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Cat.n. 344

Rodolfo Mondolfo

Alle origini della filosofia della cultura. Introduzione di Renato Treves.

ISBN 978-88-7588-264-8, 2020, pp. 224, formato 140x210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [116].

In copertina: La Metopa di Atlante del Tempio di Zeus a Olimpia (460-450 a.C. circa). Olimpia, Museo Archeologico.

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20,00

Rodolfo Mondolfo

Prefazione alla prima edizione argentina

I saggi raccolti in questo libro, sebbene siano stati scritti in occasioni diverse, hanno lo scopo comune di porre in luce alcuni antecedenti (più o meno lontani) della formulazione dei problemi, che hanno dato origine ai nostri giorni alla così detta «filosofia della cultura». Connessa, nel suo orientamento sistematico attuale, alle teorie dei valori, questa filosofia rivolge la sua indagine al complesso organico delle creazioni fatte dallo spirito umano durante tutto il corso del suo sviluppo storico (società, costumi, linguaggio, religione, economia, tecnica, arte, scienza, filosofia, ecc.): ciò che Hegel chiamava «lo spirito oggettivo», e che oggi si denomina «cultura», creazione dell’umanità, che si traduce in atmosfera vitale della sua esistenza presente e della sua azione storica ulteriore.

L’interesse e l’impulso dell’indagine intorno a questo oggetto, secondo l’opinione più autorevole e diffusa, ed espressa dagli stessi filosofi della cultura, si sarebbero destati solamente nella nostra epoca: e, indubbiamente, bisogna arrivare fino ai nostri giorni, per trovare una formulazione organica e completa dei problemi relativi a questo tema.

Ma qualsiasi novità, in qualunque aspetto della vita umana, ha sempre i suoi germi e le sue radici nella vita anteriore, senza dei quali non si possono spiegarne né comprenderne adeguatamente la nascita e lo sviluppo. E così pure, per ciò che riguarda queste indagini filosofiche sulla cultura, si possono cercare presentimenti e antecedenti antichi, il cui interesse non si basa solo sulla luce che la loro conoscenza proietta su qualche aspetto o elemento della nostra storia passata, ma anche sulla dimostrazione, che essa ci offre, del principio di continuità storica, che rende più chiare e intelligibili le nostre caratteristiche attuali, vincolandole al loro processo di formazione. E inoltre, la conoscenza di codesti presentimenti e antecedenti antichi può portarci (come spero di aver dimostrato) all’eliminazione del paradosso costantemente affermato dalla storiografia tradizionale, secondo cui l’uomo pensante avrebbe cominciato ad interessarsi di ciò che è più lontano ed estraneo, prima che di ciò che è più vicino e proprio alla sua esistenza, delle stelle, prima che della sua stessa vita.

Università di Cordoba, 1942.

Rodolfo Mondolfo

Questa edizione italiana corrisponde alla seconda edizione spagnola – in corso di stampa presso le Ediciones Imán di Buenos Aires accresciuta rispetto alla prima di tre capitoli aggiunti.

Buenos Aires 1955.

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Renato Treves

Rodolfo  Mondolfo e la filosofia della cultura

Nel breve periodo che comprende l’ultima fase della guerra civile spagnola e i primi anni della seconda guerra mondiale fino all’avvento della dittatura peronista, la vita intellettuale argentina è stata animata da un fervore di lavoro, da un desiderio di progresso e da un entusiasmo creativo che non hanno potuto non colpire e non destare una sincera simpatia in chi è stato condotto dalle circostanze ad inserirsi e a partecipare attivamente ad essa. In quegli anni drammatici in cui le forze nazi-fasciste erano riuscite ad abbattere, dopo eroica resistenza, la Spagna repubblicana e socialista e avevano poi invaso e soggiogato con fulminea rapidità i più progrediti paesi d’Europa e la stessa Francia, che pareva costituisse il più valido baluardo contro l’irrompere di quelle forze, gli intellettuali argentini, col proprio comportamento, davano infatti chiara l’impressione di sentire tutto il peso delle proprie responsabilità e di volersi seriamente impegnare in un’opera di indubbio valore e di profondo significato.

