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Prologo
Nato a New York il 26 Luglio 1928, Stanley Kubrick si può considerare uno dei grandissimi del mondo cinematografico. Appassionato di musica e di scacchi, Kubrick entra in contatto con il mondo della fotografia, riuscendo a far pubblicare una foto per la rivista fotografica Look nel 1945: verrà assunto come fotoreporter della rivista l’anno dopo. Kubrick, che sin da ragazzo si era avvicinato al cinema, realizza un cortometraggio dal nome Day of the Fight (1951), il primo esperimento di Kubrick come regista, riguardante la giornata più importante nella carriera del pugile Walter Cartier, seguito subito dopo da Flying Padre (1951), cortometraggio riguardante un prete del New Mexico che su un piccolo aereo sorvola l’area della sua parrocchia. Decide poi di lasciare l’attività di fotografo per dedicarsi completamente alla carriera cinematografica: Fear and Desire esce nel 1953, suo primo lungometraggio; sempre nel 1953 esce il cortometraggio The Seafarers, documentario sui sindacati portuali negli Stati Uniti. Stanley Kubrick avvia così una carriera formidabile, che lo porta a riflettere su grandi temi facendo uso di una meticolosità e di un perfezionismo più unici che rari.
Ossessionato dal controllo di tutto, ovvero della realizzazione dei suoi films, Kubrick ha analizzato, attraverso l’utilizzo di differenti generi, in maniera originale ed avvincente, le grandi tematiche al centro dell’uomo: questi non ha una natura propriamente o soltanto buona, ma piuttosto si potrebbe definire anche captiva (in latino vuol dire “prigioniera”), legata cioè a una sorta di prigionia, che può essere collegata sia alla più “letterale” contingenza sia alla “dipendenza” dalle passioni, in cui l’uomo non può prescindere dalla sua parte irrazionale. In questo Nietzsche ha avuto grandissima influenza sul regista, forse non tanto per la famosa teoria del Superuomo (od Oltreuomo…), quanto per l’analisi viscerale dell’individuo e quindi della società che lo circonda; in Kubrick è importante come la società influenzi, molto spesso in maniera negativa, l’etica e l’azione dell’uomo. In questo senso l’uomo di Kubrick è sintesi di apollineo e dionisiaco, rimembrando Nietzsche…
Tra le influenze del regista dobbiamo elencare anche Carl Gustav Jung, ricordato in Full Metal Jacket riguardo alla dualità dell’uomo, “sintesi” di guerra e pace, elemento presente in fondo in tutti i films del regista.. Nei suoi grandi films ci lascia “impallidire” di fronte alla “violenza” delle immagini e ancor di più a quella del pensiero: Arancia Meccanica e Shining sono due altissimi esempi di questa violenza (o ultra-violenza per citare Alex in Arancia Meccanica) e rappresentazioni formidabili della fragilità umana e del suo ripercuotersi sulla società e sugli individui che la compongono (potremmo elencare, seguendo la dialettica hegeliana, famiglia, società civile e Stato…). Kubrick è un autore anticonvenzionale: si potrebbe riassumere la summa delle sue opere nella parola “denuncia”. Infatti il regista ha fatto della denuncia il suo cavallo di battaglia: una denuncia che sembra scavalcare qualsiasi tipo di ideologia, senza rinunciare di fatto ai più alti ideali, per addentrarsi, tuffarsi letteralmente nel più profondo dell’animo umano.
Sin da Fear and Desire si azzarda a denunciare le bestialità dell’uomo. La più clamorosa delle bestialità umane è la guerra: se in Fear and Desire è una guerra immaginaria, una guerra della mente, in Orizzonti di Gloria la guerra assume connotati ancora più bestiali e assurdi (basta pensare alla fine dei soldati francesi uccisi dai loro compatrioti per ordine dei superiori), tanto che è la denuncia ad incalzare e ad assumere toni critici, denuncia della violenza e dell’assurdo che viene ripresa in Full Metal Jacket, film sulla guerra in Vietnam, che fece sorgere tante accuse e perplessità sull’intervento in Asia da parte degli Americani.
