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Cat.n. 332

Enrico Berti, Luciano Canfora, Bruno Centrone, Franco Ferrari, Francesco Fronterotta, Silvia Gastaldi

La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti. Nota di Fiorinda Li Vigni. Prefazione di Giovanni Casertano e Lidia Palumbo.

ISBN 978-88-7588-237-2, 2019, pp. 128, formato 140x210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [108].

In copertina: Mario Vegetti.

indice - presentazione - autori - sintesi

13,00

Introduzione

Due mezze giornate del mese di novembre del duemiladiciotto sono state dedicate a un seminario di studi sul pensiero di Mario Vegetti.* Colleghi, allievi e tanti studiosi suoi amici sono intervenuti e hanno partecipato alla ricca discussione che si è tenuta nel bel salone dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, tante volte frequentato da Mario, che amava il luogo e la città. In queste pagine, con un sentimento misto di gioia e dolore, presentiamo gli atti di quelle giornate di studio che avemmo l’onore di presiedere: le relazioni di Enrico Berti, di Franco Ferrari, di Silvia Gastaldi, di Bruno Centrone, di Francesco Fronterotta, e infine quella di Luciano Canfora, che non poté, in quella occasione, intervenire personalmente, ma inviò un testo che venne letto da Piera De Piano.

Si tratta di relazioni tutte molto belle e in questa sede vogliamo ringraziare gli studiosi amici di avercele tutte consegnate in tempi brevi, così da poter mettere a disposizione della comunità scientifica queste pagine importanti come esse sono state scritte, nel tempo che immediatamente è seguito all’improvvisa scomparsa del grande studioso.

Enrico Berti, nel suo testo intitolato “Aristotele: quinto nucleo tematico di interesse per Vegetti?”, parla degli studi di Vegetti su Aristotele, a partire da una disputa che essi ebbero negli anni Settanta, a proposito dell’identificazione della metafisica come scienza universale; e racconta della loro pluridecennale amicizia, che cominciò quando Mario Vegetti si recò a Padova e gli regalò la sua traduzione delle Opere biologiche di Aristotele, curata insieme con Diego Lanza, anche lui grande amico di Mario, e anche lui recentemente scomparso.

Negli studi di Vegetti su Aristotele si ebbe – racconta Berti – una svolta, legata all’incontro con l’antropologia storica marxista di Vernant, Foucault e degli studiosi francesi del loro tempo e del loro orientamento. Sempre aperto alle suggestioni della letteratura critica internazionale, Vegetti conobbe e apprezzò anche alcuni esiti della filosofia analitica, ma è il ricorso alle scienze sociali, ereditato dallo strutturalismo, che è riconoscibile come una costante dei suoi scritti. Il ricorso alle scienze sociali nell’in­terpretazione di Aristotele è riconoscibile – secondo Berti – anche nel grande volume L’etica degli antichi, e nei bei saggi Κενολογεν in Aristotele, o Normal, naturel, normatif dans l’éthique d’Aristote, sui quali, nelle pagine che seguono, i lettori italiani possono trovare accenni annotati di dissenso interpretativo tra i due studiosi di Aristotele. Molto interessante – secondo Berti – è il testo scritto da Vegetti nel 2016 insieme con Ademollo, Incontro con Aristotele, nel quale appare eccellente l’esposizione della psicologia e della zoologia aristoteliche, settori nei quali Vegetti è meritatamente considerato uno specialista di livello mondiale. Tutti i lavori di Vegetti – sottolinea Berti – testimoniano la capacità dello studioso di esporre perfettamente gli autori antichi, e anche di discutere con loro e con i loro interpreti moderni e contemporanei, e con i filosofi contemporanei in generale, in un dibattito che si prolunga nel tempo dall’antichità ai giorni nostri.

