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Cat.n. 335

Maura Del Serra

Altro Teatro. Introduzione di Marco Beck.

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, formato 130x200 mm., Euro 18 – Collana di Teatro “Antigone” [12].

In copertina: Beato del San Andrés de Arroyo, El fuego de Babilonia, iluminación sobre pergamino. Folio 147, Paris, Bibliothèque Nationale de France.

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18,00

Introduzione

Maura Del Serra: drammaturga e poetessa o poetessa e drammaturga? Per effetto della proprietà commutativa trasposta dal campo della matematica a quello della letteratura, invertendo i termini di questa duplice qualificazione, i due fattori di questa moltiplicazione, non muta il prodotto della creatività che da più di tre decenni pulsa nella mente e nel cuore della scrittrice toscana.1 Non muta – va precisato – quanto a natura, essenza, “ideologia”, ma solo per costante accrescimento. Il suo Teatro (Petite Plaisance, 2015) e ora questo suo nuovo Altro teatro (pubblicato dalla medesima editrice) consistono in una sintesi inscindibile, in un coerente composto chimico dove si aggregano molecole di sistematicità “ingegneristica” nella strutturazione dei copioni e molecole di libertà inventiva, trasfigurante e sublimante, nella loro lievitazione poetica, nella loro elevazione a livello d’arte. Il che avviene – ed è in effetti la maggioranza dei casi – anche là dove la poesia si veste, o traveste, da testo in prosa, senza la trama di una visibile versificazione. Si potrebbe in sostanza affermare, con ricorso alle due celebri categorie concettuali di Blaise Pascal, che la drammaturgia di Maura Del Serra si regge su una forma di conciliazione tra esprit de géometrie intellettuale ed esprit de finesse spirituale: un equilibrio variabile e perennemente mobile, una scommessa temeraria e tuttavia vitale, in grado anzi di attivare, sulla pagina scritta come sul palcoscenico, sinergie di suggestiva, emozionante efficacia.

Nell’intellettualità della drammaturga, nel suo “spirito geometrico”, s’inscrive l’ideale riferimento alla civiltà letteraria (poetica, filosofica, teatrale) dell’antica Grecia, segnatamente dell’Atene del V secolo a.C., e al corollario del successivo ellenismo. A quell’inestinguibile sorgente d’ispirazione Maura Del Serra, che anche (ma non solo) in virtù di questa passione ellenocentrica può essere considerata una discepola di Simone Weil, non per caso eroina dei suoi «due atti» d’esordio, La fonte ardente, guarda come al grembo materno della cultura occidentale. Senza peraltro obliterarne o minimizzarne un peccato mortale: la totalitaria egemonia maschile, inflessibile nel relegare la donna in una condizione di umiliante minorità, di frustrante marginalità, di ancillare subalternità. Il suo radicamento elettivo in quel superiore territorio del pensiero e dello spirito – appartenente a un passato “che non passa”, che rimane sempre attuale, o meglio sempre attualizzabile in forme letterarie – è concretamente attestato da diverse pièces: la «commedia drammatica» Agnodice, incentrata sulle peripezie trasgressive di una giovane donna poco propensa al matrimonio anche perché sospinta dalla sua vocazione scientifico-terapeutica all’esercizio di un’arte medica interdetta al genere femminile nell’Atene declinante del III secolo a.C.; Isole, «poema scenico» nel quale un “necrologio” a quattro voci, un ritratto postumo di Ulisse, alquanto irrituale, è fantasiosamente delegato, di fronte alla salma dell’eroe adagiata in una bara trasparente, alle quattro principali figure femminili che con lui interagiscono nell’Odissea: la madre Anticlea, la maga-amante Circe, la fedele sposa Penelope, l’innamorata vergine Nausicaa; Eraclito, che promuove a protagonista il filosofo presocratico del panta rhei, determinato a preservare la propria autonomia esistenziale e speculativa dal gorgo minaccioso dell’impegno politico.

Quand’anche non offra materia prima di drammatizzazione, la grecità classica non cessa di esercitare un influsso archetipico che si manifesta in vari elementi e meccanismi scenici: l’alternanza di prosa dialogica o diegetica e di squarci in versi, perlopiù (ma non in modo univoco) con funzione di commento corale, esattamente come negli insuperati modelli dei tragici e dei comici ateniesi; il ruolo tutt’altro che secondario assegnato pressoché ovunque alla musica, con l’evocazione di brani strumentali o vocali d’ogni epoca e tradizione, capaci di creare in sottofondo atmosfere in sintonia con i differenti contesti di ciascuna rappresentazione; più raramente (nel monologo Lo Spettro della Rosa, confezionato su misura per il mitico danseur Nijinskij, e soprattutto nel trittico Stanze Trasparenze Sensi) chiamando la danza a cooperare con il tessuto recitativo e con il soundtrack musicale. E, a tale proposito, non è superfluo ricordare quale importanza rivestissero, nell’impianto delle rappresentazioni teatrali durante il siglo de oro ateniese, le movenze danzanti dei coreuti, pregne di rituale simbolismo.

