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Prefazione di Massimo Stella e Postfazione di Gherardo Ugolini
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Prefazione
Massimo Stella
La storia incantata
Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’
Vi fate ancora [a me] vicino, tremolanti figure
che vi mostraste anticamente al mio sguardo velato.
Tenterò davvero questa volta di afferrarvi strette ?1
J. W. Goethe
L’altra Germania
Ma come Lutero, il riformatore, per la sua forma mentale e psichica, fu in buona parte uomo del Medio Evo, ed ebbe durante tutta la vita a combattere col diavolo, così nella Lubecca protestante […] si viveva profondamente immersi nel Medio Evo gotico né dicendo così penso soltanto alla cittadina cinta di porte e di bastioni, al brivido macabro ed umoristico provocato dagli affreschi della Marienkierche con la sua “Danza della Morte”, alle straducole tortuose e come stregate che prendevan nome ancora spesso dalle antiche corporazioni di artigiani fonditori di campane o dei macellai, né alle pittoresche dimore borghesi. No, l’atmosfera medesima aveva conservato residui di un particolare stato d’animo diciamo pure tratti della latente epidemia psichica dell’ultimo Quattrocento, dell’isterismo del Medio Evo tramontante. È strano a dirsi per una città commerciale moderna prosaica e assennata […]. Insomma vi si avvertiva un substrato arcaico-neurotico, una predisposizione segreta degli animi, manifestantesi nel gran numero degli “originali” sempre trovabili in quella città, tipi bizzarri ed innocui di semipazzi che vivono fra quelle mura e sembrano far parte del quadro locale non meno degli antichi edifici. Un certo tipo di “vecchietta” dagli occhi cisposi e dal bastone a gruccia che è in fama più o meno scherzosa di stregoneria, un piccolo rentier dal naso purpureo e bitorzoluto affetto da uno strano tic nervoso e da ridicole consuetudini, che lancia per coazione un monotono strido d’uccello; una donna dalla comica acconciatura che si aggira altezzosa per la città, trascinandosi dietro un lungo strascico fuori moda, seguita da gatti e cagnolini. Ed insieme a costoro ci sono sempre dei bimbi, dei monelli che fan da corteo a quelle strane figure, schernendole, ma pronti a fuggire con panico superstizioso appena quelle si voltano… 2
Sprofondata in un tempo fiabesco, remota e stregata. Così Thomas Mann rievocava, nel celebre discorso di Washington, il 29 maggio del 1945, la sua Germania: la Germania della sua memoria, incarnata, pars pro toto, nella città natale, Lubecca.
Non è la Germania guglielmina, né quella weimariana. È un’altra Germania a vivere nelle ricordanze leggendarie, se non mitiche, dello scrittore: la Germania di Lutero tra Lutero e Goethe (il Goethe del Faust, più precisamente).
Il nostro massimo poema, il Faust di Goethe, ha per protagonista l’uomo al confine tra Medio Evo e Umanesimo, l’uomo anelante a dio, che si arrende al demonio e alla magia per temeraria sete di conoscenza. Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaicità dell’anima e alla costrizione, lì interviene il demonio. E il diavolo, il diavolo di Lutero e di Faust, mi sembra essere figura tedeschissima.
Germania percorsa da una sinistra inquietudine, dunque, che prende il volto fobico e perturbante unheimlich del ‘diavolo’: Germania diabolica, demoniaca.
Che poi Mann, nel suo discorso, proietti l’ombra di questo fantastico ‘spirito culturale’ originario, per così dire, sulla Germania nazista, quasi a volerne spiegare la genealogia e la sostanza psichica, è un ulteriore movimento dell’eloquenza manniana legato al trauma storico: un movimento dichiaratamente ideologico. Se proprio tale ideologizzazione del tutto evidente in sé, del resto è stata enfatizzata e divulgata soprattutto dagli storici (Mann vedrebbe allora definitivamente in Lutero un rigurgito di oscurantismo medievale anziché un protagonista della Modernità e un padre della libera coscienza), è, invece, vitale distinguere, nel ritratto manniano della Germania, il motivo poetico da quello politico, e seguire quello poetico.
Martin Lutero, gigantesca incarnazione dell’indole tedesca… Io non lo amo, lo confesso apertamente. Tutto ciò che è tedesco, al cento per cento, separatista e antiromano, antieuropeo, mi sconcerta e mi spaventa anche quando si presenta come libertà evangelica e come emancipazione spirituale, mentre ciò che è specificamente luterano, la villania, le invettive colleriche, l’eruttare infuriato, la spaventosa vigoria mischiata a delicata profondità d’animo e a massiccia credenza superstiziosa nei demoni, negl’incubi e nei mostri, suscita la mia istintiva ripugnanza.
Poeticamente Lutero è centrale nella ricreazione manniana della Germania. Egli è il ribelle spirituale che, mentre rivendica senza compromessi possibili la libertà della coscienza, sperimenta tutta l’angosciosa solitudine di tanta assoluta libertà e si finge che l’unica compagnia in così grande solitudine terrena sia quella del demonio.3 Nelle Tischreden, l’intimità di Lutero col diavolo è quotidiana, tanto quanto l’ansia lacerante per il destino dell’anima di fronte a un Dio inconoscibile, imperscrutabile, spaventoso. Ma che cos’è ciò che chiamiamo ‘Demonio’?
Spaesamenti
Può sembrare fuorviante introdurre i lettori al libro di Diego Lanza per questo lungo e digressivo preambolo: Mann, la stregonesca Germania della sua memoria, Lutero, il Diavolo. Il titolo, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, farebbe pensare, infatti, a un saggio sulla figura antropologica dello ‘Sciocco’ chiamiamolo così, per ora. Ma lo spaesamento è il clima e l’effetto voluto di questo libro. Non è già straniante pensare Socrate con Pinocchio e con Eulenspiegel? Un personaggio del folklore tedesco, radicato nel profondo nord della Germania, apparso per la prima volta in un Volksbuch agli inizi del XVI secolo; quindi attraverso le scritture di Platone e di Aristofane Socrate, la figura che la tradizione considera il ‘padre della filosofia’; e infine un’Italia ormai completamente dimenticata, e già remota nel secondo Dopoguerra, l’Italia postunitaria della ‘letteratura per ragazzi’, in cui prende vita la coppia del padre artista-artigiano, falegname, e del suo figlio d’arte-marionetta di legno…
Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale, una figura identicamente ricorrente, un topos, ma piuttosto un’incognita, alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È infatti il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole (infra, p. 37).
