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Ripubblichiamo in queste pagine la seconda parte del volume intitolato Gesù: uomo nella storia, Dio nel pensiero, edito nel 1997 dalla editrice C.R.T., a firma sia di Massimo Bontempelli che di Costanzo Preve, i quali dello stesso anno avevano insieme licenziato anche Nichilismo, Verità, Storia, un testo in cui C. Preve quasi preannunciava la sua successiva elaborazione qui riproposta; nel capitolo Il miracolo di Gesù di Nazareth: l'unità di ontologia e di assiologia Costanzo scriveva: «Il miracolo consisteva nel conoscere prima di tutto la verità [...]. La verità è unità di ontologia e di assiologia».
Gesù: uomo nella storia, Dio nel pensiero si componeva di due parti distinte, la prima delle quali, quella di Massimo Bontempelli, è stata ripubblicata con il medesimo titolo sempre da Petite Plaisance nel 2017.
Adempiamo, anche se in ritardo ma le nostre energie e risorse sono limitate al giusto obbligo morale di ripubblicare, di quel libro originario ormai non più disponibile, anche la seconda parte di Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
Carmine Fiorillo Luca Grecchi Giancarlo Paciello
Questo scritto propone al lettore una riflessione sui rapporti che intercorrono fra i due poli dell’esperienza religiosa e del pensiero filosofico nell’ambito unitario della costituzione del legame sociale capitalistico. La sua lettura richiederà probabilmente uno sforzo maggiore, rispetto alla lettura di una “Vita di Gesù”, anche da parte di chi dispone di una preparazione di base nella storia delle idee filosofiche. Tuttavia, si tratta di uno sforzo cui invitiamo il lettore. Le ragioni di questo invito sono molte, ma in questo breve prologo le compendieremo in tre ordini distinti di motivazioni.
In primo luogo, è evidente che il rapporto che intercorre fra il Gesù della storia ed il Cristo della fede non può essere compreso al di fuori del concetto filosofico e religioso che ci facciamo di Dio e della divinità. Si tratta di una vera e propria ovvietà, e proprio per questo, come spesso avviene nel caso delle ovvietà, non ci riflettiamo sopra in modo adeguato. Al primo sguardo, le cose possono sembrare molto semplici, e le alternative rigide e ben fissate. Da un lato, Dio esiste (e ci si può arrivare per fede, rivelazione, ragione, ecc.), oppure Dio non esiste (e ci si può credere per ignoranza, superstizione, debolezza, illusione, ecc.). Dall’altro, Gesù non era altro che un uomo come noi (anche se eccezionalmente buono, intelligente, dotato di poteri taumaturgici, ecc., che non potevano però ragionevolmente giungere anche al miracolo della resurrezione dopo la morte), oppure, al contrario, era il Figlio di Dio inteso come l’incarnazione della divinità stessa (e per questa ragione ha potuto risorgere, e con la sua resurrezione garantire anche la promessa della nostra personale resurrezione).
La semplicità di questa coppia di alternative è però solo apparente. Questa coppia di alternative (Dio esiste, oppure Dio non esiste; Gesù era un uomo che fu poi creduto Dio, oppure Gesù era in realtà un Dio) non permette alcun dialogo filosofico, ma consente soltanto l’espansione di una serie di argomentazioni contrapposte, che possono essere ascoltate con maggiore o minore cortesia ed attenzione, senza che questo tolga a questa esposizione il carattere di un monologo a due. Occorre dunque cercare di uscire dal terreno scivoloso di questo interminabile monologo a due, che negli ultimi duemila anni è già stato rappresentato milioni di volte, al punto che gli interlocutori di questo monologo a due sono ormai condannati a ripetere argomentazioni già perfettamente elaborate e conosciute. Anziché discutere, gli interlocutori di questo monologo a due potrebbero limitarsi a sollevare cartelli con numeri, ognuno dei quali si riferisce ad un libro o ad un capitolo di libro in cui la rispettiva argomentazione (atea oppure “credente”) è già perfettamente svolta ed elaborata in forma retoricamente insuperabile. È ovvio che in questo modo non si potrebbe attivare un vero dialogo filosofico. Proprio del dialogo filosofico è infatti l’apertura a possibilità di sviluppo nuove e non previste all’inizio. A coloro che pensano di riproporre la semplicità di questa coppia di alternative da monologo a due non bisogna però obbiettare che le cose sono “complesse”, rifugiandosi così in una vaga ed ingannevole “complessità”; bisogna anzi rivendicare con orgoglio la semplicità: ciò che può essere detto, può essere detto in modo semplice. Si tratta però di un’altra semplicità, di una semplicità diversa ed incompatibile con la fuorviante semplicità della coppia di alternative che abbiamo ricordato sopra. Questo saggio vuole dunque essere l’introduzione, e nello stesso tempo l’invito, ad un altro tipo di semplicità, che si tratta di ricercare assieme con un attraversamento della filosofia della religione moderna e contemporanea. Non garantiamo di riuscire a giungere realmente a questa nuova semplicità alternativa al monologo a due. Forse non ci riusciremo per nulla. Ma è comunque certo che abbandonando le coppie opposizionali del monologo a due non perderemo nulla di prezioso, e possiamo dunque correre il rischio con libera coscienza.