C’è poi anche un peculiare tratto espressivo di matrice classica che percorre, sia pure con minore evidenza, l’intera produzione di Maura Del Serra, prolungandosi dal corpus del Teatro fin dentro l’addendum dell’Altro teatro. È uno stilema che stende sul moderno dettato poetico-prosastico una patina di antica, se non ancestrale, icasticità per così dire analogica: il gusto, ereditato dall’epos greco-latino di Omero e Virgilio, oltre che dai capolavori della triade Eschilo – Sofocle – Euripide e dall’oracolarità di Pindaro e altri lirici a lui coevi, per la similitudine, la metafora, più latamente l’allegoria come chiave d’interpretazione transreale del reale. E proprio coniugando la propensione dell’Autrice al frequente impiego del linguaggio figurato con la sua competenza di raffinata musicologa, mi sento provocato a forgiare un paragone che probabilmente non le dispiacerà: la sua “macchina” teatrale mi sembra confrontabile con la struttura e il funzionamento di un organo. Due le tastiere, ciascuna estesa per cinque ottave. La prima sovrintende alla coordinata del tempo, cioè alla collocazione dei diversi plots in epoche storiche disparate, che secondo l’occasione possono proiettarsi da un’indefinita protostoria mitica alla contemporaneità del presente, passando attraverso l’antichità classica, il Medioevo, l’età moderna, il Barocco e l’Otto-Novecento, con qualche sconfinamento in un futuro fantastico, atemporale o extratemporale, assimilabile a una estensione supplementare, a una sorta di sesta ottava (in realtà inesistente in un organo normale). Alla seconda metaforica tastiera sono invece delegati gli spostamenti lungo la coordinata dello spazio, in funzione delle ambientazioni scelte ad hoc: Parigi, un borgo appenninico, il Messico coloniale, una piazza romana, la Russia del Quattrocento, l’Atene ellenistica, la Numidia e l’Italia nel corso del IV secolo d.C., la Ferrara rinascimentale, e così via. Ma si tenga anche presente che non di rado l’azione scenica è compressa in un ambiente chiuso, una stanza, una cella, dove gli eventi e i relativi scenari non sono visibilmente rappresentati bensì raccontati in presa diretta o in flasback, evocati dalla nuda parola del personaggio di turno eventualmente in dialogo con voci di comprimari fuori scena.

Seduta davanti alla “consolle” del suo strumento, la drammaturga-organista esegue dunque le sue partiture suonando su ambedue le tastiere. E ad intermittenza aziona i registri timbrici che producono gli “effetti speciali”. Vale a dire, fuor di metafora, le accensioni liriche, le vibrazioni elegiache (versificate o in prosa ritmica), le effusioni di un pathos ora controllato ora dirompente (amplificate anche dalle risonanze profonde di un equivalente verbale della pedaliera), gli stacchi o sottofondi propriamente musicali (siano essi strumentali o vocali), le minuziose, a volte martellanti ma sempre puntuali e mai ridondanti didascalie che scandiscono l’avvicendarsi delle battute caricandole del tono re­citativo ad esse più consono, oppure configurano i movimenti, la gestualità, la mimica degli attori con una sapienza tecnica e una sagacia psicologica che si sarebbe tentati di attribuire alla consulenza di un regista professionale. Mentre sono parte integrante dello stile di un’Autrice incline, in virtù dell’immensa esperienza accumulata prova dopo prova, ad avere una visione “totalizzante” del proprio lavoro.

Questa complessa orchestrazione, che si era polifonicamente dispiegata nei ventitré testi costitutivi del trentennale repertorio intitolato, tout court, Teatro, si ripresenta e riafferma nei cinque copioni integrativi che danno corpo e anima alla nuova, recente stagione dell’Altro teatro. Non senza varianti in parte prevedibili, in parte imprevedibili. Non senza un incremento significativo di sfaccettature capaci di arricchire ulteriormente il già multiforme poliedro delserriano. Riprende in altri termini a sfavillare la qualità, insieme contenutistica e stilistica, che Stefano Duranti Poccetti ha sintetizzato nell’endiadi «ampio spettro tematico ed elegante eclettismo espressivo».2