Un percorso certo molto accidentato e inevitabilmente disordinato, con frequenti deviazioni e indugi, talvolta per il riaffiorare di antichi affetti, ma forse proprio per questo non del tutto inutili, al ritrovamento delle figurazioni della stoltezza e di quell’annuncio di verità che nella stoltezza la società, con diversi accenti e diverse mediazioni, ricorrentemente avvertì il bisogno di rappresentare (infra, p. 35).
“Un’incognita”…“ripugnante”, “ridicolo”, “riprovevole”… un percorso di ricerca “accidentato” e “disordinato” in cui riaffiorano “antichi affetti” e, infine, il problema di un “annuncio di verità”: pur nella discrezione, l’autore avverte il lettore che si troverà di fronte ad una materia enigmatica e disturbante, percorsa da un’emozione personale, da un ‘esserci’ dello studioso e dell’osservatore, sebbene iscritti e cifrati, quest’ ‘esserci’ e questa ‘emozione’, negli oggetti stessi di studio. Quanto alla “verità”, chi legge si troverà prima o poi posto di fronte ad alcune domande su se stesso, perché lo specchio buio dello stoltezza Nella stanza buia è il titolo del primo paragrafo del primo capitolo rischia di riflettere l’immagine nostra e del mondo che viviamo per abitudine, senza distacco:
perché lo scemo ride, di che cosa, e perché ridiamo dello scemo? Qual è inoltre il rapporto tra stupidità e sentimenti, stupidità e affettività, stupidità e pudore? Qual è la consapevolezza che lo stupido può avere della propria diversità, quali le pulsioni che lo possono muovere nella stanza buia in cui si sente, se veramente si sente, rinchiuso? (infra, p. 53).
Lo Stolto è un libro che attrae quanto più distrae: non solo e non tanto per l’ampiezza dei problemi che discute, ma perché, volontariamente, di quei problemi non vuole proporre soluzioni. È un’opera viva che preserva i suoi non detti e alcuni suoi segreti (“Non mi sono mai piaciuti i divertimenti intelligenti”, è la frase con cui si aprono i cenni introduttivi dell’autore). Pensare di svolgere un filo d’Arianna attraverso tale complessità, che è già, d’altronde, perfettamente disegnata grazie ad un pazientissimo lavoro di scrittura, e disposta dunque ad arte in tutte le sue dissolvenze e linee di fuga, sarebbe un chiacchierare inutile. Cionondimeno, alcune osservazioni generali sulle ragioni e sull’impianto di questo saggio possono essere avanzate.
Innazitutto, a 23 anni dalla sua prima edizione Einaudi (era il 1997), Lo stolto può risultare, ora, un libro del tutto ‘nuovo’. La pubblicazione, nel gennaio del 2013 e poi nel settembre del 2017 (per l’editore Carocci) di due volumi incentrati sull’archeologia intellettuale della filologia classica e degli studi sul mito Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento (raccolta di saggi pubblicati nell’arco di quarant’anni, sparsi in riviste e opere collettive), e Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi aiuta il lettore del 2020 a ritrovarsi in alcuni forti tagli prospettici e decisi scorci di pensiero che caratterizzano lo Stolto.
Il paese della fiaba
Per incominciare, o ricominciare da dove abbiamo preso le mosse, ci sono dunque, nello Stolto, il richiamo fascinoso di quella Germania e la riflessione di Thomas Mann. Thomas Mann è stato uno scrittore del cuore per Diego Lanza. E il suo modo di leggerlo è quello in cui, per metodo, si deve leggere un autore del modernismo europeo: come creatore, per un verso, e come pensatore, saggista, teorico, dall’altro (Mann come Eliot, come Joyce e Woolf). Tenendo in mente, nel loro insieme, gli scritti di Lanza sulle discipline dell’antico, non si può non cogliere il ruolo preponderante che Mann vi riveste in quanto punto di convergenza e, quindi, di rifrazione d’una serie d’avvenimenti che hanno segnato il nascere e lo sviluppo degli studi classici, e della filologia classica in particolare, in Germania: il rapporto della filologia classica tedesca con la filosofia idealistica e con l’opera dei poeti, dei drammaturghi e degli scrittori a cavallo tra Sette e Ottocento (la generazione del ’70 specialmente); il ruolo di Goethe come organizzatore intellettuale e autore; il fenomeno Nietzsche; il tema politico del conflitto tra teologia luterana delle origini, da un lato, protestantesimo liberale e Altertumswissenschaft (la ‘Scienza dell’Antichità’) dall’altro. Di questi grandi nodi problematici non sarebbe possibile parlare qui, e basti il solo ricordarli alla memoria. Importa invece sottolineare che, a giudizio di Lanza, il Doktor Faustus di Mann “resta un’opera profondamente intrisa di autentica cultura luterana”.4 Il che significa: a dispetto del divorzio tutto ottocentesco delle Scienze dell’Antichità dal magistero di Lutero teologo e biblista, a dispetto dell’indifferenza se non della sordità che la filologia classica accademica dimostra nei confronti del lavoro goethiano sul mito greco nel Faust (die klassische Walpurgisnacht di Faust II), Mann ristabilisce un dialogo intenso e con Lutero e con Goethe, con una Germania, cioè, non solo precapitalistica, ma addirittura preborghese, profondamente contadina, nella forma materiale, e profondamente segnata dalla rivolta antiromana del Riformatore che è anche, sul piano culturale, rifiuto dell’ossequio alla Tradizione umanistica. Per altro verso, Mann è nutrito di Nietzsche, il filologo classico che scese dalla cattedra per sostanziale estraneità all’accademia e al tipo di filologia che vi si praticava: e nel filologo reietto il romanziere incontra il Dionisiaco secondo lo spirito della musica (Wagner). Il Dionisiaco e il Musicale sono demonici-demoniaci, osserva Mann nel saggio già citato del 1945:
È grande deficienza della leggenda e del poema non mettere Faust in rapporto con la musica. Egli dovrebbe essere musicale e musicista. La musica è sfera demoniaca ce lo ha esposto nel modo più convincente Søren Kierkegaard, un grande cristiano, nel suo saggio dolorosamente entusiasta sul Don Giovanni di Mozart. […] Martin Lutero, gigantesca incarnazione dello spirito tedesco, era straordinariamente musicale.
