattenere, di conservare il passato, di avere un determinato ricordo: «Gedächtnis nomina l’intero animo nel senso del costante raccoglimento interiore presso ciò che si rivolge essenzialmente ad ogni sentire. Gedächtnis dice originariamente la stessa cosa che An-dacht: l’incessante, raccolto rimanere presso…, e non soltanto presso ciò che è passato, ma allo stesso modo presso ciò che è presente e ciò che può venire»12. Nella memoria, così intesa, che non abbandona ciò presso cui è raccolta, predomina tanto la fedeltà nel suo “rimanere presso…”, quanto un perseverante “con-tenere”: «“Tenere” significa propriamente “custodire”»13.

Il Gedanc, come animo e cuore, è dunque memoria, ma mentre è memoria è, al tempo stesso, “riconoscenza” e quindi “ringraziamento” per il dono ricevuto: «Doni ne riceviamo tanti e di vario genere. Ma il dono più alto che ci viene fatto, quello che autenticamente dura, è la nostra essenza, che ci provvede di quella dote grazie alla quale siamo quelli che siamo. Per questa ragione dobbiamo essere riconoscenti per essa incessantemente e prima che per ogni altra cosa. Ora, ciò che ci è donato, nel senso di questa dote, è il pensiero»14. «Nel ringraziamento l’animo commemora (gedenkt) ciò che esso ha ed è»15.

Ricapitolando: la parola iniziale Gedanc significa “animo”, nel senso di “ciò che fa dell’essenza umana quell’essenza che è”; significa “cuore”, nel senso del “raccoglimento di tutto ciò che tocca l’essenza dell’uomo”; significa “memoria”, nel senso di “raccolto rimaner presso… che non abbandona l’essenziale”; significa “ringraziamento”, nel senso della “riconoscenza dell’animo verso la propria essenza”. Il significato originario di Gedanc riconduce al dire della domanda cui spetta il primato e che dà la misura: «Che cos’è che ci chiama al pensiero, ci chiama nel senso che ci rinvia innanzi tutto al pensiero e, così facendo, ci affida la nostra essenza, come qualcosa che è (west) nella misura in cui pensa?»16.

Tutto questo ricco parlare delle parole pensiero e memoria, pensiero e ringraziamento, fa apparire degli stati di cose che non si sono ancora rivolti all’uomo nella loro immediatezza, che continuano a rimanere nel non-detto e nel quasi dimenticato: «Quando sentiamo parlare di “pensiero” – osserva il filosofo tedesco –, non solo non pensiamo a ciò che la parola dice, ma ci rappresentiamo con essa qualcosa di completamente diverso. Ciò che questa parola vuol dire non si determina a partire dal detto e dal non-detto del suo linguaggio. Ciò che la parola “pensiero” richiede (heißt) per essere pensata si determina sulla base di un Geheiß diverso»17. La domanda “Che cosa significa la parola ‘pensiero’?” conduce a chiedere: “Che cosa s’intende fin dall’antichità per ‘pensiero’?”18.

Che cosa si debba intendere con la parola “pensiero” lo insegna “la logica”, la dottrina tradizionale del pensiero. Stabilendo forme e regole del comportamento pensante, la logica determina quel che deve essere il pensiero: il pensiero per essere corretto deve conformarsi alla logica, soltanto quando è logico, il pensiero è corretto. Diversamente: «Là dove il pensiero incontra qualcosa che non è più logicamente afferrabile, nell’orizzonte della logica succede che questo qualcosa di “logicamente” inafferrabile continui a restare entro quest’orizzonte, a restarci come alogico, come non più logico o come metalogico, sopralogico»19.

Il termine “logica” deriva dal greco ”pist‘mh logik‘, il sapere che riguarda il lógoV. La parola lógoV è il sostantivo del verbo légein. La logica, in quanto dottrina del corretto pensare, intende il légein nel senso di légein ti katá tinoV, “dire qualcosa di (su) qualcosa”, un dire che non significa soltanto esprimere qualcosa con le parole, ma che equivale a “esporre”, “stabilire”, “asserire”: «La logica […] considera il pensare come un asserire qualcosa su qualcosa. Il tratto fondamentale del pensiero è secondo la logica questo parlare»20. In seguito, nel corso del pensiero occidentale, «lógoV è “tradotto”, cioè sempre interpretato – scrive Heidegger in Essere e tempo – come ragione, giudizio, concetto, definizione, fondamento, relazione»21.