Può forse sorprendere il lettore, ma non certo sconcertarlo se ha una certa dimestichezza con la produzione precedente di Maura Del Serra, la posizione incipitaria, e dunque teoricamente privilegiata, che spetta in questo volume ai «quattro quadri» di Tecnostar. Sembra tuttavia probabile, in pratica, che tale prerogativa dipenda semplicemente dall’ordine cronologico di composizione all’interno della pentalogia riunita in Altro teatro. Non che la tematica sperimentale, para-fantascientifica, scagliata con profetica provocazione verso un futuro inquietante, più distopico che utopico, si configuri come un’innovazione priva di antecedenti. È sufficiente richiamare, volgendosi indietro, il «mito futuribile» che era stato inscenato in Guerra di sogni. Il «carattere» per l’appunto «futuribile e onirico-grottesco della pièce» annunciato nella Sinossi riproduce in effetti lo «sperimentalismo linguistico» (quanti ingegnosi neologismi coniati in entrambi questi impietosi divertissements!) che Giovanni Antonucci ha evidenziato nella sua analisi di Guerra di sogni.3 E, sia là sia adesso qui, si respira una medesima «atmosfera di pathos visionario», generata o quanto meno intensificata dalla prevalente ambientazione in uno spazio nudo, asettico, ipnotico. Come non pensare, per almeno qualche analogia, a maestri della science fiction “filosofica” quali George Orwell, Ray Bradbury, Anthony Burgess e, in una sua rara incursione fantastica nel genere teatrale, a Heinrich Böll, autore del dramma “apocalittico” Un sorso di terra?4

Con Tecnostar la fantasmagorica parascientificità futuristica di Maura Del Serra non conquista – non può conquistare – il primato nell’ambito del suo iridescente eclettismo. Ma assume di sicuro una maggiore rilevanza, una più stringente allusività allegorica. Diventa uno specchio dopotutto non così remoto, dove la dram­maturga proietta, con chiaroveggenza e preveggenza, le probabili degenerazioni di mali, vizi, pervertimenti, virus individuali e collettivi già annidati nel corpo di un’umanità globalizzata come la nostra, avulsa – salvo rare eccezioni – da ogni rigoroso codice etico, da ogni severo controllo morale. Quella che negli Anni Cinquanta-Sessanta veniva caratterizzata dall’economista J.K. Galbraith come «società opulenta» (affluent society), e che oggi il sociologo e politologo Luca Ricolfi qualifica come «società signo­rile di massa», minaccia di diventare, anzi è già diventata nella virtualità di Tecnostar (come si legge nella Sinossi), un’immorale, aggressiva «società iper-mediatica».

I cinque personaggi che interagiscono sulla scena rivelano, nella loro stessa onomastica, un retaggio di ascendenza mitologica influente sui loro rispettivi caratteri. Appaiono come maschere archetipiche ma, nel contempo, agiscono come individui dotati di spiccata – seppure patologica – personalità. L’intrecciarsi delle loro pulsioni egocentriche, il contrapporsi dei loro interessi “particulari”, l’ansia di autoaffermazione, il gioco dei reciproci ricatti generano dinamiche distorte e distorcenti. Innescano comportamenti grotteschi. Tutti credono di poter usufruire di un’assoluta autonomia d’azione. Invece sono tutti inestricabilmente annodati in «una famiglia mostruosa», invischiati in «un groviglio di ince­sti». Si amano e si detestano. Prima sognano, pianificano e poi si scontrano con una realtà beffarda che vanifica ogni loro delirante progetto. Ne deriva una satira sferzante dello star system, screziata (se mi si concede l’ossimoro) da un “serio” umorismo, che smaschera e trafigge l’edonismo sfrenato, i falsi miti, le trasgressioni, i peccati non certo veniali, le ossessioni, le chimere di tanta parte della nostra stessa contemporaneità. Tali sono la ricerca di un miracoloso elisir dell’eterna giovinezza, sviluppata dallo scienziato Sisifo, apparentemente in grado con un siero misterioso di «fermare il tempo che divora i suoi figli, la spirale che ci distrugge senza fine»; il culto di sé stesso fanaticamente praticato dall’artista multimediale Narciso, da un lato incapace di affrancarsi dalla morta per annegamento, dall’altro disponibile a un rapporto omoerotico proprio con lo scienziato che gli promette la vittoria contro l’invecchiamento; il folle innamoramento della top model anoressica Eco, figlia di Sisifo, per Narciso; il cinismo affaristico del giornalista Eolo, affamato di gossip, e della spregiudicata stilista Pandora, protesa all’inseguimento del successo mondano.

Attraverso i suoi meandri, la pièce ci conduce lungo piste ingannevolmente vere o fittizie, creando e dissolvendo situazioni ambigue tra sogno, immaginazione e realtà. E lo sparo e il grido che nell’ultimo quadro si odono provenire da fuori scena marcano un epilogo enigmatico, lasciando che lo sbocco dei molteplici intrighi tessuti fino a quel punto svapori nell’inafferrabilità di un finale «drammaticamente aperto». Calato il “buio”, viene spontaneo chiedersi: in un prossimo futuro ci attende uno stravolgimento di civiltà catastrofico, sempre più segnato da enormi, scandalose disuguaglianze tra ricchi e poveri (i “paria” di Tecnostar)? Oppure possiamo e potremo ancora stringere «tra le mani spezzate la corda di speranza»?