Proprio sul Doktor Faustus di Mann, e sul dialogo di Adrian Leverkühn con il Maligno, si chiude il percorso dello Stolto.
Il diavolo appare ad Adrian, gli si oggettiva dinanzi, perché in lui è già presente un’energia diabolica, una diabolicità che, pur consapevolmente indulgendo a una precisa tradizione teologica [scil. luterana], non può non richiamare anche più remote demonicità […]. Signore dell’emozione incontenibile, il demonio sembra accompagnare Leverkühn nella scoperta musicale (infra, p. 405).
Si sarà forse inteso, a questo punto: lo scavo che Lanza intende compiere nella storia culturale europea per recuperare i tratti di quell’incognita ché tale la chiama, come si ricorderà di quell’incognita, dunque, che sono i caratteri inquietanti, ripugnanti e ognora sinistramente ridicoli dello stolto, è condotto contro il sapere corporativo della disciplina dell’antico e soprattutto contro una disciplina dell’antico insensibile all’esperienza in cui innanzitutto ogni studioso è calato, e in cui sono altrettanto calati gli oggetti stessi dello studio, senza contare che questa esperienza è a sua volta continuamente rimodellata dalle prospettive adottate e dalle urgenze via via emergenti dal mondo in cui viviamo nel presente e dai mondi lontani che possiamo rivivere nella sola memoria. Nella scrittura dello Stolto Lanza è andato, dunque, cercando un ‘paese’, per così dire, o meglio un ‘paesaggio’ dove guardare nel modo più libero possibile al problema della sua ricerca, fuori dai convenzionalismi costrittivi del discorso accademico che tuttavia si impongono come ‘oggettività’ e ‘acquisizioni tecniche’ del mestiere. Questo ‘paesaggio’ è il mondo della fiaba, cui è dedicato specificamente il capitolo centrale, il III del libro, Linee di fuga, ma il filo fiabesco percorre coerentemente tutto il lavoro. La Lubecca di Mann (come l’universo goethiano di Faust e quello di Wilhelm Meister) è tale mondo: il mondo in cui l’assurdo, lo sconcerto, il perturbante e la trasgressione sono di casa. Il mondo, potremmo dire, in cui l’Unheimlich è perfettamente Heimlich. Si tratta di un punto, se non del punto metodologogico fondamentale del saggio di Lanza: tutti i fenomeni che vi vengono osservati, anatomizzati e criticamente riformulati, lo sono, oserei dire unitariamente, all’interno di quel regime di senso, che è anche regime linguistico e narrativo, originariamente orale, cui diamo il nome di ‘fiaba’. Per fornire solo alcuni esempi: l’Omero dell’Iliade e dell’Odissea (si pensi alle figure di Tersite e di Odisseo), Platone (del Simposio, del Teeteto e dell’Eutidemo, soprattutto), Aristofane (delle Nuvole, della Pace, degli Acarnesi, degli Ucelli, in particolare), come Collodi e il Giulio Cesare Croce del Bertoldo e il Charles de Coster dell’Eulenspiegel, come i numerosi passi (veterotestamentari) della Bibbia che fanno la loro comparsa nel libro, sono, per così dire, ‘traslati’, ‘trasportati’ au pays des fables, che è la vera Heimat dello ‘Stolto’. Si tratta di un esperimento molto forte: che sfida, intanto, con voluta determinazione, le barriere tra scrittura e oralità (per non ricorrere alla più oziosa e vacua distinzione tra ‘cultura alta’ e ‘cultura bassa’) e quindi avvicina tra loro tutte le distinzioni formali del racconto (‘mito’, ‘epos’, ‘leggenda’, ‘apologo’, ‘novella’ spingendosi fino al romanzo) e della rappresentazione (dialogo, teatro e immagini). Quanto al dominio intellettuale che Lanza ha sul complesso di questi contesti, si lascia al lettore il piacere della verifica. Fondamentale è però chiedersi il perché dell’esperimento così spinto.
Solo in zone remote alla scrittura e ai libri, nella tradizione orale delle fiabe questa figura [scil. lo stolto] non compare; qui gli atti e i comportamenti “da matto” si mantengono diluiti volta per volta in diversi personaggi, perché essi sono accettati come tratti di una comunicazione sociale non sottoposta a regole restrittive. […] Ma la fiaba entra nel libro e nella letteratura solo molto tempo dopo, e non prima di venire sottoposta a un energico restauro narrativo. Le dighe contro la stultitia sono perciò essenzialmente dighe di carta stampata (infra, p. 392).
Dove possiamo incontrare lo Stolto? Dove non porta il berretto da matto, dove non porta i campanelli, dove non è rinchiuso, come uno strambo orpello da Wunderkammer, nelle corti dei re o dei signori e nei libri che si scrivono su di lui… dove, cioè, meno lo riconosciamo o non lo riconosciamo affatto, almeno di primo acchìto, perché non reca lo stigma di una diversità bollata col contrassegno di notorietà: nella terra della fiaba.
