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“Ben oui si on filme pas c’est pas du cinéma.”
“Des conneries! Le cinéma c’est bien avant qu’on filme.
Là cette bouteille elle a pas besoin d’être filmée
pour être du cinéma” .
François Bégaudeau, La blessure la vraie, 14 (2011)
I.
Il mio titolo, Fisica e metafisica del cinema, intende in qualche modo evocare l’epocale Film: ritorno alla realtà fisica (Theory of Film: The Redempion of Physical Reality, 1960) di Siegfried Kracauer (1899-1966). Dove “Film”, per l’adorniano e “francofortese”, in ambedue i sensi, Kracauer, vale, lessicalmente, pellicola. Il suo saggio muove dall’antitesi tra “cinema fotografico” e “cinema cinematografico”. Privilegiando naturalmente il primo, concepito come uno sviluppo della fotografia e dell’istantanea si sa che l’artista-cerniera tra fotografia e cinema è stato Eadweard Muybridge, con la sua fotografia “animata”, e in particolare il suo The Horse in Motion, realizzato con 24 fotocamere in parallelo da Seth Shipman della Harvard Medical School: a suo modo, il primo film della storia. E riconoscendovi la coincidenza ideale tra la vocazione all’immaginario e la sua realizzazione tramite lo specifico filmico. Da qui, la realtà fisica come primo materiale, attuale, veridico, “veramente esistente”.
Al punto che, pure in un trattatello uscito postumo come Prima delle cose ultime (History: The Last Things Before the Last), Kracauer, assimilando la lezione del cinema alla lezione della storia, e rinviando ancora il cinema alla sua matrice fotografica, di film quale riproduzione del reale, dell’esistente in senso fisico, perde l’ultima occasione per allargare lo sguardo dall’esistente all’inesistente, a quel virtuale che il cinema può includere se solo fosse inteso come figura dell’altro, di un invisibile da disseppellire sotto lo strato visibile della storia comune. Se no, ci si chiede, che valenza avrebbe in concreto, un’autentica plusvalenza , quello che succede lassù, sullo schermo, con la materializzazione dell’immagine in movimento, delle figure, delle scenografie, delle coreografie, delle musiche, del muto prima e del parlato poi?
Per Kracauer, abile sperimentatore, sulle orme del maestro Adorno, di categorie socio-psicologiche o psicografiche l’altrettanto epocale Da Caligari a Hitler ha per sottotitolo Una storia psicologica del cinema tedesco, e riconduce, seguendo la scolastica, l’idea di figura all’idea di prefigurazione; così come il meno epocale Le piccole commesse vanno al cinema mantiene comunque, a sua volta, quanto promette il titolo del minuscolo saggio il tutto va lasciato alla discrezione dello spettatore. Al quale, da un lato, viene assegnato il compito di recepire sotto ipnosi i contrassegni di quella magia; dall’altro viene parimenti assegnato il compito di smaltirne, a seduta conclusa, l’effetto. Una volta che la sala buia, prima attraversata dal fascio di luce del proiettore, vera lanterna magica in grado di dar vita ai fantasmi coltivati dallo stesso spettatore, avrà assolto la sua funzione medianica e, nuovamente illuminata dalle luci standard, lo avrà sollecitato a “risvegliarsi”.
E pensare che Kracauer non manca di alludere nella sua disamina delle peculiarità del film (lo fa nel cap. IV di Film: ritorno alla realtà fisica, e non potrebbe esimersi dal farlo), al cosiddetto effetto Kulesov il regista sovietico che, con i suoi esperimenti, precedette gli stessi Ejzenstejn e Pudovkin , ossia al postulato del cinema senza pellicola. «Noi facciamo i film, mentre Kulesov ha fatto il cinema», usavano dire, non a caso, i suoi eredi diretti, come se fossero scontenti di sé, inclini com’erano, almeno da principio, alla grammatica dell’inquadratura singola, pregnante ex se. Infatti il cinema senza pellicola (senza film) di Lev Kulesov è stato giusto l’espediente che ha consentito loro di scoprire appieno l’importanza decisiva del montaggio quale elemento dirimente del cinema. Non basta, come evidenzia Kulesov in un esperimento del 1918, assemblare il primo piano di un attore dallo sguardo straniato e i piani raffiguranti qualcosa che potrebbe cadere sotto la sua visuale, per il momento astratta e indeterminata (a scelta: una scodella di zuppa, un cadavere disteso nella bara, una bambina che gioca), per significare che ha fame o che si strugge per la scomparsa di una persona cara o che pensa alla figlioletta sola tra le pareti domestiche: assegnandogli, meccanicamente, ora uno stato d’animo ora un altro. Ci vuole per l’appunto un montaggio d’insieme, certo meccanico ma unificante, se si vuole designare un contesto diegetico, direzionandone un senso al posto di un altro. Sennonché Kracauer, da teorico post-illuminista alla Adorno, si limita al compito che si è assegnato segnalare il fenomeno film, l’effetto pellicola nella sua valenza sperimentale , senza avvertire, in quanto puro storico delle forme, il bisogno di approfondirne le potenzialità progressive nella prospettiva della narrazione a venire, vale a dire non solo del film che diventa cinema ma del cinema che può ridiventare, metafisicamente, film, cioè ancora pellicola, schermo originario, sedimento di valenze e di plusvalenze, pur di rinascere, metamorficamente, come cinema-insieme.