Più esattamente, si può dire che in quel breve periodo coloro che costituivano la classe intellettuale di quel popolo giovane che, all’inizio del secolo scorso, aveva conquistato la propria indipendenza inneggiando agli immortali principi proclamati dalla Francia rivoluzionaria, davano delle prove sempre più evidenti e sicure del loro preciso proposito di voler difendere ad ogni costo quei principi immortali e di voler continuare e intensificare nella propria terra quell’opera di rinnovamento culturale e politico che gli spagnoli da alcuni anni avevano iniziato e sviluppato con successo nella madre patria, ma che ormai avevano dovuto abbandonare per il sopravvento delle forze della reazione. E questo proposito di diventare, in certo modo, eredi e continuatori della cultura spagnola anteriore alla dittatura di Franco, risultava chiaro dalla cordialità con cui gli intellettuali argentini avevano accolto i loro colleghi spagnoli rifugiatisi in America dopo la sconfitta delle armi repubblicane; cordialità che si manifestava con l’istituire per loro nuove cattedre universitarie, col richiedere la loro collaborazione in riviste e giornali e col partecipare alle loro iniziative nei campi più diversi e soprattutto in quello editoriale. Più ancora che da questa accoglienza cordiale e da queste manifestazioni esteriori, il legame che manteneva unita la classe intellettuale argentina a quella spagnola si rivelava poi chiaramente nell’identità di tendenze speculative e di interessi politici, scientifici e letterari. Gli intellettuali argentini erano infatti orientati e preparati a continuare l’opera iniziata dagli spagnoli perché da parecchi anni avevano seguito e sostenuto quella stessa corrente di pensiero a cui si richiamavano gli spagnoli che, raccolti attorno alla Revista de Occidente diretta da Ortega y Gasset, dimostravano tutti la loro simpatia per Dilthey, Simmel, Weber, Scheler e molti altri filosofi, specialmente tedeschi, i quali potevano essere genericamente considerati come appartenenti alla così detta filosofia della cultura.

Nel periodo di cui parliamo, per gli argentini e per gli spagnoli, questa filosofia rispondeva infatti ad alcune esigenze fortemente sentite: il bisogno di respingere le concezioni teologiche e metafisiche che avevano dominato nei due paesi nell’epoca in cui l’Argentina era ancora una colonia; il desiderio di superare il materialismo e il positivismo naturalistico che avevano ispirato il pensiero e l’azione delle classi dirigenti dopo la conquista dell’indipendenza; soprattutto la diffidenza esplicita per i grandi sistemi che pretendono di possedere l’assoluto e di dare la soluzione definitiva dei problemi ultimi e l’interesse, non meno esplicito, per i problemi relativi alla vita degli uomini, alla loro storia, ai prodotti della loro attività (linguaggio, religione, arte, tecnica e così via) che costituiscono quello che oggi si chiama appunto mondo della cultura e che può anche chiamarsi in termini hegeliani spirito oggettivo. E questo interesse e questa diffidenza, insieme uniti, non conducevano però, è bene dirlo, gli intellettuali spagnoli ed argentini che seguivano la filosofia della cultura verso lo scetticismo, ma li conducevano piuttosto verso il «prospettivismo» di cui parlavano Ortega y Gasset e altri sostenitori di questo indirizzo; li conducevano cioè verso quella concezione filosofica per la quale la realtà non è alcunché di unitario e di immobile con una fisionomia propria indipendente dal punto di vista da cui la si considera, ma è, al contrario, alcunché di molteplice, di variabile che può esser colto solo da un determinato punto di vista e che presenta quindi «infinite prospettive, tutte egualmente vere e autentiche» fatta eccezione soltanto per quella che «pretende di essere l’unica vera» e che, per questa sua pretesa, è invece l’unica indubbiamente falsa.