Sappiamo che l’arte (filologica) del trascrivere racconti popolari è dovuta per eccellenza ai fratelli Grimm, folkloristi e linguisti. Il loro grande dizionario, il Deutsches Wörterbuch, dopo la traduzione della Bibbia di Lutero (e insieme all’opera di Goethe), è contribuzione fondamentale alla lingua tedesca moderna. Che sia stata proprio la Germania ad aver dato i natali agli studi sulla tradizione popolare intesa come Volkgeist (tra Herder e Hegel), fornendo quello straordinario tesoro documentario che sono i Kinder- und Hausmärchen (noti ai lettori italiani col titolo di Fiabe del focolare), non è certo casuale, e, anzi, è il risultato d’un legame di memoria molto forte con la radice luterana e con la situazione politica di quella terra, situazione intrinsecamente connessa alla sua storia religiosa e confessionale. Ma su questo non occorre ormai, credo, insistere oltre.
Piuttosto, non sarà forse inutile ricordare al lettore, qualora sia intenzionato ad addentrarsi più profondamente nello spirito di questo libro, che la Germania luterana delle origini è stata sempre considerata da Diego Lanza, sia in quanto studioso sia in quanto intellettuale e per il suo modo di concepire la filologia classica e per la sua formazione marxista radicale come, se così posso dire, ‘terra del dissenso’. Dissenso da ogni costrizione sovrastrutturale e conformismo da quell'idea, cioè, di ‘tradizione governata’, artificiale, selezionatrice, mediatrice e correttrice dell’esperienza, imposta dalla chiesa cattolica in quanto organizzatrice del sapere e sopravvissuta quindi nella cultura laica ben oltre il tramonto dell’effettiva egemonia politica ecclesiastica. Libertà di ribellarsi, dunque, di non piegarsi alla gerarchia. Deve poi far pensare il fatto che questo legame intellettuale e emotivo di Lanza con la Germania dove volle tornare a soggiornare tra il ’93 e il ’94 proprio allo scopo di dare una svolta determinante ai lavori dello Stolto non era per nulla semplice, anzi, direi, per nulla ‘astratto’. Chi abbia letto ora, o chi voglia leggere, il libro di memorie consegnato postumo alla stampa ormai è un anno, Il gatto di piazza Wagner. Ricordi di ricordi,5 saprà che le leggi razziali (insieme alla guerra) colpirono duramente i suoi anni di bambino, così mescolandosi la violenza, la persecuzione e l’onnipresenza della morte “all’ingenuo piacere della fiaba” (infra, p. 33).
“Der Fall Sokrates” e il diavolo
Se non fosse esistito il teatro (di Aristofane), non sarebbe esistito il Socrate di Platone: anche se non possiamo certo dire che, negli anni Novanta del trascorso Novecento, ciò risultasse acquisito dai filologi classici e dagli storici della filosofia antica su suolo italiano e europeo (e anzi, il Seminario di Letteratura greca dell’Università di Pavia era un laboratorio di pensiero avanguardistico, in questo senso, che viveva negli studi di Diego Lanza, di Anna Beltrametti e di alcuni più giovani e giovanissimi ricercatori, e nella collaborazione sentita con Mario Vegetti e il suo gruppo di lavoro), non c’è dubbio che il Socrate di Platone abbia una natura del tutto teatrale.
A più riprese Nietzsche lo aveva rivelato e, possiamo ben dire, gridato, giocando Socrate insieme a Wagner: dalla Nascita della tragedia, alla Filosofia nell’epoca tragica dei Greci, al Caso Wagner, a Verità e menzogna in senso extramorale, alla Genealogia della morale, e ancora Aurora, la Gaia scienza, Umano troppo umano, il Crepuscolo degli idoli e l’Anticristo. Cioè l’intero Nieztsche. L’intero Nietzsche accompagnato e preceduto in questo pensiero dal solo Kierkegaard, il grande Angosciato dal peccato e dalla colpa sovrapponeva filosofo e istrione, e tragico e comico. Attentissimo e partecipe lettore di Nietzsche, come di Thomas Mann, Diego Lanza incontrò così la sua interlocuzione fondamentale. La relazione di affinità elettiva tra il buffone aristofaneo che, si può dire strutturalmente, ‘fa la paratragedia’, e il Socrate platonico, brutto, satiresco-silenico, anti-sapiente, fortemente ‘erotico’ (erotikos) sempre innamorato di un bel ragazzo e insieme inquietante maestro del desiderio, trasandato, forte bevitore eppure mai ubriaco, polemico anticonformista, narratore impareggiabile di storie e apologhi e fiabe e d’indole creativo-poetico-musicale (Socrate è mousikos aner), costantemente preoccupato per il destino dell’anima e del di lei giudizio nell’aldilà, indefettibilmente fedele alla propria autonomia ma affidantesi unicamente alla voce del dio e del demone: questa relazione tra istrionico buffone e filosofo vive già tutta in Nietzsche, che a sua volta la coglie in Platone. È opportuno allora tornare su una illuminante frase manniana della Germania e i Tedeschi che abbiamo già ricordato: dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaicità dell’anima e alla costrizione, lì interviene il demonio. Tipico del Socrate platonico è proprio questa alternanza, per un verso, di cavilloso intellettualismo sempre interrogativo (domande su domande su domande) fondato su uno stordente, bizzarro e ludico uso della lingua; per l’altro, di arcaica, remota sacralità il dialogo col demone, la contiguità con il corteggio di Dioniso, l’animalità, l’ostetricia del pensiero e della parola, la visionarietà escatologica.
Certo, per il cristiano, tutto il sacro non consacrato dalla liturgia e dal dogma ciò che Mann splendidamente chiama “arcaicità dell’anima” è fatalmente demonico e diabolico: per il luterano radicale, poi, che, della liturgia cattolica, sottile economa delle eredità pagane più potenti, ha fatto drastico e ampio respingimento, il demonico-diabolico è tanto più presente e si estende pressoché a tutti gli aspetti della vita, soprattutto all’enigmatico mondo dei desideri e delle pulsioni, delle proiezioni immaginarie, alla paura della morte e a ciò che intorno le ruota.