Franco Ferrari, nel testo intitolato “Al di là dell’essere: la dynamis tou agathou. Gli studi di Mario Vegetti sull’idea del Buono in Platone”, si occupa dei lavori che Mario Vegetti ha dedicato al μέγιστον μάθημα. Lo studioso comincia spiegando le ragioni per le quali la traduzione più appropriata di τὸ ἀγαθόν, che è un aggettivo neutro sostantivato (esattamente come τὸ καλόν e τὸ δίκαιον) sia, secondo Vegetti, “il buono” (e non il bene). Poi presenta lo “stato dell’arte” che Vegetti si è trovato di fronte quando ha cominciato questi studi e con il quale ha dovuto confrontarsi, a partire dalla posizione esoterista promossa dalla “Scuola di Tubinga”, la quale interpretava l’intera discussione sul Bene, contenuta nel VI libro della Repubblica, alla luce della categoria di Zurückhaltung, di “trattenimento”, e cioè di rinuncia alla comunicazione, rimandata agli ἄγραφα δόγματα. Vegetti critica, di questa posizione, la natura sistematica dell’impianto metafisico che gli studiosi della scuola di Tubinga ricostruiscono identificando il Bene con il principio dell’Uno. Egli si confronta, tra le altre, anche con le posizioni ermeneutiche di Rafael Ferber, di Matthias Baltes, di Francesco Lisi, di Wolfgang Wieland, di Hans Georg Gadamer, e costruisce un’interpreta­zione dell’idea del Buono che rappresenta una svolta importante nella storia degli studi. Essa nasce innanzitutto dall’attenzione al contesto dialogico in cui si inserisce la discussione su τὸ ἀγαθόν: Socrate considera la conoscenza del Buono indispensabile a coloro che sono chiamati a governare rettamente la città (Repubblica VI 505d-506c), ma se da un lato sottolinea di questa conoscenza tutta l’importanza, dall’altro appare reticente a fornire definizioni. Ed ecco che qui si colloca l’interpretazione originale di Vegetti, secondo il quale la rinuncia platonica a trattare in maniera compiuta del μέγιστον μάθημα dipende dalla natura stessa di questa “realtà”, che proprio per la sua somma importanza, per la sua eccedenza ontologica ed epistemica, si sottrae a ogni conoscenza di carattere definizionale. Se l’essere è la dimensione del conoscibile, il Buono, che eccede l’essere, che si colloca ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, eccede anche la conoscibilità. Ma – chiarisce Ferrari – l’idea di una eccedenza del Bene nei confronti della dimensione epistemica non ha mai condotto Vegetti ad abbracciare posizioni di stampo neoplatonico, infatti ai suoi occhi la trascendenza del Bene non è tanto di ordine ontico, bensì di carattere assiologico e valoriale: il Buono appar­tiene all’essere e contemporaneamente lo supera, è dell’essere la dimensione più luminosa; e tale dimensione luminosissima dell’essere è quella del piano normativo irriducibile all’esistenza. Si tratta davvero di un’interpretazione di grande momento, che coerentemente mostra la superiorità che riveste la dimensione etica e politica, agli occhi di Platone, rispetto a quella ontologica ed epistemologica.

Francesco Fronterotta, in un testo dal titolo “L’anima, il corpo, il medico”, si occupa degli studi di Vegetti sulla relazione anima-corpo vista dal punto di vista antropologico della costruzione della soggettività e dal punto di vista medico della struttura psico-fisiologica dell’organismo individuale, e mostra come l’approccio dello studioso sia quello di considerare tali due punti di vista strettamente correlati, e talvolta effettivamente indistinguibili. Le ricerche di Vegetti cominciano dall’analisi dei testi omerici, nei quali anima e corpo sono termini difficilmente pensabili nella loro interazione, e continuano con lo studio del pensiero naturalistico e medico del periodo arcaico, cui si oppone il punto di vista alternativo (che sarà raccolto dal Platone del Fedone) dei gruppi sapienziali dell’orfismo e del pitagorismo delle origini, con un pensiero dell’anima immateriale e divina, per giungere alla psicologia tripartita della Repubblica e del Timeo, che presentano un’anima politicizzata e somatizzata, e un corpo psicologizzato, modelli antropologici tesi alla costruzione di una concezione unitaria del vivente e del suo sé.