In un ambiente animato dalle tendenze politiche e filosofiche ora indicate, è assai facile rendersi conto dell’interesse e del favore con cui venne accolta la notizia che fra gli intellettuali italiani, che a causa delle leggi razziali avevano deciso di abbandonare il proprio paese e di trasferirsi in Argentina, ci sarebbe stato Rodolfo Mondolfo. Il Mondolfo era infatti assai noto agli argentini cultori di studi filosofici e politici e questi erano concordi nell’apprezzare la profondità dell’indagine, l’equilibrio del giudizio e la chiarezza dell’esposizione che risultavano evidenti nei suoi numerosissimi scritti fra i quali conoscevano soprattutto, per ciò che riguarda il pensiero antico, L’Infinito nel pensiero dei Greci e i due primi volumi dell’edizione italiana de La filosofia dei Greci dello Zeller, per ciò che riguarda il pensiero moderno, Il materialismo storico in F. Engels e i saggi compresi nei due volumi Sulle orme di Marx, saggi dei quali uno, quello su Feuerbach e Marx, era stato tradotto in spagnolo e pubblicato pochi anni innanzi da una nota casa editrice di Buenos Aires.

Oltre che nella ristretta cerchia degli studiosi, il Mondolfo era anche favorevolmente conosciuto in un ambiente più vasto: nell’ambiente degli italiani antifascisti e di quegli argentini discendenti di italiani che, per tradizione familiare, erano rimasti fedeli agli ideali democratici e repubblicani del nostro Risorgimento e non si erano lasciati sedurre dalla propaganda politica che da anni le nostre rappresentanze diplomatiche conducevano in Argentina con ampi mezzi e col valido appoggio della parte più ricca e influente della colonia italiana. Gli antifascisti residenti in Argentina sapevano infatti che il Mondolfo era uno studioso illustre, un emi­nente professore dell’Università di Bologna, che non giungeva in terra americana come inviato del governo o del partito fascista, ma vi giungeva invece come perseguitato da quel governo e da quel partito al quale ultimo non aveva mai appartenuto e per il quale, anzi, fin dal suo sorgere, aveva dimostrato la sua profonda avversione. A tale proposito, essi potevano ad esempio ricordare il suo scritto del 1922, Per la comprensione storica del fascismo, nel quale, tra l’altro, egli aveva rilevato come quel movimento che pretendeva difendere l’autorità dello Stato in realtà la negava sostituendosi ad esso e facendo prevalere in esso i proprii interessi di parte e come quello stesso movimento che dichiarava «di insorgere contro le tirannie rosse per la restaurazione della libertà», in realtà «non ammetteva che ci fosse libertà di pensiero, di parola, di stampa, di associazione per i seguaci delle dottrine nemiche».

Gli antifascisti residenti in Argentina potevano ricordare inoltre che quello scritto costituiva l’introduzione alla raccolta Il fascismo e i partiti politici edita dal Cappelli e diretta dal Mondolfo che ebbe inizio nel 1921 e che ebbe termine nei 1924 con la coraggiosa pubblicazione de La rivoluzione liberale di Piero Gobetti. E di quella raccolta, che fu fatta poi scomparire dalla circolazione, essi potevano infine ricordare che faceva parte anche La contro-rivoluzione preventiva di Luigi Fabbri, dell’anarchico marchigiano discepolo e continuatore del pensiero e dell’opera di Enrico Malatesta il quale godeva di grande notorietà negli ambienti antifascisti dell’America latina per aver trascorso in quei paesi lunghi anni d’esilio e perché il ricordo del suo nome e del suo insegnamento erano mantenuti sempre vivi dalla figlia, Luce Fabbri, che continuava a pubblicare in Montevideo gli Studi Sociali fondati dal padre, e che all’Università di Bologna era stata allieva del Mondolfo e da lui affettuosamente assistita fino al momento in cui, sfuggendo al controllo della polizia, prese essa pure la via dell’esilio. E non meno che dagli antifascisti residenti da anni nell’America Latina, il Mondolfo era ben conosciuto ed apprezzato anche da quegli antifascisti spagnoli, reduci dalla guerra civile, che, quasi contemporaneamente a lui, avevano cercato un rifugio in terra americana. Molti di essi, come Diego A. De Santillán, avevano infatti combattuto in Catalogna a fianco della colonna italiana di Carlo Rosselli e ben sapevano che il Rosselli, che tanto ammiravano, nel suo libro Socialismo liberale aveva ampiamente discusso l’opera del Mondolfo, «carattere sereno e conciliante di studioso», e aveva dichiarato che quell’opera «costituisce in tutti i tempi lo strumento maggiore, per non dire l’unico, dell’educazione marxista delle nuove generazioni italiane».