La fiaba, nel suo mondo incantato di creature stregate, riceve ad amplissimo raggio le immemoriali credenze, esperienze rituali e cultuali, delle comunità umane. (A questo proposito, apro una parentesi, che mi pare giovevole: chi legge Lo stolto di Lanza dovrebbe tenere in mente, parallelamente e particolarmente, Storia notturna di Carlo Ginzburg, pubblicato da Einaudi otto anni prima, nel 1989: due libri che, pur nella diversità di atteggiamento, specialmente nei confronti dei paradigmi epistemici Lanza confida molto meno di Ginzburg nell’efficienza euristica dei modelli scientifici condividono un vero flusso di affinità elettive, spesso illuminandosi reciprocamente). Ma anche il teatro è luogo particolarmente ricettivo di quella sacralità: il teatro comico e il teatro popolare della sacra rappresentazione e delle marionette:
Ludwig Schmidt, nel suo libro sul teatro popolare tedesco, riconosce nei primi personaggi-marionette del teatro rinascimentale demoni fallici o teriomorfici di probabile ascendenza pagana. Egli quindi annota: «Le figurine comiche dello spettacolo medioevale di marionette appaiono evidentemente agli spettatori come ai cronisti non soltanto comiche (lustig), ma almeno anche perturbanti (unheimlich)». Nella pratica spettacolare della chiesa medioevale (le inglesi moralities, i tedeschi Osterspiele, le sacre rappresentazioni italiane, ecc.) si riconosce una costante associazione della figura ridicola dell’insensato con quella maligna del demonio. Il diavolo, cioè, in una considerevole quantità di rappresentazioni allegoriche medioevali, ha il ruolo del buffone (infra, p. 314).
Il diavolo che già è il primo teologo e il primo filosofo dell’Evo cristiano medievale e moderno fa il buffone, infatti: e può diventare il Mefistofele del Faust goethiano (che ancora ha memoria ben viva del Marionettentheater) o il Riccardo shakespeariano di Richard III (come Benjamin suggeriva con insuperata potenza nelle pagine finali dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels6). L’origine demonica del buffone aristofaneo è cosa già ipotizzata dai Ritualisti di Cambridge, il cui lavoro Lanza ammirava e ampiamente cita. E il demonismo del Socrate platonico senz’altro nel comico affonda. Se Nietzsche inaugurò la filosofia come fröhliche Wissenschaft, come “gaia scienza” risonante d’un gotico tintinnìo di campanelli, ammantando il suo filosofo degli abiti stravaganti del teatrante, della risata che sa di umano come d’un ammonitore gracchiar d’uccello, è perché egli getta la sonda del pensiero nel pozzo della memoria sacra all’alba del suo definitivo dissolversi. Con lo Stolto Lanza risponde anche a questa urgenza, che è altresì il principio d’una perdita, per non dire di una grande ‘nostalgia’.
Memoria Morti Paura
Che cosa è entrato e che cosa è uscito dalla nostra mente, quando, come? Diventare un altro è quello che capita a diversi personaggi di commedia, ma su di essi avremo modo di ritornare. Non è un caso tuttavia che siamo nella commedia. Nella vita infatti una trasformazione psichica è piuttosto motivo di inquietudine; non riteniamo di diventare diversi, altri da noi, quando ci vengono in mente idee nuove. Anzi il “venire in mente” non è avvertito altro che come modo di dire, fossile linguistico, di scarsa pregnanza semantica. Da dove verrebbero le “nostre” idee? I confini della mente, quelli cioè dell’io, ci appaiono sufficientemente saldi e definiti per impedire un andare e venire incontrollato di contenuti psichici. Ma quanto vale questa fiducia? (infra, pp. 239-240).
La memoria è uno degli oggetti che più hanno attratto l’interesse di Diego Lanza, dagli studi sulla medicina e sulla biologia antica a quelli sulla tragedia a quelli sulla storia della filologia classica. Ma lo Stolto è forse il libro che, anche se non dichiaratamente, più fa questione intorno al problema della memoria e dell’oblio. Dovrebbe essere, la memoria, un “saper d’esserci”, per ricorrere all’espressione che dà il titolo ad un paragrafo molto forte dello Stolto in cui si commenta la tremenda storia della Scaltra Else tramandataci dai fratelli Grimm. Ma che memoria può avere chi, come lo ‘stolto’ non è ‘se stesso’? O è forse la sua una memoria diversa da quella dell’ ‘individuo’, una memoria più vasta e, per così dire, obliosa, che abbisogna di Lethe, di dimenticare i ricordi, per affiorare? Una memoria che non ha riscontro nell’esperienza comune del mondo? E allora come chiamare questa memoria? Mito? Anche, in parte se per mito si intende una storia fondativa, una storia che registra, cioè, una tradizione collettiva. Importanti sono però le forme in cui il mito si tramanda: le forme solenni dell’epos e della tragedia, e altrettanto le occasioni della loro fruizione senza contare la fissazione della scrittura selezionano e rimodellano di molto il racconto e molti tratti ne diluiscono fino alla dissolvenza. Mythus non sufficit. E allora, come Mefistofele rispondeva al perplesso Faust: “Bisogna ricorrere alla strega”;7 la “Strega Metapsicologia”, die Hexe Metapsychologie,8 rilanciava Freud in uno dei suoi più noti lampi d’umorismo (citando Goethe).