Dall’inizio alla fine dell’atto unico Zelda pazza di gloria la protagonista monologante, Zelda Sayre, moglie del celebre scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), rimane reclusa in una stanza all’interno della clinica psichiatrica di Asheville: l’ultima, dolorosa stazione di una via crucis di ricoveri resi necessari dall’aggravarsi di una forma di schizofrenia. Ha ormai quarantasette anni, è sopravvissuta al marito, non è più compos sui, ma è ancora divorata da una bruciante sete di amore: quello inebriante che ha goduto nei primi anni di matrimonio e subito dopo la nascita della figlioletta Scottina, quando lei e Francis erano la coppia più brillante e ammirata del jet set intellettuale nei “ruggenti” Anni Venti, prima in America e poi in Europa. E due splendide definizioni dell’eros che può divampare tra una donna e un uomo le pone in bocca Maura Del Serra. La prima calda di una luminosità incandescente: «Io voglio l’amore, quello che strappa i capelli e cammina nel fuoco, ma che sa anche vivere tra parentesi... chiusa, e poi spalancarla!». La seconda impregnata di fosco, struggente rimpianto: «L’amore è l’unica cosa, anche se a volte è un antro oscuro illuminato da torce fumose, come una stanza della tortura». Ecco, una stanza della tortura. Non pochi lettori del presente volume, suppongo, ricorderanno che questa immagine, coniata da Giovanni Macchia nel contesto di una sua penetrante interpretazione dell’arte scenica di Pirandello, divenne parte integrante del titolo di un memorabile saggio pirandelliano del grande francesista e italianista.5

In quella stanza neuropsichiatrica il lungo, articolato e movimentato monologo di Zelda si traduce in un atto di tortura, proprio come in tante pièces pirandelliane. Auto-tortura, anzitutto. Perché, nel rievocare il proprio vissuto dall’infanzia alla maturità, gli avvenimenti, gli incontri, i viaggi, le avventure, gli squilibri della psiche, la donna non può che tormentarsi («nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», ha scol­pito Dante immedesimandosi nell’eterna infelicità di Francesca).6

Ma a torturarla, a elevare al quadrato la sua sofferenza retrospettiva nell’arco di un esteso flashback esistenziale, si aggiunge – fantasma della sua mente offuscata – la voce dialogante, ora suadente ora urticante, di un’Ombra: quella di Francis, silhouette appena visibile al di là di un telo semitrasparente steso a rivestire la parete di fondo. Senza mai pervenire a un contatto, l’Ombra di Francis sembra accompagnare la moglie in un’anamnesi, in un percorso memoriale compiuto, non solo metaforicamente ma anche letteralmente, a passi di danza attraverso il palcoscenico. In tal modo, infatti, Maura Del Serra intende conferire un rilievo “plastico” al profilo di Zelda come aspirante danzatrice, pervasa da una passione coreutica che le suggerì per la propria autobiografia il titolo Lasciami l’ultimo valzer.

A una danza somiglia anche il succedersi delle località rag­giunte e abitate dalla coppia Francis-Zelda durante un’inquieta, frenetica itineranza: New York, Parigi, la Costa Azzurra, l’Italia in lungo e in largo, di nuovo gli States. Il rapporto fisico, il godimento della sessualità tra i due sposi, all’apice della loro happiness, viene esso stesso attratto nella vertigine di questo “immaginario” danzante: «Fare l’amore con lui è come ballare su onde di champagne». E ballabile potrebbe risultare persino la virtuale “colonna sonora” predisposta dall’Autrice in caso di rappresentazione: tunes di George Gershwin, Cole Porter, Benny Goodman, Louis Armstrong, Edith Piaf...

Ma non sempre si tratta di una danza esaltante. Anzi: tra reciproche recriminazioni dettate perlopiù dal morso della gelosia, Zelda lotta per rivendicare, di fronte a sé stessa, al simulacro del marito e agli eventuali spettatori, una propria indipendenza culturale e morale sottratta alla soffocante subalternità servile in cui lamenta di essere stata relegata dal maschilismo di Francis e del milieu da loro frequentato. All’egocentrismo del coniuge contrappone il proprio inappagato, nostalgico affetto per la figlioletta Scottina, che il padre ha voluto tenere lontana dalla madre malata. Assume di conseguenza uno speciale valore simbolico il coup de théâtre escogitato per potenziare la scena conclusiva: l’aborrita infermiera della clinica, rabbiosamente respinta più volte, si toglie da ultimo la maschera, rivelando allo sguardo incredulo di Zelda il volto di Scottina.