Tutti costoro, intellettuali e antifascisti, che attendevano con desiderio l’arrivo del Mondolfo, quando lo conobbero personalmente e videro come iniziò la propria attività in Argentina, pote­rono facilmente rendersi conto del fatto che il contributo che egli avrebbe apportato alla cultura di quel paese e di tutta l’America latina sarebbe stato di grande valore, di un valore forse superiore ad ogni aspettativa. Il Mondolfo non giunse infatti in Argentina col sussiego e il distacco che caratterizzano molti dotti europei quando prendono contatto con l’ambiente culturale latino americano, ma vi giunse invece, dirò così, con l’umiltà e l’ardore propri dell’emigrante che conosce bene il proprio il mestiere e che non ha altro proposito al di fuori di quello di esercitarlo alacremente nel paese che gli ha offerto quella possibilità di lavoro che gli è venuta a mancare in patria. E siccome il mestiere del Mondolfo era quello dell’insegnamento, egli, fin dai primi giorni del suo arrivo, si è dedicato ad insegnare con un calore, un’intensità e un’efficacia che, come dissi, superavano tutte le previsioni.

Il libro che qui presentiamo è, in certo modo, una prova, una testimonianza significativa di questo suo insegnamento. Al primo contatto con l’ambiente che l’aveva accolto, egli comprese infatti che le aspirazioni più sane e le esigenze più vitali degli argentini erano quelle che li conducevano verso la filosofia della cultura e, con alcune conferenze e articoli raccolti appunto in questo libro, egli cercò di spiegare loro quali fossero le origini di questa filo­sofia affinché meglio ne potessero intendere il significato e più esattamente potessero misurarne la portata. Francisco Romero, il più autorevole studioso di filosofia dell’Argentina, aveva pubblicato poco prima dell’arrivo del Mondolfo, un lucido saggio su Los problemas de la filosofia de la cultura e, prendendo lo spunto da questo saggio, il Mondolfo, pur ammettendo che questa filosofia può costituire una novità perché solo in tempi recenti sono stati considerati in modo sistematico e completo i suoi problemi, av­verte però che l’interesse per i medesimi e il loro approfondimento non sono totalmente nuovi e che si possono trovare dei precedenti della filosofia della cultura in tutta la storia del pensiero risalendo fino ai tempi più antichi.

Così, svolgendo un’ampia analisi del primo periodo della filosofia greca e facendo delle interessanti osservazioni sugli spunti e i suggerimenti che i naturalisti presocratici trassero dal mondo della tecnica, cioè dal mondo della vita e dell’attività umana, il Mondolfo riafferma anzitutto in questo libro il principio già da lui sostenuto e dimostrato in precedenti e ormai classici lavori, cioè che le concezioni della natura svolte dai presocratici sono il risul­tato della proiezione dei problemi del mondo umano sull’universo mondo fisico e che è quindi da respingere l’opinione tradizionale per cui il pensiero filosofico all’inizio si sarebbe occupato esclusivamente dei problemi più lontani, relativi all’origine, alla formazione e alla costituzione del cosmo e solo in tempi più recenti avrebbe rivolto la propria attenzione a quelli più vicini, cioè ai problemi relativi all’uomo, alla sua storia e ai prodotti della sua attività.