Secondo gli studi di Mario Vegetti – scrive Fronterotta – il passo seguente nella ricostruzione dell’antica antropologia del sé si compie naturalmente con Aristotele, cui si deve l’intuizione di una scienza integrata del vivente, con un suo versante biologico e un suo versante psichico, che avrà enormi conseguenze sulla storia del pensiero filosofico e scientifico occidentale, ma che si troverà tendenzialmente abbandonato già in età ellenistica, in ragione della progressiva separazione fra gli interessi propriamente scientifici dei biologi e dei medici, da un lato, e quelli dei filosofi, dall’altro. Sarà poi Galeno – ai cui scritti Vegetti ha dedicato numerosi studi – a ereditare gli sviluppi delle ricerche anatomiche condotte nel contesto del museo di Alessandria e a realizzare una sintesi tra antropologia e medicina, tra risultati scientifici e interpretazioni filosofiche, tra Ippocrate, Platone e Aristotele.

Silvia Gastaldi, in un testo dal titolo “Gli studi di Mario Vegetti sull’etica antica: un approccio innovativo”, si concentra sul volume forse più famoso di Mario Vegetti, L’etica degli antichi, e racconta la genesi di questo studio che costò all’autore due anni di lavoro. Quel che Mario Vegetti si proponeva di fare – spiega Silvia Gastaldi – era scrivere non una storia delle idee morali diffuse e condivise nel mondo antico, ma una storia delle teorie etiche, cioè dell’elemento normativo, e specificamente filosofico, della riflessione antica sulla morale, stabilendo così una differenza di impostazione rispetto ai grandi lavori dedicati all’etica antica da Jaeger, Dodds, Adkins. La sua ricerca provava innanzitutto a impadronirsi a fondo del tessuto argomentativo delle teorie etiche dell’antichità, chiarendo le ragioni addotte dalle diverse posizioni per legittimarsi, e poi riportava le idee sul loro sfondo storico-sociale, per comprendere i problemi cui esse avevano cercato di fornire una risposta. Nella premessa l’autore spiega innanzitutto come non sia possibile parlare di teorie etiche fino a Platone, dal momento che l’etica non possiede una sua autonomia, e poi come, anche successivamente, essa risulti strettamente intrecciata ad altre forme di sapere. Attraverso la messa a fuoco di alcuni momenti particolarmente significativi, Mario Vegetti mostra il passaggio da una morale pre-politica, tipica del mondo omerico, a una morale politicizzata di età arcaica e classica: la polis si forma quando l’io agonale diventa, non senza difficoltà, un io collettivo.

Le pagine di Vegetti accendono un riflettore sull’elaborazione di una “ideologia della città” e sugli elementi disgregatori della morale politicizzata, sull’interiorizzazione della morale operata da Socrate e su “il conflitto psichico e la sua ricomposizione”, come recita il titolo del capitolo dedicato a Platone. Spiegano i nuclei concettuali forti dell’etica di Aristotele, che pensa l’uomo come animale politico il cui habitat è la città, e delle filosofie ellenistiche, che presentano nuove relazioni tra la le figure della ragione e quelle della passione e introducono una sorta di medicalizzazione dell’etica. Un ultimo capitolo è dedicato a Plotino, che segna una svolta rispetto a tutto ciò che lo precede, perché con Plotino l’unico protagonista del discorso etico diviene l’anima, anzi la sua parte più elevata, tesa a percorrere quel cammino all’insù che approda all’estasi, alla fusione con l’Uno.

Bruno Centrone, in un testo dal titolo “ Quindici lezioni e non solo. La Lezione (metodologica) di Mario Vegetti su Platone”, focalizza la sua attenzione su un altro straordinario volume di Vegetti, le Quindici lezioni su Platone, per sottolineare la grande lezione di metodo che quelle pagine contengono. Poiché ogni libro su Platone rappresenta in qualche modo un tradimento del modo platonico di pensare la ricerca filosofica, venendo a configurare una sorta di violenza espositiva, Vegetti, a partire da questa consapevolezza, giustifica, in sede di premessa, il suo libro, radicalizzando la riflessione sulla scelta platonica della forma dialogica: Platone ha scelto di nascondersi dietro i personaggi dei suoi scritti e questo, come è noto, ha costituito sin dall’antichità un rilevante problema ermeneutico. Con mossa molto felice – scrive Centrone – Vegetti collega questa assenza a quella di Platone il giorno della morte di Socrate. Il modo platonico di essere assente dai suoi scritti, come è assente un autore che non parla mai in prima persona, ma sem­pre attraverso i suoi personaggi, assomiglia al modo dell’allievo che diserta la cella del maestro morente, ma fa di quella cella e di quella morte il punto di partenza di tutta la sua opera e del suo complesso rapporto con la scrittura.