È, questo del dialogo in uno spazio chiuso con un’Ombra appena percettibile (altrove solo con una o più voci prive di corrispettivo visibile) che parla da oltre il confine della scena mentre magari esegue lievi movimenti allusivi, un escamotage ampiamente collaudato lungo l’itinerario drammaturgico di Maura Del Serra. Al punto che lo si può classificare come un pilastro, una compo­nente essenziale di un modulo tra i più ricorrenti nel suo teatro: il monologo autobiografico, che con rispetto immune da timore reverenziale è stato “cucito” addosso a personaggi di grande prestigio culturale come il ballerino e coreografo Vaclav Nijinskij (Lo Spettro della Rosa) o addirittura a un’icona del nostro Novecento letterario come Pier Paolo Pasolini (Trasumanar), sul fondamento di un’accurata indagine documentale circa i rispettivi percorsi esistenziali. L’immedesimazione con il/la protagonista di questo originale ”format” biografico-teatrale, con la sua psicologia, il suo linguaggio, le sue vicende, parrebbe peraltro conseguire gli esiti migliori quando sulla scena viene convocata una figura femminile, nello specifico – sempre restando entro il perimetro della raccolta edita nel 2015 – la talentuosa scrittrice neozelandese Katherine Mansfield (Kass) e Rebecca, la ragazza tanto fisicamente sgraziata quanto intellettualmente e sentimentalmente dotata, che campeggia al centro del copione scaturito da un adattamento del romanzo La vita accanto di Mariapia Veladiano.

A spiegare la predominante inclinazione dell’Autrice a identi­ficarsi con un personaggio femminile si possono addurre svariate motivazioni. Entra sicuramente in gioco una forma di solidarietà per così dire “interfemminile”, fondata su una genetica affinità in termini di sensibilità, intelligenza del cuore (oltre che del cervello), generosità, dedizione, sollecitudine istintivamente materna. Concorre poi al costituirsi di questa predilezione poetico-drammaturgica per i destini di donne dal coraggio pari alla sostanziale sfortuna una più approfondita conoscenza di “opere e giorni” che le connotano: una “cognizione” del loro “dolore” talora mediata, ove si tratti di scrittrici, dalla traduzione in prima persona di loro libri significativi; ed è evidente che l’impegno a tradurre fedelmente e a ri-creare in italiano un’opera letteraria conduce ad esplorare in maniera incomparabile l’interiorità, le “viscere spirituali” di un autore, meglio ancora di un’autrice (come nei casi di suor Juana Inés de la Cruz, Simone Weil, Katherine Mansfield).

Potremmo inoltre puntare l’attenzione su un elemento che traspare con evidenza anche là dove i ruoli femminili risultano formalmente secondari, subalterni rispetto alla virilità egemone dei protagonisti. Alludo alla convinzione, implicitamente espressa da Maura Del Serra e senz’altro condivisibile anche da parte di lettori e spettatori di sesso maschile, che la donna sia in generale un soggetto più efficacemente “teatrabile”. Al di là dell’aspetto, non necessariamente attraente (esiste anche una bellezza che trascende la fisicità: si veda la già citata Rebecca di La vita accanto), e al di là dell’eventuale carica di sensualità, è indubbio che la donna possieda doti superiori in proiezione scenica, in quanto più problematica per indole, più profonda per spiritualità, più fluttuante per psicologia, più “fibrillante” per emotività.

Tutte queste considerazioni si possono plausibilmente riassumere e concentrare in quello che mi piacerebbe definire “fattore Antigone” (con non intenzionale ma neppure incidentale allusione alla sigla della collana che ospita sia il Teatro sia l’Altro teatro). Lo spunto mi proviene in parte da un’osservazione di Stefano Duranti Poccetti, recensore del primo volume delserriano: «Se questo teatro può apparire permeato da una certa letterarietà, essa si esaurisce in talune forme espressive, peraltro assai efficaci nel mostrarci una sostanza e un ductus da teatro classico, quasi sofocleo».7 C’è appunto qualcosa di sofocleo, di antigonesco nell’ispirazione complessiva, nell’elevatezza morale, nella nobiltà comunicativa (persino quando esplodono invettive) con cui la Del Serra plasma queste “statue viventi” di eroine solitarie, ideali sorelle della figlia di Edipo imprigionata in un carcere sotterraneo e tuttavia indomabile nel suo anelito di giustizia e di tutela del sacro; guerriere disarmate in combattimento anch’esse per la loro emancipazione culturale e per la loro dignità sociale, contro l’oppressione liberticida, la hybris di un potere gestito da un maschilismo intransigente, crudele e ipocrita. Che cosa incarnano, con differenti sfumature, le varie Weil, suor Juana, Agnodice, Mansfield, Scintilla, Isadora, Zelda, Milena, se non «il senso di una umanità sofferta fino ad una mistica, inattuale follia?».8

Follia inattuale, certo, furiosamente controcorrente nell’individualità delle singole eroine rispetto al loro contesto storico. Ma, per paradosso, follia attuale come simbolo di reazione all’odierna crisi antropologica conseguente al naufragio delle ideologie e delle idealità; come emblema di resistenza al decadimento di un genere umano messo, in questo ambiguo e non solo climatico cambiamento d’epoca, di fronte a un bivio drammatico nella prospettiva di un futuro ormai incombente: aut una catastrofe planetaria (dal punto di vista di una maggioranza agnostica ma non irresponsabile) aut una palingenesi universale (nella visuale di una minoranza armata di fede eroica in Dio e nell’uomo).

