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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 284

Massimo Bontempelli

Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140x210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81].

In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.

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15,00

Prefazione

La ricerca della verità, anche storica, non procede mai sui binari del potere, religioso o civile, e neppure dell’accademia ad essi legata. È cosa, questa, ben nota, per cui non meraviglia che un insegnante di liceo del nostro tempo, ingiustamente rimasto ai margini della ribalta culturale, offra un significativo contributo a quella ricerca cui, quasi tre secoli fa, dette inizio un altro insegnante liceale: l’amburghese Hermann Samuel Reimarus.

Il libro di Bontempelli si situa infatti legittimamente in quella linea di indagine scientifica sulla “vita di Gesù”, iniziata appunto con Reimarus, di cui Albert Schweitzer scrisse la storia ai primi del ‘900 – indagine che ha avuto nel corso del ventesimo secolo ulteriori importanti sviluppi e che non è affatto terminata.

Identica è, infatti, l’impostazione critica e la metodologia: esaminare le fonti con la maggiore imparzialità possibile, esercitando la ragione senza tesi preconcette. Il libro dichiara esplicitamente fin dall’inizio questo programma e ad esso si attiene scrupolosamente, restando così equidistante tanto dalla letteratura devozionale quanto dal positivismo più rozzo. Che poi ciascuno veda quel che sa e può vedere, è ovvio, e vale anche per Bontempelli (nonché per chi scrive queste righe!), come diremo più avanti.

Si tratta, dunque, di cercare di conoscere la vita di Gesù leggendone le fonti, in primo luogo perciò i Vangeli, con lo stesso spirito critico con cui si leggono ad esempio Erodoto o Plutarco, e comunque tutte quelle fonti antiche dalle quali ricaviamo una ricostruzione sensata e credibile per la vita di Ciro, di Alessandro Magno o di chi altro, anche quando al materiale propriamente storico si è aggiunto quello leggendario.

Bontempelli esclude perciò dalla sua ricostruzione della vita di Gesù l’elemento miracolistico, tipico di quella che gli studiosi tedeschi contem­poranei chiamano Wunderliteratur, ma, nello stesso tempo, ritiene che i Vangeli non contengano affatto mistificazioni e che tutto ciò che narrano abbia perciò una spiegazione razionalmente accettabile.

Questa metodologia viene impiegata innanzitutto per la questione della resurrezione, che il libro affronta in primo luogo, in quanto considerato elemento essenziale della storia di Gesù e della intera fede cristiana.

Che vi sia stata fin da principio una credenza nella presenza di Gesù dopo la sua morte è indubitabile, per cui, escludendo l’evento meccanico, miracolistico, occorre capire come questa credenza sia nata. Sulla base di un’analisi accurata dei testi, letti nell’originale greco e non in traduzioni più o meno accomodatizie, Bontempelli sostiene che alla base di tale credenza vi sia il riconoscimento, per così dire, della presenza del Maestro nella persona e nella figura di altri, a partire da quel giardiniere che Maria Maddalena vede nel cruciale capitolo ventesimo del Vangelo di Giovanni, ove si narra la prima presenza di Gesù dopo la morte. Fu nel modo di atteggiarsi di uomini vivi che, Maria prima e poi anche gli altri discepoli, fecero esperienza dello spirito dell’amato Maestro, e si convinsero così che Gesù fosse ancora presente. Non allucinazioni, dunque, né mistificazioni, alla base di quella che poi si svilupperà come quella credenza nella “resurrezione”, senza la quale, come scrive Paolo, “vana è la nostra fede”.

Il tipo di soluzione data a questa davvero cruciale questione è utilizzato anche per altre questioni della storia di Gesù, quasi altrettanto spinose. Ci riferiamo in particolare ad un’altra “resurrezione”, quella di Lazzaro. Qui l’Autore – che recepisce la tesi che Maria Maddalena sia stata la donna di Gesù, per cui , una volta identificata con Maria sorella di Marta, Lazzaro sarebbe stato cognato di Gesù stesso – sostiene che si sarebbe trattato di un accordo con la famiglia di Betania per sottoporre Lazzaro ad un rito iniziatico di simbolica resurrezione dalla morte. Ciò al fine di accreditare quella immagine di Gesù quale Cristo sofferente a Gerusalemme, come egli stesso si sarebbe presentato nell’ultima parte della sua vita. In quanto promotore di un rito iniziatico di simbolica resurrezione, si sarebbe così proposto come maestro di verità inviato da Dio, mandando quindi un preciso segnale messianico.