Nello Stolto Lanza non concede quasi nulla alla psicanalisi. Freud, con Bleuler, vi è citato una volta per il concetto di ‘ambivalenza’. Ma un segnale di estremo interesse è la presenza a più riprese, nel libro, di uno psicanalista, importante (e controverso) psicanalista, il viennese Bruno Bettelheim. Ricorderanno forse i lettori che Bruno Bettelheim appare nel ruolo di se stesso in un capolavoro di Woody Allen, Zelig (“il benedetto”, in yiddish, e metamorfico ‘Nessuno’) il quale pure è oggetto di citazione e riflessione nello Stolto. Lanza tace sulla relazione umoristica tra lo psicanalista e il film, e lascia semmai che il lettore, eventualmente, la colga da solo. È evidente ironia. Ma non certo sola ironia. Bettelheim, che fortunosamente fu rilasciato dai campi nazisti in grazia d’un’amnistia per il cinquantesimo compleanno del Führer (o del pagamento d’un lauto riscatto, dicono i detrattori) riparò negli Stati Uniti, dove poi morì suicida (tremendo suicidio) a 86 anni, nel marzo del 1990, non riuscendo a sopportare la decadenza, anche psichica, della vecchiaia, lui che per tutta la vita si era occupato del disturbo psicotico e autistico dei bambini. Certo, Bettelheim non era il primo psicanalista a occuparsi di interpretazione delle fiabe. Già ‘il padre’ Freud lo fece a piene mani, e altrettanto Jung e Neumann e Marie-Louise von Franz, per citare solo alcuni dei nomi più illustri. Ma Bettelheim, freudiano, si proponeva come liberatore-educatore, cioè liberatore in quanto educatore e viceversa, del bambino, giocando la fiaba, per un verso come esca tesa al piccolo paziente, per l’altro, come arma polemica contro il reprimente e represso mondo degli adulti nonché contro il Verbo stesso della psicanalisi ‘maggiore’. Centrale, anche se non sempre còlto, è in Bettelheim il rapporto tra fiaba e memoria emotiva del bambino traumatizzato. La memoria è per sua struttura traumatica e tale struttura si rivela là dove il trauma si produce indelebilmente, nel puer della comunità. Il bambino è, cioè, non un’età, ma una metonimia dell’uomo. E la fiaba è la metonimia di questa metonimia: sostituzione rievocativa memoria, appunto di antiche ‘violenze’ richiuse in un mondo ‘stregato’. Ricordi di ricordi, avrebbe quindi detto il Diego Lanza scrittore delle proprie ‘ricordanze’.
Il bambino è una presenza essenziale nello Stolto, tanto quanto il suo stesso protagonista, al quale assai spesso si sovrappone, per non dire che vi si confonde, ed è presenza legata soprattutto alla paura e al mondo dei morti: paradigmatica la fiaba tramandataci dai fratelli Grimm dove si narra la storia del piccolo sciocco incapace di ‘aver la pelle d’oca’ e desideroso d’impararne l’ ‘arte’. L’insensibilità ai terrori degli altri prende qui la sua forma massima: la paura dei morti o, meglio, del ritorno dei morti, il terrore sacro per eccellenza. Perché mai il bimbo sciocco si trova così a suo agio tra i trapassati e i loro spettri, al punto tale da sapere, egli solo, metterli in fuga? Lanza si diverte a cogliere in fallo lo psicanalista (Bettelheim) che vuole spiegare la fiaba questa in particolare, e in generale le fiabe riconoscendovi una rappresentazione e un’evoluzione stadiale della psiche. Ciò, infatti, può forse persuadere il nostro lato ‘intelligente’ (adulto), ma non quello oltranzisticamente ‘infantile’. Freud, nel saggio sul Perturbante uno dei più irrisolti e aporetici della sua scrittura al pari dell’ultimo capitolo di Al di là del principio di piacere ci avvertiva: la nostra ‘psiche’ non è fatta solo di ciò che, consciamente e inconsciamente, noi ‘siamo’ e ‘ricordiamo’ o noi ‘non siamo’ e ‘non ricordiamo’; e non è fatta nemmeno dei soli nostri traumi:
Consideriamo il perturbante che compare nell’onnipotenza dei pensieri, nel subitaneo appagamento dei desideri, nelle forze nefaste occulte, nel ritorno dei morti. Non si può disconoscere la condizione che determina in questi casi il senso del perturbante. Noi o i nostri primitivi antenati abbiamo ritenuto vere in passato tali possibilità, abbiamo creduto nella realtà di questi processi. Oggi non ci crediamo più, abbiamo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo completamente sicuri di questi nuovi convincimenti, giacché le antiche credenze sopravvivono ancora in noi e stanno lì, in attesa di conferma. Ebbene, non appena nella nostra esistenza si verifica qualcosa che sembra convalidare questi antichi convincimenti ormai deposti, ecco che nasce in noi il senso del perturbante; ed è come se esprimessimo un giudizio del tipo: “Ma allora è vero che si può uccidere una persona col solo desiderio, che i morti continuano a vivere e diventano visibili nei luoghi in cui operarono in vita, e via di seguito!”9
Quorum ego, lascia implicitamente intuire Freud. Memoria remota e ‘pelle d’oca’ vanno insieme. Il bambino ‘sciocco’ non può imparare qualcosa di cui lui stesso è ingenua parte… E noi?
Massimo Stella
1 «Ihr naht euch wieder, schwankende Gestalten,/ Die früh sich einst dem trüben Blick gezeigt./ Versuch ich wohl, euch diesmal festzuhalten?» (J.W. Goethe, Faust I, Dedica, 1-3, trad. mia).
2 T. Mann, La Germania e i tedeschi (29 maggio 1945), trad. di L. Mazzucchetti, in Moniti all’Europa, Mondadori, Milano 1947.
3 Su Lutero come figura in bilico tra demonismo (magia) e ragione, rimando a A. Warburg, Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell'età di Lutero [1920], in Id., La rinascita del paganesimo antico, trad. it. a c. di E. Cantimori, Firenze, Sansoni, 1996, pp. 309-390.
4 Così D. Lanza in Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, Milano 2013, p. 136.
5 D. Lanza, Il gatto di piazza Wagner. Ricordi di ricordi, L’orma, Roma 2019.
6 Impropriamente tradotto in Italia con l’espressione “Il dramma barocco tedesco”.
7 J.W. Goethe, Faust I, 2365: «So muß denn doch die Hexe dran».
8 Siamo in Analisi terminabile e interminabile, cfr. Opere di Sigmund Freud, 11, Bollati-Boringhieri, Torino 1979, pp. 507-508, trad. di R. Colorni. Lo ‘scherzo’ è stato preso molto seriamente da C. Lévi-Strauss, come è noto, che riproponeva l’accostamento tra medicina sciamanica (magica) e psicanalisi, cfr. Le sorcier et sa magie (1949) in Anthropologie structurale, Paris, Plon, 2018 [1958, 1974], pp. 191-212 e L’efficacité symbolique, in Anthropologie structurale, pp. 213-234 (trad. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966).