La domanda “Che cosa intende la dottrina tradizionale del pensiero per ‘pensiero’?” si presenta quindi di primo acchito come se fosse la richiesta d’informazioni storiografiche intorno alla concezione dell’essenza del pensiero che dall’antichità fino ad oggi ha avuto il sopravvento. Ma se questa domanda viene posta a partire dal senso della domanda “Che cosa ci chiama al pensiero?”, che è quella cui spetta il primato e che dà la misura, essa chiede di “Quello” (das Es) che destina l’essenza dell’uomo verso il pensiero asserente, ponendo di fatto alcune questioni. Perché accade che per il pensiero occidentale l’impronta essenziale del pensiero si determina a partire dal lógoV inteso come enunciato? È mai possibile che non ci fu un tempo in cui non era così? Agli albori del pensiero occidentale, prima ancora del pensiero adeguato al lógoV asserente, quale Geheiß ha spinto questo pensiero verso il suo principio, il suo cominciamento? Se i primi pensatori percepirono il Geheiß corrispondendo a esso con il pensiero, a cosa si era adeguato il pensiero aurorale greco? Perché non accade che il pensiero si determini essenzialmente a partire dal significato originario delle parole Gedanc, memoria e ringraziamento?22. Il problema del Geheiß sotto cui si pone l’intero pensiero dell’Occidente rinvia innanzitutto alla domanda che chiede del primitivo Geheiß, la cui risposta deve essere cercata nell’ascolto della “freschezza originaria” delle prime parole greche23.

Il “ritorno” ai Greci, per Heidegger, non significa ritornare all’esordio greco del pensiero, a qualcosa di primitivo, di affidato al passato. “Greco” non vuol dire un carattere etnico nazionale, culturale, antropologico: «“Greco” significa il mattino, l’inizio del destino»24. Il “ritorno” alla prima esperienza filosofica greca è un pensare il pensiero greco più “grecamente” dei greci25. Il modo di procedere, chiamato dal filosofo tedesco con l’espressione plurivoca Schritt zurück, “passo indietro”, qui è un retrocedere fino al significato più originario delle loro parole fondamentali, per lasciare emergere la verità ancora impensata da pensare, quell’impensato rimasto in serbo in esse e che resta sempre in attesa di avvenire, nel quale si nascondono l’enigma dell’origine e il destino dell’uomo. L’ascolto di ciò che le prime “parole” greche dicono non ha quindi nulla a che vedere con l’occuparsi di “termini”, con questioni filologiche, con la pretesa di fornire solo il loro significato. La prima parte di questo studio ripercorre il cammino di pensiero heideggeriano in questo senso. I sentieri percorsi conducono verso l’essenza originaria del pensiero, che, come si vedrà, non è estranea al dire iniziale della parola Gedanc.

Nel percorrere il cammino della domanda “Che cosa significa pensare?”, i modi considerati di porsi di fronte alla questione conducono a “Quello” (das Es) che chiama l’uomo al pensiero, che vuole di per sé essere pensato nella sua essenza per il tramite del pensiero, che in sé e a partire da sé è ciò che da sempre e per sua natura dà da pensare. Di qualcosa che dà da pensare, generalmente si dice che è qualcosa di preoccupante, e perciò da considerare. Di ciò che preoccupa prima di ogni cosa, si dice che è il più preoccupante, e quindi il più considerevole, il veramente degno d’esser pensato. Per il filosofo tedesco, nel tempo odierno il più considerevole si mostra nel fatto che l’uomo ancora non pensa: «Il più considerevole è che noi ancora non pensiamo; continuiamo ancora a non pensare, benché la situazione del mondo diventi sempre più preoccupante»26.

Il tono di questa affermazione, anche se potrebbe sembrare il contrario, non indica qualcosa di negativo e tanto meno una presa di posizione di carattere valutativo: «L’affermazione dice che il più considerevole è il fatto che ancora non pensiamo. Essa non dice né che non pensiamo più, né dice risolutamente che non pensiamo affatto. Il “non-ancora”, detto a ragion veduta, spiega come noi, partiti probabilmente da lontano, siamo già in cammino verso il pensiero, […] nel pensiero, sulla via del pensiero»27.

Anche il riferimento esplicito al mondo odierno non allude per nulla a qualcosa di pessimistico: «La nostra affermazione definisce preoccupante l’epoca odierna. Con questa parola intendiamo, esclusa ogni risonanza negativa, ciò che ci dà da pensare, ossia ciò che vorrebbe essere preso in considerazione. Il considerevole così inteso non è in nessun caso qualcosa che provoca apprensione o addirittura turbamento. Infatti anche qualcosa di piacevole, di bello, di misterioso, di benevolo ci dà da pensare»28.