Proseguendo poi nella ricerca, il Mondolfo indica in questo libro altri precedenti della filosofia della cultura: in Platone, che, pur avendo distinto nettamente il lavoro manuale dall’intellettuale, almeno in alcuni momenti, ebbe chiaro il concetto unitario del mondo della cultura umana; in Aristotele, che indicò la via per la comprensione di questo mondo «la cui origine non deve ricercarsi nella natura, ma nello spirito e nel suo dinamismo creatore»; in San Tommaso, che mise in evidenza l’alto valore del fatto per cui l’uomo ha la possibilità di creare dei nuovi ordinamenti, prima in sé e poi fuori di sé, prima concependo gli ideali e poi realizzandoli; nei filosofi del Rinascimento, che, esaltando l’eccellenza dell’uomo come creatore della cultura, furono spinti a concepire la spiritualità umana come storia, cioè come graduale e continuo sviluppo; infine e soprattutto, nei filosofi dell’età moderna fra i quali non si debbono ricordare soltanto Vico, Hegel e gli idealisti, ma anche i positivisti che, sebbene si siano opposti ad essi sostenendo che lo spirito non è l’unica realtà, riconobbero però che la conoscenza della natura, ogni conoscenza scientifica e in generale ogni altra forma in cui si esplica l’attività creatrice dell’uomo, sono fatti spirituali, sono fenomeni culturali.

Per rendersi conto dell’interesse che può destare oggi la presentazione di questo libro in veste italiana, si può pensare anzitutto al fatto che la filosofia della cultura, in questi ultimi tempi ha avuto un numero sempre maggiore di sostenitori e i suoi problemi particolari sono stati sempre più studiati e approfonditi, non solo nel suo paese d’origine, cioè in Germania, ma anche nei paesi anglo-americani ove le indagini relative ad esse hanno avuto degli sviluppi notevoli e del tutto autonomi; si può inoltre osservare che, sebbene in ritardo di fronte agli stessi paesi di lingua spagnola, anche in Italia, in questi ultimi tempi, non solo gli specialisti di studi filosofici, ma anche i cultori di studi sociologici, politici, giuridici e via dicendo parlano con certa insistenza di questo indirizzo di pensiero e dei suoi problemi.

L’interesse di questo libro non risiede però secondo me soltanto nei motivi di carattere generale ora accennati, ma risiede anche in un altro e non meno importante motivo di carattere personale. E questo motivo consiste essenzialmente nel fatto che, pur non essendo una delle opere fondamentali del Mondolfo, questo libro è però una delle sue opere più significative perché negli agili saggi in esso contenuti si possono facilmente trovare i principali motivi che caratterizzano il suo pensiero e perché il suo stesso titolo e i numerosi riferimenti che a tale titolo si trovano nel testo servono ad indicarci chiaramente l’indirizzo in cui il Mondolfo può essere inserito. Sebbene il Mondolfo, che io sappia, prima della pubblicazione di questo libro non abbia mai parlato di proposito della filosofia della cultura ed abbia accennato solo qualche volta ad essa esaminando il pensiero di singoli filosofi, come fece per esempio per alcuni pensatori del Rinascimento e per il Cattaneo, credo infatti che si possa affermare, e spero che non gli dispiaccia, che egli oggi sostanzialmente può essere qualificato come un filosofo della cultura sempre che si usi questa espressione nel suo senso più generale, cioè in quello a cui ho accennato all’inizio.

