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Nel presente saggio si analizza il linguaggio nel suo depotenziamento creativo, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. Il linguaggio abita presso la comunità, è la comunità vivente e trasformatrice. La prassi linguistica ne dona il senso, ne individua le contraddizioni per superarle dialetticamente. Il suo fondamento muove da energie plastiche che si orientano verso la razionalizzazione del tutto come nel mito della nascita della filosofia in Platone: la filosofia è figlia della povertà (penìa), in quanto mancanza e incompletezza, e ricchezza (pòros), da intendersi come ricchezza di esperienza dialettica, movimento verso il sapere. Per cui veicola il processo di senso dal frammento al tutto, in una processualità trasformativa che configura la società aperta. La dialettica implica il logos, l’interazione tra le parti per trascendere i limiti del presente con le sue contraddizioni sanabili mediante la pratica comunitaria della parola. L’epoca attuale offre ricchezza materiale per alcuni e povertà linguistica per molti. Quest’ultima si connota in senso polisemico: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nella forma del mercato, del liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. I giochi si ribaltano, il linguaggio non fonda pratiche politiche che contengono la crematistica, ma è colonizzato dal capitale assoluto. La parola è come qualsiasi risorsa, accumulata e pronta all’uso: “la valorizzazione della parola”. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. La storia ha segnato la sua fine, ha eretto le sue colonne d’Ercole, oltre vi è solo il folle volo. Si potrebbe parlare di terrorismo linguistico, di inibizione al pensare oltre; subentra il “debito”, che si espia con la solitudine, se la scelta non è socialmente giustificata da statistiche e dall’orientamento mediatico finanziario. I significati delle parole indicanti un orizzonte di riflessione sono ridimensionati, svuotati del loro valore, per indicare ciò che non dicono, in modo che non vi siano più parole per risignificare il presente. Nel disporsi orizzontale di ogni parola sull’economico liberista non vi è linguaggio per ridefinire il presente. L’angloitaliano con l’uso pervasivo e sostitutivo della lingua nazionale erode il parlare/pensare linguistico, allontana dalla comunità politica per il suo linguaggio criptico. Segna il trionfo di un potere incomprensibile e fatale, mentre si espone e vive nella concretezza dei giorni. Novello Crono, il capitale, divora con i figli le parole.
L’analisi svolta vuole riaffermare la problematicità del linguaggio ed il suo essere limitrofo al potere, sostanza del potere e della colonizzazione delle comunità per renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda ed ha il suo centro nella competizione, la quale diviene il parametro riorganizzativo delle istituzioni. Deve rispondere all’efficienza contabile e le stesse esistenze sono valorizzate nella sola capacità produttiva. Le risorse umane, il materiale umano sono solo due esempi di un linguaggio comune verso il quale, in molti casi, si è assunto un atteggiamento acritico e feticistico: feticismo del linguaggio economico e delle merci. La parola è simbolo, significante che unisce ed aggrega, flusso rielaborativo collettivo intorno alla quale ci si ritrova, non a caso la parola simbolo dal greco σύμβολον era la tessera di riconoscimento, il coccio diviso in due che consentiva simbolicamente alla comunità ristretta o allargata di ritrovarsi.
L’attualità ci prescrive di perderci nella neolingua globalizzata dei soli fatti. La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, le quali si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato, della compravendita. Si assiste all’affermarsi di un nuovo nichilismo di massa che vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Massimo Bontempelli così lo definisce: «La realtà contiene dunque in se stessa la possibilità del nichilismo, che è l’orizzonte di manifestazione di un suo livello preso separatamente dalla sua articolazione dialettica complessiva. Si può così individuare il principio trascendentale del nichilismo: esso è il riduzionismo».1
Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica e riflessa arretra per lasciare spazio alla naturalizzazione del presente.
1 Massimo Bontempelli, Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, 2000, p. 196.
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