Tesi portante del libro di Bontempelli è infatti quella per cui la predicazione di Gesù sarebbe stata inizialmente, sulla scorta di quella di Giovanni Battista, l’annuncio dell’imminenza del regno di Dio, ossia della liberazione di Israele dalla servitù e soprattutto della instaurazione di una giustizia terrena. Una volta constatata però l’insussistenza di un sostegno popolare a questo progetto, Gesù si sarebbe risolto a incarnare la figura del Servo Sofferente di Isaia e a porsi consapevolmente come vittima, agnello da immolarsi per la Pasqua, nella speranza che Dio mantenesse le sue promesse e lo salvasse sul ciglio della morte.

È per la realizzazione di questo progetto che, sempre secondo l’Autore, sarebbe stato organizzato anche l’ingresso in Gerusalemme a dorso di un asino, per mostrare adempiuta la profezia di Zaccaria, come pure l’incarico dato a Giuda di consegnarlo alle autorità (non il “tradimento” di Giuda), nonché tutto il comportamento tenuto al processo.

«Gesù fu, insomma, il nascosto ed intelligentissimo regista della sua passione, con l’obiettivo, nel suo contesto storico abbastanza realistico, di essere finalmente riconosciuto Messia, e di promuovere per questa via la realizzazione di una nuova società, chiamata regno di Dio» – conclude perciò Bontempelli (p. 124).

Lo spazio di poche pagine non permette di riassumere neppure som­mariamente la trattazione di questo libro, tanto filologicamente fondata quanto emotivamente coinvolgente, senza, peraltro, che ciò significhi ne­cessariamente sempre convincente. In particolare, chi scrive queste righe, che ha avuto modo di curare anche un’edizione del Vangelo di Giovanni, è d’accordo nel privilegio che l’Autore gli accorda per la ricostruzione storica dell’ultimo anno – o comunque dell’ultima parte – della vita di Gesù, ma ritiene che il suo libro ecceda, per così dire, proprio su questo versante, dimenticando invece quanto non di storico ma di simbolico il quarto Vangelo propone.

Sotto questo profilo, è razionalmente molto più credibile che Giovanni (o, comunque, l’autore o uno degli autori del Vangelo che va sotto il suo nome), sia pure in un quadro di sostanziale veridicità storica, abbia inserito dei racconti “esemplari” di quello che era ormai vissuto come insegnamento di Gesù, quasi un secolo dopo le vicende narrate. Si pensi non solo all’episodio di Lazzaro, ma anche a quelli, non miracolistici ma altrettanto significativi, della samaritana e della adultera, tutti non riportati dai sinottici. Non ci sembra perciò giusto salvare a ogni costo la storicità degli eventi narrati, magari supponendone una orchestrazione occulta da parte del protagonista.

A questo punto, infatti, si verifica come ciascuno sia sempre e comunque all’interno del suo universo di pensiero e che la Vorverständnis, come dicono i tedeschi, la pre-comprensione, orienti anche la lettura di un testo. Della predicazione di Gesù desunta dai Vangeli Bontempelli ritiene essenziale l’annuncio del regno come condizione di giustizia sociale ed economica, una condizione peraltro fondata sull’amore, e conclude affermando che, se da una parte il Gesù “Uomo nella Storia” è andato incontro a un fallimento, il Gesù “Dio nel Pensiero” (come recita significativamente il titolo del libro) è in certo senso un vincitore, giacché è la «figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore», e, insieme all’amore, della libertà morale.

Possiamo rilevare che in questa lettura dei Vangeli non viene preso in giusta considerazione un altro grande loro motivo conduttore, ovvero il messaggio che potremmo dire dell’interiorità, che esige la «rinuncia a se stesso», l’«odio per la propria anima», in modo che si abbia una radicale trasformazione dell’uomo, una vera e propria «rinascita», dopo la quale il regno di Dio è qui ed ora, «dentro di voi». Questo messaggio non è centrale soltanto nel Vangelo di Giovanni, ma è ben presente anche nei sinottici e non v’è motivo di pensare che fosse assente dalla predicazione di Gesù: possiamo, anzi, razionalmente sostenere che ne fosse elemento essenziale.