Per spiegare questa qualifica, mi pare che si possa anzitutto rilevare che una delle tendenze più caratteristiche dei filosofi della cultura, cioè quella di respingere il materialismo e il naturalismo e di approfondire i problemi specifici della vita e dell’attività umana, è la tendenza che costituisce il motivo dominante, direi quasi il filo conduttore, di tutte le principali ricerche storiche che il Mondolfo ha condotto tanto nel campo del pensiero antico quanto in quello del pensiero moderno. Per ciò che riguarda il pensiero antico, ho già accennato alla critica da lui fatta alla interpretazione tradizionale per la quale la riflessione filosofica si sarebbe rivolta in un primo tempo al mondo della natura e solo in un secondo tempo a quello della cultura.

Ora è bene ricordare che questa critica sostanzialmente fa parte di una critica più vasta che il Mondolfo in tutta l’opera sua ha rivolto contro una interpretazione anch’essa più vasta e analogamente tradizionale, cioè contro quella interpretazione per cui tutto il pensiero antico si sarebbe distinto nettamente dal pensiero medievale e moderno per il suo oggettivismo e per il suo naturalismo incapace di intendere il soggetto umano e negato a ogni comprensione dell’infinito. E contro quest’ultima interpretazione, come contro la precedente, il Mondolfo, conformemente ai princìpi della filosofia della cultura, ha messo in evidenza le tendenze poliedriche dello spirito ellenico e la varietà e il contrasto delle sue manifestazioni segnalando numerosi riferimenti e valutazioni dell’infinito nel pensiero dei filosofi greci e dimostrando come negli scritti di alcuni di essi si possa trovare anche un rico­noscimento esplicito dell’importanza del soggetto umano nella gnoseologia, nell’etica e nella teoria delle creazioni culturali. Per ciò che riguarda gli scritti del Mondolfo sul pensiero moderno e soprattutto sulla dottrina del materialismo storico, la tendenza a reagire al materialismo filosofico e ad affermare il valore della vita e dell’attività degli uomini è ancora più evidente.

Nella prefazione alla traduzione spagnola del suo Materialismo storico in F. Engels, il Mondolfo ricorda infatti come in tutta l’opera sua egli abbia cercato di confutare l’interpretazione tradizionale che presenta il materialismo storico «come fondato sopra una filosofia realmente materialista consistente in un determinismo economico che supporrebbe il processo automatico dell’economia come il vero fattore della storia; ridurrebbe la coscienza, la volontà e l’azione degli uomini a un prodotto fatale delle forze obiettive determinanti e così escluderebbe dalla considerazione della società umana e del suo svolgimento storico ogni influsso di esigenze o valori di carattere morale».

E a questa interpretazione tradizionale, che è a suo giudizio una deformazione e un fraintendimento della dottrina, il Mondolfo, come è noto, ha opposto la propria che fonda il materialismo storico sulla «filosofia della praxis», cioè su una filosofia attivistica nella quale tutti gli elementi e gli aspetti del mondo umano si riuniscono nell’unità dello sviluppo storico e nella quale ciascuno di questi elementi e aspetti è, allo stesso tempo, causa ed effetto nel mutuo rapporto della «prassi che si rovescia» e tutti insieme sono prodotti dell’uomo e reagiscono sul loro produttore sicché l’uomo, sviluppando storicamente il suo mondo, forma e sviluppa se stesso.

Ora a me pare che sia sufficiente pensare a questa interpretazione del Mondolfo per rendersi conto che per lui la dottrina del materialismo storico è in sostanza tutta una filosofia della cultura. E di ciò, se non erro, si può trovare un’implicita conferma in un passo della prefazione già citata che è stata scritta, è bene dirlo, nel 1940 e per un pubblico come l’argentino in cui allora era assai vivo l’interesse per la filosofia della cultura. In questo passo, dopo aver spiegato come nella filosofia della praxis si verifichi «un continuo scambio di azione e reazione tra l’uomo sociale e le sue creazioni, fra ciascuna di queste e le altre infrastrutture e sovrastrutture, economia e politica e forme giuridiche e creazioni intellettuali ed esigenze e aspirazioni morali», il Mondolfo conchiude infatti affermando che in questa filosofia «tutto il mondo della cultura, nella molteplice varietà delle sue forme, conserva sempre la vivente unità della sua fonte (l’uomo sociale), che nello stesso tempo è anche il suo fine e la sua ragione di essere».