II.
Metamorficamente. Metafisicamente. Solo per dire quanto sia difficile, oggi, con l’avvento della proiezione in digitale solo pochissime salette storiche d’essai cercano di resistere al suo avvento rivoluzionario e ineludibile , seguire Kracauer lungo il suo percorso, fino a non molto tempo fa vantaggioso ma oggi ahimè deficitario. Perché, oggi, il percorso da seguire è semplicemente un altro vale a dire, non si chiedano allo schema Kracauer prospettive, se non soluzioni, che quello schema non più dare. Con la perdita dell’aura, con la riproducibilità tecnica dell’immagine (che profeta, lui sì, Walter Benjamin!) spinta ormai all’estremo, tra effetti speciali, 3D, film restaurati, serie tv, inclusi, com’è ovvio, i film “normali”, i quali però non sono più pellicole, ma dischi digitali dal dvd movie al blue ray, consumabili tra le pareti domestiche la nostra percezione del cinema ha mutato radicalmente segno. Ecco, l’ho detto, del cinema. Titolare Fisica e metafisica del cinema significa tener conto, oggi, dell’intera innovazione tecnologica intervenuta negli ultimi anni; ma tenerne conto continuando comunque a considerare ben viva l’opzione estetica a questo punto, non più di matrice esclusivamente teoretica, socio-storica o socio-psicologica di una realtà fisica potenzialmente metafisica. Una doppia realtà che i nuovi supporti, piattaforme, streaming, maxischermi e quant’altro, contribuiscono piuttosto a magnificare, trasfigurandone il dettato di partenza attraverso la fantasmagoria d’arrivo son et lumière: città, strade, interni ed esterni, paesaggi di varia natura dettato fisico imprescindibile, habitat naturale di partenza, non diversamente dall’indeterminato di Kulesov, ma non di arrivo.
III.
«Il cinema, direi, svolge una funzione che risponde a un bisogno reale, il che spiega in quale misura la sala cinematografica, davanti alla proiezione del film, a 50 metri dallo schermo del nostro desiderio, si espanda illimitatamente, magari senza arrivare per forza a includere i giardini che fronteggiano l’edificio ma certo arrivando a includere il marciapiede accanto, come se noi vi stessimo seduti in mezzo, ad ammirare per esempio la cattedrale di Santo Stefano a Vienna, la stretta viuzza a latere incuneata tra due grossi negozi, al punto da farci provare la sensazione di poterci alzare dalla sedia per metterci a percorrerla con il nostro passo virtuale». Chi pronuncia queste parole premonitrici, in tempi davvero non sospetti, ovvero nel luglio 1929, nell’imminenza della nascita del sonoro, in una sala di Buenos Aires, dove l’oratore è stato invitato dalla scrittrice Victoria Ocampo per presentare alcuni classici del muto? Il tuttora misconosciuto Benjamin Fondane (Jasy, Romania, 1898-Auschwitz, 1944), l’allievo prediletto del filosofo spiritualista, émigré in Francia come lui, Lev Šestov: in nome di una metafisica del ‘cinema puro’ (quello muto, appunto) che sta per essere soppiantata dalla novità del sonoro. Il cui avvento appare ai puristi dell’immagine ‘chimerica’ come Fondane, poeta simbolista e autore finora di tre scenari per altrettanti “cine-poemi”, qualcosa di traumatico, per non dire di allarmante, accompagnato da auspici apparentemente non benevoli. Ebbene. A sonoro ormai più o meno acquisito Fondane, nel 1934, adatta per lo schermo un testo letterario dello svizzero C.-F. Ramuz, Rapt, filmato da un convertito dal muto al sonoro suo pari, lo sperimentale Dimitri Kirsanoff; e nel 1936 si reca in Argentina, sempre su iniziativa di Victoria Ocampo, per girarvi, in una pampa viscerale modellata sul Don Segundo Sombra di Güiraldes, con il grande John Alton operatore e la vedette Dita Parlo protagonista, un’opera propria, Tararira (nome di un pesce d’acqua dolce), mai distribuita per la sua audacia stilistica , ecco la sua opinione: «Nell’attuale cinema di parola, è solo la parola a dover avere un corpo, a essere spaziale più che temporale, è il suo suono a dover essere latore di un linguaggio fisico e metafisico insieme, ancor più rapido e fluido dell’immagine». Chi c’è sottotraccia, in una formulazione del genere, se non Antonin Artaud? Il quale, secondo Fondane, «non cerca altro, nel suo teatro della crudeltà, che la via perduta del cinema» (Fondane, Cinema 33, dall’anno di