Tra gli studiosi, fin dall’antichità, si è diffusa l’idea che la forma dialogica dei testi platonici e anche i tratti di argomentazione ironica, che caratterizzano i dialoghi, stimolino l’interazione ermeneutica e pongano determinati compiti al lettore, costringendolo ad andare oltre la lettera del testo, nel quale le autentiche convinzioni di Platone sarebbero espresse in forma non diretta. A tale idea è collegata un’altra grande questione ermeneutica, che riguarda l’individuazione dei “portavoce” di Platone, cioè dei personaggi che possono essere considerati espressione del punto di vista dell’autore. Bruno Centrone mostra come su queste, e su tante altre questioni ermeneutiche fondamentali relative all’interpretazione dei dialoghi, Vegetti abbia assunto una posizione di esemplare equilibrio, capace di valorizzare i punti di forza di ciascuna delle tante e diverse interpretazioni di Platone, insistendo sulla “polifonia” o “polisemia” dei dialoghi, sulla costellazione di voci che essi contengono, nessuna delle quali può essere sottovalutata: ogni posizione espressa dai personaggi dei dialoghi è il condensato di problemi teorici che Platone prende sul serio e ai quali tenta di dare risposta. Allo stato attuale degli studi platonici – scrive Centrone – l’impianto metodologico della lettura di Mario Vegetti potrebbe agevolmente essere assunto come piattaforma condivisa da interpreti anche di segno e di estrazione assai diversi.

Di diverso tenore rispetto a tutti gli altri, il testo di Luciano Canfora, dal titolo “Mario Vegetti nei «Quaderni di storia»”, ricorda l’impegno politico di Mario Vegetti. Lo studioso racconta il primo incontro con Vegetti avvenuto a Bari nel 1974, a ridosso del golpe cileno, mentre in Italia si svolgeva la campagna referendaria sul divorzio. Canfora racconta la passione e l’ironia di Vegetti, che scriveva articoli importanti su «Belfagor» e poi, nel gennaio del 1975, sul primo fascicolo dei «Quaderni di storia». Era il tentativo di mettere alla prova – scrive Canfora – nella ricerca empirica, il ritorno, dopo una non breve eclissi, dell’orientamento storiografico ispirato al marxismo. Di tale orientamento si vedevano ampi frutti in alcuni settori della ricerca, meno in quello rivolto allo studio del mondo antico. L’importanza dei lavori di Vegetti – e anche di Diego Lanza, molto vicino a lui in quegli anni – era nell’attenzione alle specifiche articolazioni sociali della realtà antica. Canfora ricorda le critiche di Vincenzo Di Benedetto e l’eleganza della risposta che a queste critiche oppose Vegetti, e soprattutto ricorda la serietà con cui Vegetti visse la crisi del 1989 e il dissolvimento del movimento comunista. Egli conclude il suo testo affermando che il Vegetti da lui seguito e prediletto, «che resterà», è quello con cui ha sempre condiviso la convinzione che Marx sia uno degli ingredienti più fecondi per la comprensione storica, fecondo proprio perché spinge gli studiosi a porre domande nuove.

Agosto 2019

Giovanni Casertano

Lidia Palumbo

* Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Incontro di studi in onore di Mario Vegetti. Venerdì 23 novembre 2018, ore 16 – Presiede Giovanni Casertano, relatori: Enrico Berti, Franco Ferrari, Silvia Gastaldi. Sabato 24 novembre 2018, ore 10 – Presiede Lidia Palumbo, relatori: Bruno Centrone, Francesco Fronterotta, Luciano Canfora.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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