Una paladina dei diritti civili al femminile, una ricercatrice di conoscenza, verità e giustizia è anche Milena Jesenská, giornalista, scrittrice e attivista politica di stampo libertario, sentimentalmente legata a Franz Kafka, sua traduttrice dal tedesco al ceco e destinataria di un cospicuo flusso di corrispondenza indirizzatole dal grande scrittore praghese di stirpe ebraica.9 Anche lei, in Baci scritti per Milena, è confinata, in apertura e in chiusura della pièce, entro una “stanza della tortura”. E che tortura! La donna, quarantottenne, è imprigionata nel lager femminile di Ravensbrück, dove finirà la sua amara giornata terrena nel maggio del 1944.

E, nel corso di un flashback risalente alla sua giovinezza, la reclusione nel campo di concentramento si trasforma temporaneamente nella clausura in un manicomio che ricalca la segregazione di Zelda nella clinica psichiatrica di Asheville. Ma, a differenza di Zelda, la Milena ricostruita in questo copione non rimane isolata sulla scena. Non si limita a udire la sola voce del suo amato deuteragonista o tutt’al più a intravederne confusamente la sagoma. Troppo intrisa di drammaticità continua ancora oggi ad apparire, attraverso il suo lascito letterario e il suo nutrito epistolario, la figura di Kafka perché un’intelligenza teatrale così acuta ed engagée come quella di Maura Del Serra possa rinunciare alla sfida di far interagire il tormentato Franz con la donna altrettanto tormentata che maggiormente incise sulla sua personalità.10

Ed eccoli dunque uno di fronte all’altra i due amanti, impegnati in un dialogo colmo di angoscia. Franz giace, ormai agonizzante, sul letto della camera di sanatorio dove si spegnerà stroncato dalla tubercolosi. Milena invoca un suo impossibile intervento liberatorio da oltre la recinzione di filo spinato che delimita il lager in cui è stata internata, ignara compagna di sventura di altre donne intellettualmente eccelse, vittime al pari di lei dell’abominevole persecuzione nazista: in primis Edith Stein ed Etty Hillesum. Si tratta, com’è evidente, di un arbitrio cronologico, di una “licenza poetica”, poiché Kafka era deceduto vent’anni prima, nel 1924. Ma è proprio dal loro disperato, visionario confronto in limine mortis che può emergere per intervalla insaniae, cioè in un lucido delirio scandito da episodi in maggioranza rivissuti insieme e insieme rappresentati sulla scena a colpi di flashback, la commemorazione, ora gioiosa ora straziata, del loro rapporto amoroso: un idillio impervio, lei essendo coniugata e incline all’infedeltà, lui consacrato all’attività letteraria con una dedizione ossessiva, assoluta, prioritaria (quasi ad invertire i termini del motto latino primum vivere, deinde philosophari).

Sono momenti alternativamente esaltanti oppure deprimenti, fusioni di corpi e anime seguite da inesorabili lacerazioni. Applicando con successo la stessa tecnica adottata precedentemente in Zelda, quei lacerti esperienziali l’Autrice li fa turbinare nell’immaginazione dei due personaggi – siano essi nitidi ricordi o sfuocate reminiscenze – come fiocchi di neve agitati dal vento di una tormenta interiore. O come tessere vorticanti di un mosaico frantumato da una scossa sismica. E vani risultano i tentativi messi in atto da entrambi gli interlocutori per ricomporre i rispettivi frammenti di vita in un quadro unitario, coerente, provvisto di un significato non caduco né solo postumo. La “notte dell’intelletto” sembra non avere mai fine.

Occorrerebbe, forse, il salto di qualità della fede. Quella fede che qua e là trapela dagli interludi del Coro delle Prigioniere, capace di esprimere in sequenze poetiche di respiro “sofocleo” un misticismo laico, un messaggio paradossale di fiducia nella potenza dell’amore, formulato in chiave addirittura lirica: «Noi, dell’amore, / col cuore a forma di cella ardente / o di altare segreto». Il monito che il Coro lancia poi in uno “stasimo” tra i più intensi ha una valenza etico-politica che fa sussultare il lettore odierno per la sua attualità:

Nel tempo sordo in cui i profeti

tacciono disprezzati o balbettano feriti,

i lager sono nelle coscienze

intossicate dall’odio, sono in tutte le menti

asservite alla brama di potere

che narcotizza i cuori.