9 Opere di Sigmund Freud, 9, op. cit., p. 109, trad. di S. Daniele.
Postfazione
Gherardo Ugolini
Del ridere e del conoscere:
la stultitia secondo Diego Lanza
A distanza di oltre due decenni dalla prima edizione (Einaudi 1997, nella collana “Saggi”), viene riproposto dalla meritoria casa editrice Petite Plaisance il libro di Diego Lanza Lo stolto. Il sintetico titolo, su cui avremo modo di ritornare alla fine di questa nota, era accompagnato da un più analitico sottotitolo esplicativo Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune: un elenco di figure storiche e letterarie alle quali nel risvolto di copertina si aggiungevano anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i “santi folli” di Bisanzio che delineano un percorso di ricerca intricato, a cavallo tra epoche, generi e contesti, in un intreccio articolato di ambiti, approcci e discipline. Il fine di tale percorso era quello di mettere a fuoco le caratteristiche di un personaggio ricorrente, di una figura topica che si riscontra regolarmente tanto in letteratura, quanto in filosofia e in antropologia: il tipo dello “sciocco”, di colui che guarda al mondo con una prospettiva particolare, eccentrica e sconclusionata per i suoi interlocutori, apparentemente “folle”, ma che in effetti riesce così ad esprimere a livello epistemologico valori divenuti insostenibili nel cosmo culturale in cui si trova ad agire. Lo stolto riesce a farsi «sovvertitore del senso comune» e lo fa suscitando in genere ilarità e divertimento.
Dal Moriae encomium di Erasmo da Rotterdam (1511) alla conferenza viennese Über die Dummheit di Robert Musil (1937) non mancano nella cultura occidentale testi che con sagacia e ironia hanno mostrato l’altro lato della stoltezza individuando in essa una possibile forma paradossale di intelligenza. Ma il libro di Lanza è un’altra cosa. Lo studioso vi traccia una mappatura articolata delle figurazioni della stoltezza, studiate e sviscerate nelle loro varianti storiche e nella persistenza di temi e motivi similari. Nel farlo non segue un percorso diacronico predefinito, ma lascia sfilare i personaggi della sua galleria; personaggi che si rincorrono per tutte le pagine del volume così da rendere più efficace la decostruzione genealogica dello “stolto” (categoria che include il buffone, il giullare, il fool, il Narr), inteso come inquietante figura dell’alterità, come archetipo concettuale di cui nessuna società e nessuna epoca dovrebbe mai fare a meno. Naturalmente la stultitia non è un elemento definibile in astratto una volta per tutte, ma si rivela una forma di sapere che assume via via a seconda dei contesti, delle epoche, dei generi letterari caratteristiche specifiche rispetto al modello di razionalità e all’ordine sociale ai quali si contrappone e dei quali vorrebbe essere trasgressione. Il tipo dello stolto, dunque, muta nel tempo e nello spazio con il trasformarsi del senso comune e di ciò che è considerato ridicolo, ripugnante o riprovevole.
Lo stolto è uno dei libri più ambiziosi e affascinanti di Diego Lanza. Forse quello che meglio lo rappresenta come studioso problematico e interdisciplinare, costituzionalmente incapace di rimanere compresso all’interno dei confini della disciplina accademica (la storia della letteratura greca) di cui è stato per tutta la vita professore all’università di Pavia. Come classificare, secondo parametri precostituiti, un lavoro del genere, uno studio in cui si spazia con la più flessibile scioltezza mentale dal racconto di fantascienza (Fiori per Algeron di Danile Keyes) a capolavori della letteratura occidentale (Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, Doktor Faustus di Thomas Mann), dall’Antico Testamento alle maschere della commedia dell’arte (Arlecchino, Pulcinella), dalla fiaba letteraria (i fratelli Grimm, ma anche Il brutto anatroccolo di Hans Christian Andersen, Pinocchio di Carlo Collodi) al cinema (Zelig di Woody Allen)? Senza contare il costante rifermento al linguaggio iconografico, dalle raffigurazioni vascolari antiche di satiri e sileni alla ritrattistica di Socrate, dal Ballo dei matti di Pieter Bruegel all’anonima incisione secentesca denominata Il mondo sotto il berretto del matto, che Lanza scelse come immagine di copertina.
Certo, ne Lo stolto si trovano anche molti spunti d’analisi direttamente derivati dalle conoscenze di letteratura e filosofia greca antica: si parla di Ulisse e di Socrate, dei dialoghi platonici e della commedia aristofanea, di Solone e degli scritti ippocratici. Questo è il terreno dove l’autore si muove al meglio e restano memorabili certe sue riflessioni sull’emozione comica e sulle strategie gestuali e linguistiche messe in opera dall’attore per suscitarla. Tuttavia, a differenza di un libro precedente dedicato alla figura del tiranno come forma archetipica declinata dai poeti tragici nelle più svariate modalità,1 qui la cultura greca, pur occupando un posto rilevante, non assume affatto una posizione privilegiata o archetipica.
Lo stolto, col suo caleidoscopico susseguirsi di intuizioni e suggestioni, sfugge dunque ad ogni etichettatura, tanto più che la lettura risulta continuamente spiazzante. Tra i personaggi più scandagliati compaiono, per esempio, Ulisse e Socrate, considerati da sempre indiscussi campioni dell’astuzia e dell’intelligenza. Ma Lanza rivela come l’astuzia di Ulisse consista fondamentalmente in nulla più che nell’affidarsi con fiducia assoluta agli aiuti degli dèi. Dal canto suo Socrate, considerato dalla tradizione «la potente figura inaugurale della filosofia» tende nei dialoghi platonici a dissimulare la propria intelligenza, secondo la nota formula del sapere di non sapere, rivelando tratti da buffone per il modo irriverente e insofferente con cui critica le ovvietà condivise e demolisce «un quadro di conoscenze che si andava metodicamente costruendo, organizzando, articolando».2 Inoltre il discorso sulla stoltezza tende ad espandersi verso altre forme contigue di emarginazione o devianza: per esempio alla bruttezza fisica (che accomuna il brutto anatroccolo di Andersen, Bertoldo e lo stesso Socrate) o anche alla credulità ingenua (vedi Esaù, Calandrino, Pinocchio).