Come hanno ben visto insigni studiosi (basti citare Coomaraswamy), questo punto accomuna i Vangeli alle grandi tradizioni spirituali dell’Oriente, induismo e buddhismo, ugualmente fondate sulla neces­sità dell’estinzione dell’egoità particolare per la scoperta della autentica essenza umana: l’universale dello spirito.

Se partiamo da questa comprensione, che esige peraltro la condivi­sione intima della esperienza di conversione e di rinascita, appare in una luce tutta nuova anche l’evento da cui Bontempelli prende le mosse nel suo libro, considerandolo elemento discriminante: quello, appunto, della “resurrezione”.

La resurrezione dei/dai morti era un’antichissima fantasia apocalittica giudaica, che non aveva altro senso se non quello di riproporre, in forma compiuta e perenne, la vita fisica, della quale l’esercizio della sessualità è manifestazione essenziale. Non a caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: evidentemente la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.

La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti (Lc 20, 24 s.). È chiaro che l’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è qui spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è infatti la morte dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, esperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel Vangelo di Giovanni.

Appare strano che un filosofo come Bontempelli, che conosceva Hegel, non lo rilevi. Forse gli fece velo il fraintendimento marxiano del grande filosofo cristiano tedesco. Infatti Hegel comprese bene che la vita dello spirito non è «quella che inorridisce davanti alla morte, temendo la distruzione, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene»; è proprio nella «assoluta lacerazione» che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell’essere». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si è spirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive perciò il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito, la vicenda particolare della Passione di Cristo.

Passione, morte e resurrezione hanno perciò evangelicamente un significato non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita che segue alla morte dell’egoità psichica e pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice infatti Gesù ai giudei, esprimendo l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui ed ora nell’essere, nell’eterno. Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende infatti a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa così la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano perciò anche le Upanishad.

È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui la “resurrezione” di Gesù serviva come prova e pegno della resurrezione finale. Ma si tratta di rinascita, più che di resurrezione: di un evento spirituale, non di uno spettacolo dimostrativo. Gesù appare dopo la morte solo ai suoi “amici” e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo Vangelo è in questo senso determinante: a Tommaso, l’incredulo, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che davvero beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno esperimentato interiormente la resurrezione, ovvero in loro soltanto v’è stata la rinascita nello spirito.

Si comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di Gesù come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e , insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti. Questo è il prodotto di Paolo, quel «funesto cervellaccio», come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e costruì così un dys-anghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica che gli era familiare. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17), mostrando chiaramente come l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.

In parallelo, la affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo. E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel Vangelo infatti la ricerca del miracolo è sem­pre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo una antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.

Accettare il paradigma paolino per cui, senza la resurrezione, Gesù perde il suo ruolo “divino” e mantiene eventualmente solo quello di maestro, profeta, o simili, è fuorviante anche nel caso che la resurrezione venga negata.

Anche in questo caso, infatti, si fa dipendere la fede da un evento esteriore, e così la fede scade al rango di credenza e perde quello, suo proprio ed essenziale, di conoscenza dello spirito nello spirito, e perciò stesso per niente affatto credenza, bensì il suo contrario: toglimento di ogni credenza e di ogni preteso sapere, come testimonia una concorde tradizione, da Eckhart a san Giovanni della Croce allo stesso Hegel.

Ridurre l’insegnamento di Gesù all’ambito etico, sociale, politico, sia pure per avvalorarlo, è – per dirla nei termini tradizionali – una impostura dell’Anticristo. Infatti esso, correttamente inteso secondo le Lettere di Giovanni che ne hanno creato il concetto, non è altri che colui che, all’interno della Chiesa, nega la divinità del Cristo. Non a caso intelligenti interpreti della figura dell’Anticristo, quali Soloviev e Benson, hanno mostrato come esso nella contemporaneità si rivesta dei panni del filantropo, del benefattore, di colui che promette e magari anche attua la “giustizia sociale”, il regno di Dio sulla terra. Un grande seduttore, dunque, che imiterà esteriormente, come una scimmia, il Cristo, ma in realtà lo negherà nel modo più radicale, occultandone il vero insegnamento, quello appunto della morte dell’egoità e della rinascita spirituale.

Queste osservazioni critiche, peraltro solo accennate, non intendono affatto sminuire il valore del libro di Bontempelli, ma – al contrario – mostrare quali problemi cruciali possa sollevare e quali prospettive amplissime dischiudere un’indagine seria come la sua.

Marco Vannini

Settembre 2017



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