Eppure nell’epilogo balena, evocato dalle voci profetiche di quelle donne materialmente condannate alla schiavitù e alla morte ma spiritualmente libere, un segno di speranza, un presagio che rincuora: l’epifania di un’arcana civetta, simbolo della sapienza di Atena, annunciatrice di una nuova alba di salvezza.

Alle voci anonime di prigioniere risuonanti dalla bocca tenebrosa del lager subentrano le anonime Voci dei nessuno appartenenti ad altri prigionieri di entrambi i sessi che si rivelano però essere comuni detenuti. Siamo chiaramente in presenza di un interessante esperimento di riduzione all’essenziale, imperniato su una sorta di grado zero della rappresentazione: una sequenza di venticinque casi giudiziari che coincidono con altrettante micro-autobiografie meramente verbali, recitate in alternanza, come in un moderno amebeo, da una Donna e da un Uomo innominati. Ciascuno dei due assume di volta in volta l’identità di una/un delinquente con il fardello di una pena da scontare in carcere per aver commesso un reato più o meno grave: omicidio, rapina, collusione con la mafia, corruzione, traffico di minori o ancora altri crimini appena tratteggiati, come avvolti in un velo di reticente pudore.

Sono flashes di estrema pregnanza, che in poche righe condensano vite segnate dal deragliamento nell’illegalità; profili caratteristici e caratterizzanti seppure in parte sfuggenti, diversamente emblematici della dura, talora disumana condizione carceraria; confessioni in pubblico dai toni mutevoli: aspre, violente, risentite, sprezzanti, disincantate; sfoghi dai quali sprizzano a tratti zampilli di umanità vulnerata, umiliata e sofferente, bisognosa di redenzione non soltanto sociale ma anche morale. Da un punto di vista tecnico-strutturale spiccano, demandati agli interventi di un’enigmatica Eco, gli aforismi che, in rima con la clausola di ciascun “autoritratto”, vi imprimono un fulmineo sigillo sapienziale.

Con Torquato Tasso Maura Del Serra si inoltra in un territorio per lei finora incognito del continente teatrale: quello del libretto d’opera. Come fonte d’ispirazione e termine di paragone per l’argomento le si è offerto l’omonimo dramma in versi al quale J.W. Goethe a lungo lavorò, prima a Weimar sotto l’influsso del legame al tempo stesso intellettuale e sentimentale con la sua colta “ninfa egeria”, Charlotte von Stein, poi durante il viaggio d’iniziazione in Italia, e infine di nuovo nella maturità della seconda permanenza alla corte del duca Carl August. Va comunque sottolineato che, se da un lato questo libretto del Torquato Tasso sancisce per l’Autrice l’esordio nell’inedita chiave operistica, per un altro verso esso segnala il recupero e il rilancio di un filone storico-critico a lei particolarmente congeniale, il riemergere di una vena creativa che ha donato al pubblico dei lettori e/o degli spettatori alcune gemme custodite nello scrigno del Teatro 1985-2015: mi riferisco a La Fenice (in poesia integralmente versificata, proprio come il Tasso), Andrej Rubljòv, Scintilla d’Africa.

Il rovello prodotto dall’inesauribile e sempre insoddisfacente processo di revisione, limatura, perfezionamento del poema-capolavoro, La Gerusalemme liberata; il disagio connesso alla posizione di cortigiano e dunque anche alla dipendenza economica dalla prodigalità dell’ospitante Duca di Ferrara; il tormento dell’anima e dei sensi nell’estenuante relazione amorosa con l’aristocratica sorella di Alfonso II, la Principessa Eleonora: queste le tre principali cause che concorrono a scatenare i sintomi dell’incipiente patologia psichica dell’insigne poeta. Ed è fin troppo facile osservare che la pazzia costituisce un tema al quale Maura Del Serra ha già prestato non poca attenzione e non poca maestria drammaturgica in sue precedenti performances, da Lo Spettro della Rosa (Nijinskij) a La Torre di Iperione (Hölderlin, Nietzsche) a Zelda. Ancora una volta, insomma, scatta una speciale forma di empatia che la scrittrice nutre verso quegli artisti, poeti, filosofi che per eccesso di genialità osano “trasumanare”, travalicare cioè, in un’ossessiva ricerca di perfezione, il limite dell’umana finitudine e corrono così incontro all’abbraccio della follia.

Ma più della progressiva alienazione mentale di Torquato, più delle scintille che scoccano fra lui, il Duca e il potente, intrigante Segretario di Stato, Antonio Montecatino, ad affermarsi come meccanismo propulsore del dramma è la larvata rivalità, se non addirittura ostilità, in atto fra le due donne attratte entrambe dal fascino ombroso del poeta (a conferma della supremazia del codice femminile nelle dinamiche drammaturgiche di Maura Del Serra). L’una, Eleonora Sanvitale Contessa di Scandiano, mira piuttosto a un’appropriazione erotica; l’altra, la Principessa Eleonora, si innalza e intende innalzare l’amato a un livello (giusto per riecheggiare il lessico goethiano) di sostanziale “affinità elettiva”. Come ultima sottolineatura, meritano quanto meno un cenno la sapienza e il virtuosismo tecnico sottesi alla peculiarità della versificazione, costellata di rime esterne e interne: un tessuto di suggestiva, cangiante flessibilità che ben dovrebbe coniugarsi, nella concretezza del teatro d’opera, con le melodie e le armonie del canto lirico.