Se, dopo aver considerato i lavori dedicati allo studio di particolari periodi e problemi della storia della filosofia antica e moderna, si passa a considerare l’opera del Mondolfo nel suo insieme e si fissa l’attenzione soprattutto sugli scritti in cui egli riflette sul significato complessivo dell’opera sua, si può trovare un’altra tendenza della filosofia della cultura non meno caratte­ristica di quella ora esaminata, cioè la tendenza ad approfondire i problemi della vita e dell’attività umana senza ricercare le soluzioni definitive e dimostrando anzi una esplicita diffidenza per queste soluzioni e per i sistemi che pretendono di possedere e di svelare la verità assoluta.

Si può dire che questa tendenza appare già chiaramente accennata nella sua «Prolusione» torinese del lontano 1910 nella quale, come indica il suo stesso titolo, La vitalità della filosofia nella caducità dei sistemi, il Mondolfo ha spiegato che la permanenza eterna della filosofia che si esprime nell’esigenza che spinge incessantemente lo spirito umano verso nuove indagini, riflessioni e discussioni, è dovuta essenzialmente all’inadeguatezza dei sistemi e all’insoddisfazione che si prova costantemente per la loro pretesa di risolvere i problemi in modo definitivo. Questa stessa tendenza e le idee ora indicate appaiono poi più ampiamente sviluppate ed esattamente delineate in altri più recenti scritti del Mondolfo e anche nelle ultime pagine di questo libro. In questi scritti, egli respinge infatti la concezione della filosofia come sistema osservando che il pensiero filosofico, malgrado le sue pretese di eternità e di assolutezza, risulta sempre legato alla situazione della propria epoca e alla personalità del proprio autore ed è destinato ad essere costantemente superato da altre epoche e da altri autori. E alla concezione della filosofia come sistema, il Mondolfo oppone la concezione della filosofia come problema, o, più esattamente come «problematicità», in quanto per lui il problema, o meglio i problemi, malgrado la varietà delle loro soluzioni, per il solo fatto di essere posti e approfonditi, costituiscono sempre delle conquiste imperiture per la coscienza filosofica. Non per questo la posizione del Mondolfo e di molti filosofi della cultura va però confusa con altre posizioni che a tutta prima potrebbero sembrare analoghe.

A tale proposito, egli dichiara infatti che la sua concezione della filosofia come «problematicità» non deve mai condurre alla conclusione sconsolata del problematicismo di Ugo Spirito che si strugge nell’ansia di raggiungere l’assoluto che è irraggiungibile e neppure alla conclusione non meno sconsolata degli scettici che proclamano la sterilità e la vanità dell’indagine filosofica. La sua concezione deve condurre al contrario ad una conclusione fiduciosa, altrettanto fiduciosa di quella del prospettivismo sostenuta da Ortega y Gasset e da altri filosofi della cultura. Secondo il Mondolfo, il lavoro filosofico deve essere considerato infatti sempre come un lavoro utile e fecondo anche se l’edificio che questo lavoro serve a costruire finisce col crollare sotto i nostri stessi occhi perché non si deve dimenticare che la considerazione di questo crollo e l’acquisizione di nuove esperienze contribuiscono a rendere la coscienza filosofica, cioè la coscienza dei problemi, sempre più chiara e profonda; e non importa il sapere che essa è condannata a non raggiungere mai l’assoluta perfezione.

