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Nel pensiero di Costanzo
che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, e...
Venturi non immemor aevi.
Il cartiglio sullo stemma di uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:
Venturi non immemor aevi*
Parole che ci ricordano quanto forte fosse in Costanzo Preve l’esigenza di saldare il passato al futuro, di leggere il presente con gli occhi del futuro, un presente che non dimentica il passato e sa trarne insegnamenti. Il futuro che trova dunque riverberi di senso in un passato e che transitando per il presente sembra attendere la sua ventura rammemorazione, orientando così il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Siamo una trama di significati. La storia è soprattutto trama di significati universali. E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali e, preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro. Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”. Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione. Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” obliando che il senso profondo della cultura e della storia, anche della nostra storia, lo dobbiamo trovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.
E dunque, caro Costanzo, ad multos annos per i semi che hai lasciato: questo l'augurio, per una sempre nuova “avventura” che occorre però desiderare (avventura, andare verso le cose future, ad ventura), impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita, proiettandola nell'altrove della buona utopia, che è negazione dell'indeterminato capitalistico, una concreta utopia comunitaria perseguita con itinerari da progettare insieme, non immemor aevi venturi. Ecco la sostanza della passione durevole che, a partire da Lukács, hai trasmesso a molti.
Carmine Fiorillo, 2019
*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].
Introduzione
«Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possiamo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una».1
Costanzo Preve
Questo saggio è dedicato a Costanzo Preve
Non è stato un facitore di parole, ma un pensatore libero.
Mi sono dedicato alla lettura della sua produzione filosofica per una semplice ragione: leggendo i suoi testi ed ascoltando i suoi interventi, non poche volte ho sentito da lui pronunciare una frase, la quale è l’essenza del suo pensiero, e racchiude il telos2 del suo filosofare:
«Capire è molto più importante che appartenere».3
Per poter capire è necessario rimettere in moto con il pensiero la catena dei perché. La passione durevole per la Filosofia si struttura nella perenne domanda: “Perché?”. Si abbattono le abitudini, gli stereotipi di un sapere burocratizzato e parte del dispositivo di riproduzione sociale. Con la catena dei perché Costanzo Preve porta il lettore verso il riorientamento gestaltico. La domanda profonda è libertà nella mediazione concettuale domandante e senza di essa non vi è che l’animalizzazione dell’essere umano, il suo farsi ente ideologico negli automatismi della riproduzione sociale dei poteri e della produzione: il nostro è un mondo senza domande in cui regna la distopia dell’esattezza.
Preve ha scelto la Filosofia, non l’ideologia, la libertà, non il conformismo del “politicamente corretto”.
La disposizione alla libertà ha affinato la metodologia di indagine, per emancipare le domande dalle sovrastrutture ideologiche.
Se prevale l’appartenenza non si può filosofare: il filosofo è un cercatore perenne di concetti e superamenti.
Ci sono tanti modi di donarsi.
Costanzo Preve ha testimoniato la libertas philosophandi, ancora possibile, malgrado le burocrazie plutocratiche e mediatiche del sapere.
La postura periferica scelta da Preve, rispetto ai contesti strutturati delle accademie, ha consentito alla sua indagine di solidificarsi con il tempo senza chiusure. Pertanto, la sua priorità è stata: “Capire”. Ha sentito fortemente la vocazione politica e filosofica e, dato che filosofare è capire e vivere il proprio tempo, ha posto il problema del fondamento veritativo.
Trasgressivo in un’epoca di nichilismo, nella quale la libertà è dimenticanza di sé e della propria identità umana egli ha teorizzato l’uscita dal deserto del nichilismo, dell’alienazione, osando ricondurre la Filosofia nell’alveo della sua storia.
Contro la dispersione dei nichilismi, ha riportato in luce la verità quale fondamento della pratica filosofica.