In sede di ricapitolazione, di bilancio provvisorio relativo a quest’ultimo quinquennio di lavori concepiti tanto per la lettura quanto per la messa in scena, molte altre osservazioni di carattere riassuntivo si potrebbero aggiungere a quelle fin qui esposte in forma analitica. Dovendo però racchiuderle ormai in un’estrema sintesi critica, opterei per una formula forse riduttiva ma complessivamente calzante: continuità nella maturità. Vero è che un importante elemento di discontinuità distingue la recente operosità dell’Autrice dall’impostazione che contrassegnava il precedente trentennio: la dimensione del sacro non ha più, oggi, lo spazio, il rilievo, l’incidenza di cui ha goduto in passato. Non che la religiosità di Maura Del Serra si sia inaridita. Né certamente ha conosciuto riduzioni, ripiegamenti o derive secolaristiche. Direi piuttosto che si è fatta meno esplicita. Ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore (ipsa scripsit) di una «pietas civile e culturale». Immergersi più laicamente nelle vie e negli angiporti del mondo. Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini (in quest’ordine preferenziale) che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza quotidiana. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta. A guidare personaggi e vicende verso la «percezione del sensibile e del sovrasensibile, al fine di riconoscere le origini dei fenomeni, dei valori umani, del bene e del male, della verità intrinseca all’amore e alla giustizia».11

A ben vedere, l’attuale orientamento drammaturgico di Maura Del Serra, scrittrice di limpida ispirazione cristiana, si avvicina all’atteggiamento che negli Anni Ottanta/Novanta del secolo scorso suggerì al cardinale Carlo Maria Martini l’ideazione e la conduzione, a Milano, della “Cattedra dei non credenti”: un luogo di riflessione, dialogo, dibattito su grandi temi esistenziali, civili e religiosi, un’agorà aperta senza discriminazioni a credenti e non credenti, purché pensanti. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, anche Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni», secondo la preghiera poetica del Salmo 89 (90), per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Marco Beck

1 La simbiosi di scrittura poetica e scrittura drammaturgica nell’opera di Maura Del Serra è stata autorevolmente certificata e sottolineata da Mario Luzi: «Il teatro di Maura Del Serra […] procede parallelamente alla sua lirica, ma proviene dalla stessa radice e si nutre dello stesso difficile e infuocato paragone di conoscenza inseguita e di rivelazione avuta e sempre nuovamente attesa, nel desiderio di una sospirata unità» (nota di commento a La Fenice, in: M. Del Serra, Teatro, Petite Plaisance, Pistoia 2015, p. 833).

2 Recensione al Teatro di M. Del Serra, in «Sipario», nn. 793-794, 2016.

3 Nel contesto dell’Appendice critica che integra il Teatro di M. Del Serra, op. cit., p. 844.

4 H. Böll, Un sorso di terra, trad. di Hansi Cominotti, Einaudi, Torino 1964 (titolo originale Ein Schluck Erde, 1962).

5 G. Macchia, Pirandello o La stanza della tortura, Mondadori, Milano 1981.

6 Dante Alighieri, Inferno V, 121-123.

7 In «Sipario», nn. 793-794, 2016, op. cit.

8 Antonio Calenda, Introduzione a: M. Del Serra, Teatro, op. cit., p. 12.

9 Se ne può leggere un’eccellente traduzione a cura di Ferruccio Masini in un “Meridiano” di Mondadori edito nel 1988: F. Kafka, Lettere, comprendente le sezioni Lettere sparse, Lettere a Milena, Lettere a Ottla. È poi uscita di recente un’edi­zione critica delle sole Lettere a Milena, curata da Guido Massino e Claudia Sonino (Giuntina, Firenze 2019).

10 L’esasperata drammaticità esistenziale e letteraria di Kafka ha ispirato anche una «inchiesta scenica» ad alto tasso di surrealtà e visionarietà “kafkiane”, per la quale a Italo Alighiero Chiusano venne assegnato postumo il Premio Ugo Betti nel 1995: Consideratemi un sogno (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997). Sorprendentemente, però, tra i personaggi che interloquiscono con Franz (il Gregor Samsa della Metamorfosi, il padre e la madre, Max Brod, Felice Bauer, il medico Klopstock) non trova spazio Milena.

11 A. Calenda, Introduzione a: M. Del Serra, Teatro, op. cit., p. 9.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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