pubblicazione). E il quale, già interprete prestigioso del muto, viene non a caso rivisitato prima, cinematograficamente, da Bernardo Bertolucci in Partner (1968) con la lettura da parte di Pierre Clémenti di un passo da Il teatro e il suo doppio: «Per quanto poetica, l’immagine cinematografia è limitata dalla pellicola […]», poi, concettualmente, da Gilles Deleuze in quanto precursore di quella nozione filosofica di immagine-movimento (1983) e immagine-tempo (1985) che sarà assunta dal pensatore francese della “logica del senso” quale senso precipuo della sua visione rizomatica di un cinema trasformativo in perenne divenire, di un cinema-universo in costante espansione.
IV.
La lettura di Film: ritorno alla realtà fisica di Kracauer mi ha sempre fatto pensare a un’idea continentale dell’immaginario: il film come un continente abbarbicato alle proprie radici, alle proprie contraddizioni, alla propria geopolitica, alla propria identità, estranea a quella degli altri continenti: un continente interamente risolto in se stesso (non a caso, quando, dopo il 1933, lo studioso si trasferisce negli Stati Uniti e, da teorico, si fa scrittore e romanziere, continua pur sempre a parlare della Germania, delle strade di Berlino, in una parola dell’Europa). Titolando Fisica e metafisica del cinema, penso invece a un’entità geografica molto più vasta, al grande mare che unisce e non divide i continenti, che è poi il grande mare delle storie, e non solo della Storia in sé, il grande mare ecumenico, o epistemico, che fonde e confonde: non in un’indistinzione identitaria, quanto in una comunione delle reciproche diversità e delle reciproche storie. E la proiezione in digitale, magari nelle sale Imax, vi concorre in una maniera peculiare, perché fa trascendere allo spettatore l’angustia dell’habitat in cui si trova (magari solo, in compagnia del computer, di YouTube e di Vimeo, o di Netflix e di Amazon) e lo proietta altrove, dove tutto può essere, e dove, come si usa dire, tutto ebbe inizio, anche il prodigio delle prime vues del muto, alla fine del XIX secolo, e dei primi serial, all’inizio del XX, prima francesi e italiani, poi americani.
V.
Non per nulla, Fisica e metafisica del cinema, con un sottotitolo che allude modernisticamente al titolo di un album, Battle Studies (2009), del cantautore americano John Mayer, già eco di The Battle of the Wilderness di Gordon C. Rhea sulla Guerra di Secessione (1994), esordisce con un saggio, su uno dei suoi massini inventori (Antoine, abbreviazione anagrafica e storica di André Antoine, 1858-1943), individuando lì le origini di quel “veramente esistente”, nello specifico quello degli ultimi giusto a dispetto dei tipici “paramenti” del muto, e non solo nella frequente chiave péplum che lo caratterizza. Per poi proseguire con un’evoluzione-scansione tematica il volume non vuole certo essere una storia del cinema, tanto più che le storie del cinema non esistono più, forse perché non esiste più il cinema, nel senso tradizionale che dicevo. Con un percorso che, facendo inizialmente perno su uno standard del muto, per essere esso il più semplice, il più immediatamente recepibile dallo spettatore comune la guerra: si pensi al prototipo Nascita di una nazione , svaria via via da continente a continente, senza barriere né ideologiche né storiografiche né geopolitiche né… fisiche, assegnando al lemma guerra la connotazione più libera e trasversale. Nel grande mare delle storie, e delle storie del quotidiano in particolare, quelle che il cinema d’oggi predilige e spesso enfatizza con i sofisticatissimi mezzi di cui dispone, possono coesistere, infatti, la guerra dei vicoli di Napoli e la guerra dei sobborghi di Boston, guerre effettive, con le guerre metaforiche dei cartoni animati o dei simulacri di Parigi, e, perché no, con le Grandi Guerre (la Prima, la Seconda, il Vietnam, il Caucaso, à rebours la Frontiera americana, una frontiera fatta apposta per essere valicata). Napoli, Boston, Caucaso… altro che diaframmi e separatismi continentali. Il cinema ecumenico ed epistemicamente condivisibile in virtù dei più diversi apparati tecnologici non conosce barriere basti pensare alla successione dei titoli introduttivi del Dunkirk di Christopher Nolan: 1. La Terra; 2. Il Mare; 3. Il Cielo.