Avendo ora accennato alla concezione della filosofia come problematicità sostenuta dal Mondolfo, non mi pare che sia possibile non accennare anche al fatto che gli avversari, e fra essi soprattutto i seguaci delle dottrine tradizionali del diritto naturale oggi, assai spesso, rivolgono a concezioni come questa, e in genere a tutte le concezioni prospettivistiche della filosofia della cultura, la grave accusa di essere incapaci di difendere i supremi princìpi della libertà e della personalità in quanto non riconoscono nessun principio assoluto e di essere invece capaci di giustificare le dottrine negatrici di quei princìpi in quanto pongono tutti i sistemi sullo stesso piano e attribuiscono ad ognuno il suo valore e la sua importanza. Questa grave accusa, che è spiegabile quando ci si riferisce ad alcuni casi particolari, evidentemente è un’accusa che può essere respinta e ritorta con facilità contro i suoi stessi sostenitori. A tal fine, è sufficiente fare ad essi osservare che la negazione dei princìpi assoluti può condurre anche alla negazione dell’assolutismo e che il riconoscimento del valore e dell’importanza di ogni dottrina può condurre anche a promuovere e a diffondere lo spirito di tolleranza e di comprensione reciproca.

Non posso però qui ora indugiarmi a discutere un problema così arduo. Dato che a proposito del Mondolfo ho parlato della concezione della filosofia come problematicità, desidero solo ricordare che tale concezione, secondo me, sfugge all’accusa sopra indicata e che l’opera del Mondolfo, presa nel suo complesso, ci offre anzi una prova del fatto che posizioni filosofiche come la sua sono perfettamente in grado di difendere con fermezza ed efficacia i supremi valori della libertà e del rispetto della personalità. Alla difesa di questi valori (intesi, non solo in senso formale, come li intendevano i liberali del Settecento, ma anche in senso reale, come l’intesero i socialisti del secolo successivo), si può dire infatti che è rivolta la maggior parte dei numerosi scritti del Mondolfo.

Fra quelli in cui questa difesa è più esplicita e accalorata si possono ricordare: gli ampi studi storici sul Rousseau, sul Beccaria, sui sogni di egemonia tedesca e sul pensiero del nostro Risorgimento, i numerosi saggi pedagogici sulla libertà e la laicità della scuola e quelli sociologici e politici sulla democrazia, sul fascismo, sulle classi medie, infine e soprattutto, gli scritti fondamentali sulla dottrina del materialismo storico. Interpretando questa dottrina come filosofia della praxis, il Mondolfo, infatti, non ha reagito sol­tanto contro il materialismo filosofico avvicinandosi alle posizioni proprie della filosofia della cultura, ma ha introdotto e affermato anche e specialmente nel pensiero socialista un’esigenza imprescindibile di libertà e di rispetto della personalità. E si può dire che il valore di questa esigenza è stato sempre da lui sostenuto in tutti gli scritti su questo argomento.

Concludendo le osservazioni riassuntive sulla sua interpreta­zione del materialismo storico, nella prefazione al libro che porta questo titolo e che qui spesso ho ricordata, egli, ad esempio, non ha mancato di porre in rilievo che «l’esigenza della libertà e della personalità umana ispira l’idea della missione storica attribuita da Marx e Engels al proletariato di instaurare il regno della libertà in una società nella quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti».

E parecchi anni prima, nella prefazione alla terza edizione dei volumi Sulle orme di Marx, rispondendo ad un critico che aveva fatto osservare che al Mondolfo sarebbe spettata la qualifica di liberale al posto di quella di socialista, non ha esitato a dichiarare che la qualifica di liberale, nel senso in cui la intendeva il suo critico, avrebbe potuto essere accolta anche da Marx e da Engels, non però come opposta, ma bensì come confluente con quella di socialista. «Giacché Marx definiva la filosofia arma spirituale del proletariato precisamente in quanto filosofia della libertà e in questo senso medesimo Engels salutava nel proletariato l’erede della filosofia classica tedesca».

R. Treves



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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