E così l’intrigo presente nei films Il Bacio dell’Assassino, Rapina a Mano Armata e Lolita ritorna nell’ultimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, opera, per certi versi, incompiuta del regista, dove però si accarezzano le note del giallo, scandite da immagini di alto profilo e scene che fanno scaturire riflessioni di ogni genere: l’entrare, più o meno per errore, nel mondo della corruzione, della violenza, dell’artificiale e dell’artificiosa macchina del potere, piccolo e grande. Ecco, il potere è altra tematica cara a Kubrick: Arancia Meccanica ritorna ancora come esempio di denuncia del potere, analizzando gli aspetti più nascosti di questa macchina, laddove potere è violenza, fisica ma soprattutto intellettuale e morale; potere è combattere contro chissà quale nemico per chissà quale scopo (vedi Full Metal Jacket su tutti).
L’uomo di Kubrick però non è soltanto visto nella sua veste “negativa”, cioè sotto l’aspetto più propriamente pulsionale e “passionale”: il regista ama sognare, come sogna l’eroe trace del film Spartacus, in cui la libertà non è solo affrancamento dalle catene, ma vitalità, amore per la vita, nonostante i grandi mali che essa porta, e speranza nel futuro, quel futuro che ha fatto sognare Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio. Il nuovo millennio doveva essersi già aperto con l’avanzamento tecnologico dell’uomo, anche esso però soggetto all’errore del medesimo (ricordiamo l’incredibile scena di HAL contro Keir Dullea), e invece è rimasto indietro: il lancio dell’osso che diventa una nave spaziale è la tensione dell’uomo verso il futuro, il progresso, tentativo di migliorare le sorti dell’essere umano. Eppure, come in una ciclicità di stampo greco antico, la vita ritorna, come in Nietzsche: l’eterno ritorno porta l’uomo all’errore, allo sbagliare, ma anche a riflettere su di esso. Su tutti Il Dottor Stranamore alimenta la riflessione sull’errore umano: la tecnologia può aiutare l’uomo (vedi per certi versi 2001: Odissea nello Spazio), ma se non usata secondo valutazioni sensate e se lasciata a dei mentecatti che possono distruggere il mondo, questa può portare dolore, annientare la vita e la vitalità umana. Così in Full Metal Jacket, titolo tratto da un tipo di pallottola blindata, l’arma diventa per l’uomo una donna da amare e venerare, la tecnologia è superiore all’uomo, più bella, più affascinante, eppure più pericolosa.
La caduta dell’uomo: ecco il Kubrick più “aggressivo”, quello che osa denunciare, osa sapere (dovremmo ricordare qui il «Sapere aude» kantiano…) della vita di ogni individuo. Barry Lyndon è un affresco della vita, un ritratto dell’ascesa e soprattutto della caduta dell’individuo, un ritorno al punto di partenza, così come in 2001: Odissea nello Spazio e in Arancia Meccanica: laddove in 2001: Odissea nello Spazio si ritorna alla nascita dopo la morte, così in Arancia Meccanica si ritorna alla natura contro l’egemonia del potere dello Stato (stato di natura contro Stato istituzionalizzato). E, ancora, il confronto con il trascendente in 2001: Odissea nello Spazio... Si potrebbe andare ancora avanti a riflettere sulle tematiche care a Kubrick e su quelle ulteriori che riesce a far scaturire.
Morto il 7 Marzo 1999, stroncato da un infarto a St. Albans in Gran Bretagna, dove si trasferì sin dagli anni ‘60, transfuga nella vecchia Europa un po’ come il grande regista americano Orson Welles, ha lasciato tanti progetti importanti, su tutti Napoleon, film sull’imperatore francese, e A.I.: Artificial Intelligence, girato poi dal regista amico Steven Spielberg.
L’ecclettismo di Kubrick non era banale proposizione di generi differenti, ma grandissima abilità nel leggere il mondo seguendo diverse strade: guerra, thriller, storico, satira, fantascienza, horror… Il film per lui era una forma di meditazione, come meditata era la sua realizzazione: infatti avanzando negli anni il regista Kubrick aveva sempre più bisogno di tempo per realizzare un film come voleva lui. Stanley Kubrick è stato un grandissimo maestro del cinema: è bene lasciar parlare i suoi films, perle uniche nel patrimonio dell’arte universale.
Marco Penzo
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