Nella pagina finale de Lo stolto Lanza chiudeva con una diagnosi lucida e provocatoria: dopo avere ribadito la necessità e l’utilità della stultitia per il suo intrinseco rapporto di «reciproca complementarità» con la ragione, metteva in guardia dal pericolo che in tempi moderni, «sotto la luccicante policromia del pluralismo postmoderno, sotto il futile moltiplicarsi delle sue ragionevoli irragionevolezze», nel nome di una incontrastata «potente omologazione» potesse infine scomparire «ogni efficace stultitia». A due decenni di distanza dalla prima edizione, non si può non convenire su quanto fossero fondati i timori di Lanza. Rileggere Lo stolto fa riflettere sull’importanza fondamentale per ogni civiltà di poter disporre di figure trasgressive del senso comune se non altro come antidoto al conformismo della mentalità e al livellamento del pensiero.
Nel concludere questa nota mi pare opportuno ricordare che originariamente il titolo del libro prescelto da Lanza era in latino e doveva suonare, con allusione erasmiana, Principium stultitiae. I responsabili editoriali della casa editrice Einaudi obiettarono sull’opportunità di un titolo latino, per quanto di immediata comprensione, e proposero Le ragioni dello stolto. Alla fine l’autore si decise per il più efficace Lo stolto con il lungo sottotitolo d’accompagnamento. Per comprendere quanto la riflessione sul titolo fosse avvertita come importante da Lanza, in che modo si sia giunti alla decisione finale, e anche come testimonianza della prassi editoriale in uso sul finire del secolo scorso, vale la pena di citare il passo di una lettera del 5 dicembre 1996 indirizzata da Lanza all’allora direttore editoriale di Einaudi:3
Dal nostro colloquio torinese era rimasto in sospeso il titolo ed è su questo che ora Le scrivo […]. Riconosco l’inopportunità editoriale di un titolo latino; confesso che gli ero affezionato, ma non certo per la triste nostalgia della ginnastica mentale che sta rispuntando in questi tempi di tripudio postmodernista. Dunque Principium stultitiae jure in numero caesorum.
Ho riflettuto dunque durante questo tempo su come sostituirlo. Quello proposto da Lei, “Le ragioni dello stolto”, non mi persuade per almeno due ragioni: la prima è che si presenta come asseverativo e dimostrativo e usa il termine ragione che nel libro suona sempre in modo del tutto diverso; la seconda è perché gioca sull’ossimoro, che è gioco divenuto corrivo alle mode postmoderne di cui sopra.
La mia proposta è “Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune”. Lo stolto come titolo, ciò che segue come sottotitolo. Le ragioni a suo favore mi sembrano queste:
è un titolo secco, immediatamente memorizzabile;
non è descrittivo né tanto meno dimostrativo;
indica con precisione una figura e non un concetto, il che rispecchia il carattere del libro;
c’è bilanciamento tra titolo breve e sottotitolo lungo;
c’è integrazione tra titolo brusco e sottotitolo che suggerisce il percorso seguito.
Queste righe (inedite) di Diego Lanza sintetizzano alla perfezione alcune delle preziose qualità intellettuali dello studioso e dei suoi valori di riferimento: l’ironia affilata con cui risolve la questione del titolo latino accettando a malincuore l’opposizione dell’editore (la formula giuridica, ovviamente latina, jure in numero caesorum, suona qui alquanto beffarda); l’avversione per il classicismo in tutte le sue forme, soprattutto quella passatista delle lingue classiche come «ginnastica mentale»; l’insofferenza per l’ossequio verso certe mode superficiali (il «tripudio postmodernista» dell’epoca); infine, l’incalzante lucidità analitica con cui respinge la proposta del titolo Le ragioni dello stolto e motiva quella de Lo stolto elencandone puntigliosamente tutti i vantaggi.
Lo stolto rivela in ogni pagina la profonda cultura di Lanza, che l’autore fa scorrere con leggerezza senza che mai assuma la forma di greve erudizione, a partire dalla quale solleva continuamente domande e sviscera questioni, ricorrendo volentieri al paradosso e ammiccando alla provocazione intellettuale, rifiutando qualsivoglia dogmatismo in nome della complessità e della problematicità. La dissimulazione del sapere come forma elevata della conoscenza, oggetto di analisi de Lo stolto, è stata in fondo la strada che ha sempre guidato Diego Lanza nelle sue ricerche e nel suo magistero accademico. Per dirla con Shakespeare «lo sciocco crede d’esser saggio, ma il saggio sa anche troppo bene d’essere uno sciocco».4
Gherardo Ugolini
1 D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi, Torino 1977.
2 Sulle pagine de Lo stolto in cui Lanza analizza l’affinità tra dialogo filosofico platonico e teatro, ovvero le analogie tra il Socrate di Platone e il ruolo dell’attore comico del V secolo a.C. rimando a M. Stella, Platon apprend à écrire. Le philosophe et l’écriture d’Aristophane dans l’anthropologie de Diego Lanza, in R. Saetta Cottone, P. Rousseau (a cura di), Diego Lanza, lecteur des oeuvres de l’Antiquité. Poésie, philosophie, histoire de la philologie, Presses universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2013, pp. 163-174, in particolare pp. 165-168.
3 Ringrazio Nicoletta Rostan, moglie di Diego Lanza, per avermi messo a disposizione la lettera.
4 «The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool», As You Like It, Atto 5, scena 1.
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