Dunque non più toponimi ma econimi, in una parola l’episteme. E la sua superficie, con il grande male e il grande mare connaturati. Alla fine metto un nome: Pier Paolo (per Pier Paolo Pasolini). Un nome spostano l’accento su un’altra variante-guerra, dal momento che esiste anche una guerra delle facce e delle figure. E che introduce a un’Appendice nella quale i nomi anagrafici alludono a grandi nomi di cineasti moderni e insieme classici: Alain Resnais, Ingmar Bergman, Theo Angelopoulos, Jean-Luc Godard, Elisabetta Sgarbi, Marco Bellocchio (almeno due italiani, tra cui una donna, non possono mancare). Accomunati, nel caso, dal canone della guerra delle fedi. Non è questa, oggi, la guerra che si sta combattendo ogni giorno, ogni ora, fisicamente e metafisicamente, sui più lontani fronti? Michel Onfray non ha forse sottotitolato il suo pamphlet più famoso (2005) Fisica della metafisica? E qual è il nome più rilevante dell’attuale avanguardia cinematografica se non quello di un filmmaker che prende le mosse dalla pellicola dalla fisica del film per maturare una metafisica cinematografica tutta propria, intessuta di “immagini ritrovate”, fotogrammi muti in nitrato d’argento (altamente infiammabile), danneggiate e deteriorate al punto da sfidare il dovuto restauro, «come fossero pensieri e memorie di azioni che hanno luogo nella mente, dentro un corpo che si fa carico, per parte sua, della visione di quegli stessi eventi»? Nessun dubbio: quello del performer americano Bill Morrison.
VI.
Il quale Bill Morrison, con un lungometraggio come Dawson City: Frozen Time (2017), preceduto da esperimenti come Decasia: The State of Decay (lm., 2002) o The Mesmerist (cm., 2003) o Light is Calling (cm., 2004), ha saputo giusto coniugare mente e corpo, pellicola e linguaggio, film e cinema, menomazione e recupero: salvaguardando al tempo stesso, con un trattamento specifico della filigrana originaria, il senso immanente del materiale deteriorato, ovvero dell’antico, e il sovrasenso trascendente del materiale ringiovanito da un footage in qualche modo onirico, ovvero di un nuovo evocativo dell’antico del suo fantasma, della sua fascinosa fosforescenza. Per ricostruire Dawson City che non è solo il titolo definitivo del suo lavoro di ricucitura, è innanzitutto il nome della nota città mineraria dello Yukon, frontiera-miraggio della febbre dell’oro nei primi vent’anni del secolo scorso Bill Morrison muove infatti, visionariamente, dalla riscoperta di centinaia di vecchie bobine rimaste sepolte per quasi un secolo sotto le nevi del Klondike e fortunosamente recuperate in tempi recenti. Onde assimilare tra loro gli “amabili resti” di un passato da archivio, il “corpo in frammenti” di un’utopia defunta, e insieme restituirne in tutto o in parte, grazie al ripristino di una nuova illuminante sequenzialità visiva, il senso e il sovrasenso, lo storico e il metastorico, il discreto e il concreto.
E se, in buona sostanza, la traccia della lesione o del mutilo permane, permane in pari misura lo scrupolo cinefilo della loro valorizzazione ad alta intensità: una sorta di ricodifica della parte per il tutto, in cui la parte è comunque parte integrante, e il tutto non è né arida somma né totale aritmetico: se mai riscatto della precarietà della pellicola nella prospettiva della polifonia connaturata al grande cinema o, per usare il lessico di Bill Morrison, al digitale «ad alto tenore emotivo».
Sergio Arecco
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