L’integralismo economicistico ha indotto a teorizzare il consumo dell’essere.4
Nella dipintura della Scienza Nova Vico utilizza un’immagine metaforica per rappresentare il suo progetto: il globo poggia di lato sull’altare e su di esso una donna simbolizza la metafisica. Il globo non occupa tutto lo spazio, ma lascia un ampio spazio libero, simbolo di libertà creativa.
La Storia è il campo del possibile che si coniuga con l’eterno (la luce). Nella contemporaneità la dipintura dovrebbe essere notevolmente diversa: l’economicismo potrebbe essere il globo che regge la nuova metafisica che a sua volta guida il mondo, ma che occupa tutto lo spazio dell’altare.
Nell’epoca dell’intemperanza, degli orci bucati,5 Costanzo Preve ha posto l’urgenza del problema: l’illimitato sta divorando la nostra natura umana ed il nichilismo di conseguenza va giudicato e compreso nei suoi effetti, per ipotizzare una collettiva via d’uscita dall’ospite inquietante.
In generale coloro che oggi si occupano di filosofia hanno legittimato il pensiero debole finendo in tal maniera per sclerotizzare il presente contribuendo alla sua riproduzione.
Costanzo Preve, dinanzi al bivio dóxa (opinione)/“lÉqeia (verità), ha scelto il percorso più difficile: si è assunto il rischio del nuovo e della verità.
Non si tratta di santificarne il pensiero e la testimonianza, operazione che risulterebbe fortemente antifilosofica, ma di riconoscere un percorso, la cui onestà è di tutta evidenza.
Non oso propormi come esperto del pensiero di Costanzo Preve: l’abbondanza di fonti cartacee, digitali, mediatiche rende non semplice la genetica del suo pensiero.
Ho solo tentato di rintracciare attraverso l’immagine del deserto in Nietzsche e nella Arendt il processo genealogico di uscita dal nichilismo indicatoci da Costanzo Preve.
Nel deserto attuale, la Filosofia di Costanzo Preve è come l’Albero del Ténéré nel deserto del Niger: un punto di riferimento in quel nulla in cui tutti i grani di sabbia sembrano uguali. Per attraversarlo, per uscirne, occorre una bussola.
1 Costanzo Preve, Torino, ottobre 2007.
2 Dal termine greco τέλος, “fine”.
3 «Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido» (C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6).
4 «Nel mondo filosofico italiano è stata dominante per almeno due decenni l’interpretazione di Heidegger data da Gianni Vattimo, un pensatore con cui sono in disaccordo radicale e nello stesso tempo stimo come un produttore di proposte minimamente originali. Secondo Vattimo, Heidegger non avrebbe soltanto sostenuto che la lunga storia della metafisica occidentale si risolve in tecnica planetaria, ma addirittura che l’Essere si è consumato come fondamento ontologico ed è rimasto solo come prospettiva linguistica ed ermeneutica. Questo “consumo”, tuttavia, non deve essere vissuto come perdita da piangere in modo inconsolabile, ma come risorsa da valorizzare per un mondo post-metafisico. E sull’inesorabile avvento di un mondo post-metafisico da salutare come un destino e come una risorsa insieme sono d’accordo due fra i filosofi più conosciuti oggi al mondo, il tedesco Jürgen Habermas e l’americano Richard Rorty. Vorrei terminare questo terzo capitolo con una riflessione su questo punto. Io ritengo la teoria di Vattimo del cosiddetto “consumo” dell’Essere una formulazione spontanea (certamente inconsapevole e non avvertita come tale dal suo incauto formulatore) del segreto del momento storico che si sta aprendo, e cui accennerò nel prossimo capitolo. Non si tratta più del fatto, già noto agli antichi greci, che il tempo (chronos) ci consuma e ci divora e dunque ci trasforma in polvere» (ibidem, pp. 45-46).
5 «Socrate Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?» (Platone, Gorgia, Acrobat in Internet, p. 26)
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