L’asserzione “l’uomo ancora non pensa” significa che l’uomo non è ancora propriamente in grado di pensare, perché “Quello” (das Es) che lo chiama al pensiero lo chiama sottraendosi: «Che noi ancora non pensiamo in nessun modo è dovuto soltanto al fatto che l’uomo non si dedichi ancora in misura sufficiente a ciò che per natura richiederebbe di essere preso in considerazione, perché esso resta nella sua essenza ciò che va pensato. Che noi ancora non pensiamo deriva piuttosto dal fatto che quello stesso che va pensato si distoglie dall’uomo, già da lungo tempo si è distolto»29. “Quello” (das Es) che dà da pensare da sempre “si dà” (Es gibt) come sottrazione di sé. Il suo ritrarsi implica la sua dimenticanza, e perciò il venir meno del pensiero. È la storia del pensiero occidentale, dove l’impronta essenziale del pensiero si determina a partire dal lógoV asserente. È il cammino della domanda “Che cosa s’intende fin dall’antichità per ‘pensiero’?”. La seconda parte di questo studio ripercorre il cammino di pensiero heideggeriano in questo senso. Il “passo indietro” qui s’incammina «verso l’essenza della metafisica partendo dalla metafisica»30.

Le affermazioni di Heidegger sul più considerevole hanno messo in luce che esso si mostra nel fatto che l’uomo ancora non pensa, che “Quello” (das Es) che dà da pensare si sottrae, rifiuta la sua venuta. Ma considerato a fondo, il “volgersi via” di “Quello” (das Es) che dà da pensare, diventa già di per sé un suo “rivolgersi” a sé. Si tratta della possibilità di una “svolta”, vale a dire, la svolta della sua dimenticanza nel far avvenire la sua salvaguardia. Si tratta del passaggio dal primo inizio, la metafisica, all’altro inizio, la “filosofia”; del salto dal non pensare del pensiero asserente all’altro pensiero, il pensiero che pensa il più considerevole, il veramente degno d’esser pensato. “Quello” (das Es) che si sottrae, secondo Heidegger, non può essere un semplice niente: «Ciò che si sottrae può concernere l’uomo in modo più essenziale e pretendere da lui un interesse più profondo di quanto non faccia qualunque cosa presente che gli accada e lo tocchi»31. Non solo: «L’evento del sottrarsi potrebbe essere la cosa più presente tra tutto ciò che ora è presente e superare così infinitamente l’attualità di ogni cosa attuale»32. Il “passo indietro” qui s’incammina verso il ritrarsi di “Quello” (das Es) che da sempre dà da pensare. Questo risalire conduce verso l’origine stessa. La terza parte di questo studio ripercorre il cammino di pensiero heideggeriano in questo senso. È il cammino della domanda “Che cosa ci chiama al pensiero?”.

Dei quattro modi di porsi di fronte alla domanda “Che cosa significa pensare?”, il terzo modo suona: “Quali sono i requisiti per pensare in modo davvero essenziale?”. Per il filosofo tedesco, rispondere a questa domanda è la cosa più difficile: «Giacché qui la risposta meno che mai può essere fornita adducendo dei fatti e formulando dei principi. Se volessimo enumerare i vari requisiti di cui abbiamo bisogno per pensare in modo davvero essenziale, la questione decisiva resterebbe pur sempre indecisa, e cioè, se ciò che appartiene al pensiero è divenuto parte di noi, avendogli già noi dato ascolto»33. Pertanto, «la maniera in cui il terzo modo della domanda trova la sua risposta getta luce sulla risposta delle altre tre domande, perché esse sono con la terza e a partire dalla quarta un’unica domanda»34, la domanda: Was heißt Denken?, “Che cosa significa pensare?”.

 1 Cfr. Che cosa significa pensare?, cit., pp. 145-146.

2 Ivi, p. 149.

3 Ivi, p. 150.

4 Ivi, p. 153.

5 Ivi, p. 252.

6 Ivi, pp. 153-154.

7 Ivi, p. 161.

8 Ivi, p. 162.

9 Ivi, p. 163.

10 Ivi, p. 258.

11 Ivi, p. 39.

12 Ivi, p. 164.

13 Ivi, p. 37.

14 Ivi, pp. 166-167.

15 Ivi, p. 165.

16 Ivi, p. 252.

17 Ivi, p. 173.

18 Cfr. ibidem.

19 Ivi, pp. 176-177.

20 Ivi, p. 175.

21 Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1990, § 7, p. 52.

22 Cfr. Che cosa significa pensare?, cit., pp. 178-179, 182.

23 Cfr. ivi, p. 188.

24 Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 313.

25 Cfr. Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, in In cammino verso il Linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1990, pp. 112-113.

26 Che cosa significa pensare?, cit., p. 38.

27 Ivi, p. 53.

28 Ibidem.

29 Ivi, p. 40.

30 La costituzione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza, tr. it. di U. Ugazio, “aut aut”, nn. 187-188, 1982, p. 23.

31 Che cosa significa pensare?, cit., p. 42.

32 Ibidem.

33 Ivi, p. 263.

34 Ibidem.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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