In secondo luogo, il ripercorrere in modo ragionato alcuni momenti della storia della filosofia della religione occidentale da Hobbes a Heidegger (passando per Spinoza, Hegel e Marx, ed evidenziando soprattutto la differenza radicale fra l’approccio di Marx e l’approccio del marxismo storico successivo) è assolutamente necessario, per almeno due ordini di ragioni. Da un lato, occorre ricordare la specificità e l’originalità di alcune posizioni teoriche, che sono spesso fraintese e banalizzate. Dall’altro (e questo secondo aspetto è molto più importante del primo), ritengo necessario un approccio nuovo al problema dei rapporti fra religione, filosofia, scienza e legame sociale capitalistico. L’approccio che propongo si basa sulla negazione di alcune opinioni abbastanza diffuse a proposito della nascita e del consolidamento della società capitalistica e delle classi sociali che sono state finora tipiche di essa: borghesia e proletariato. Secondo tali opinioni correnti, la borghesia è concepita come qualcuno che vuole costruire coscientemente il capitalismo, mentre il proletariato è concepito come un soggetto capace di edificare una società socialista e comunista. Vi sarebbe dunque la volontà di un soggetto denominato borghesia di costruire il capitalismo, mentre vi sarebbe dall’altra parte la capacità di un soggetto denominato proletariato di costruire il comunismo.
Io non credo assolutamente a questa doppia superstizione, storiografica la prima e filosofica la seconda. Nel caso del capitalismo, esso non è stato voluto, progettato ed eseguito da un soggetto collettivo, ma è emerso storicamente attraverso congiunture largamente casuali e contingenti, che si tratta di riconoscere e di ricostruire al di fuori di ogni determinismo.
Nel caso del comunismo, ritengo che l’intera storia del comunismo del Novecento dimostri l’incapacità, da parte del proletariato, di indurre e gestire il passaggio dal capitalismo ad una società socialista. In ogni caso, l’esplicita negazione del doppio nesso genetico della volontà nel rapporto fra borghesia e capitalismo e della capacità nel rapporto fra proletariato e comunismo permette a mio avviso di pensare in modo nuovo i legami fra esperienza religiosa, riflessione filosofica e sviluppo della società moderna.
In terzo luogo, infine, la riflessione che proponiamo al lettore può servire da orientamento per la comprensione del legame sociale in questa fine del XX secolo. Le tesi che espongo in questo scritto sono fortemente collegate ad una mia convinzione profonda, che non discuterò nel seguito ma che ritengo giusto il lettore conosca: oggi la menzogna sulla natura complessiva del legame sociale capitalistico ormai “globalizzato” e mondializzato (che configura in effetti un vero e proprio “capitalismo totalitario”) non è più costruita sulla modalità dell’occultamento della verità oppure sull’impedimento politico, giuridico o religioso alla sua ricerca e alla sua diffusione pubblica, ma è ricavata, in modo assai più raffinato ed efficiente, dalla banalizzazione della stessa nozione di verità. La verità non è più un valore primario che organizza, gerarchizza ed orienta tutti gli altri valori di cui è ad un tempo l’origine e la fondazione, ma diventa un’opzione possibile fra le altre, ed in più un’opzione delegittimata e svalorizzata
In questa situazione nuova ed inedita, sostanzialmente non ancora compresa dalle principali correnti del pensiero contemporaneo, si colloca oggi il problema di cui ci occupiamo. Prima infatti che inizi la discussione sulla corretta definizione scientifica e filosofica di verità, e di conseguenza sulla sua eventuale conoscibilità e trasmissibilità dialogica e/o sperimentale, bisogna concordare sul fatto che la verità è un valore fondante, e non soltanto un’opzione facoltativa sprovvista di rilievo pratico per la nostra vita. La mancanza di una idea “forte” di verità è, a mio avviso, uno dei “segreti” del crollo del comunismo storico novecentesco.
Torneremo più avanti su alcuni di questi problemi. Per ora basti rilevare che il suicidio del materialismo storico e dialettico, l’ideologia di riferimento e di legittimazione del comunismo storico novecentesco (sia ortodosso che eretico, non facciamo qui volutamente alcuna differenza), ha comportato una rilegittimazione del discorso religioso come unica forma verbalmente consentita di contestazione morale al pensiero unico capitalistico. Sul discorso religioso sono ripiegati in particolare i burocrati culturali del defunto comunismo storico novecentesco, in una vorticosa moltiplicazione di “tavole rotonde” e di ambigue convergenze con “credenti” di ogni ordine e grado (quasi sempre scelti fra gli ecclesiastici a denominazione controllata). In apparenza, si tratta di una positiva “apertura” e di un rifiuto del dogmatismo professato in precedenza, quando i comunisti pensavano di navigare a gonfie vele sospinti dal vento della storia. In realtà si tratta dell’ennesimo tentativo (ormai non più tragico, ma solo grottesco) di evitare la resa dei conti con la propria fallimentare coscienza filosofica nichilistica precedente, attraverso la facile ricerca di un “minimo comun denominatore” assistenzialistico basato sulla cosiddetta “scelta preferenziale per i poveri”. Di fronte a questo fatto, sgradevole per tutti coloro che a suo tempo hanno preso sul serio sia il marxismo sia la fede religiosa, non avrebbe nessun senso riproporre in segno di presunta radicalità e serietà intellettuale il vecchio ateismo comunista. Si tratta di una via sbarrata ed ingannevole che tutto questo saggio sconsiglia vivamente e con forza. Alcuni paragrafi sono dedicati proprio a mostrare il carattere prettamente ideologico (e pertanto né filosofico né scientifico in senso serio) di questo ateismo, religione tribale di appartenenza dei sacerdoti e dei fedeli del comunismo storico novecentesco ormai definitivamente archiviato.
È questo terzo ordine di considerazioni cui vorremmo che il lettore desse particolarmente importanza. Solo questo terzo ordine di considerazioni infatti permette a nostro avviso di inquadrare in modo filosoficamente fecondo la riproposizione di una lettura della vita di Gesù, che resta primaria e fondativa nell’economia generale della struttura di questo libro.
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