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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 350

Roberto Fumagalli

Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico.

ISBN 978-88-7588-232-7, 2020, pp. 344, formato 140x210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [119].

In copertina: Carlo Michelstaedter, Autoritratto.

indice - presentazione - autore - sintesi

30,00

Carlo Michelstaedter rappresenta, per molti versi, un caso unico – e allo stesso tempo totalmente isolato1 – nell’insieme del panorama filosofico-letterario contemporaneo.

Michelstaedter nacque a Gorizia il 3 giugno 1887 (a quel tempo ancora parte dell’Impero austro-ungarico), e pose termine alla sua breve esistenza il 17 ottobre del 1910 (pochi giorni prima d’ottenere il diploma di laurea), sparandosi con una rivoltella, appartenuta al suo amico goriziano Enrico Mreule (emigrato l’anno precedente in Argentina).2  Nel corso degli ultimi anni della sua vita, oltre agli studi filosofici e letterari, si dedicò anche allo studio della matematica,3 alla pittura e al disegno.

Nell’autunno del 1905, prima d’iniziare a frequentare l’università a Vienna, Michelstaedter decise di recarsi a Firenze per un viaggio (deciso assieme al padre Alberto), che, inizialmente, avrebbe dovuto avere delle finalità esclusivamente culturali; ma alla fine, dopo soli pochi giorni di permanenza nel capoluogo toscano, trascorsi in gran parte visitando i capolavori artistici della città, decise di iscriversi ai corsi della Facoltà di Lettere, presso l’Istituto per gli Studi Superiori di Firenze.

Gli studi universitari, unitamente alla partecipazione al vivace clima artistico-culturale della Firenze di inizio secolo, contribui-rono, nel bene e nel male, allo sviluppo e alla maturazione del suo pensiero; e fu proprio durante gli ultimi anni universitari che Michelstaedter scrisse anche la maggior parte delle sue poesie: per molti versi illuminanti per comprendere a fondo il suo pensiero.

Il suo scritto più importante, che sarà anche l’oggetto principale del presente studio, è indubbiamente La persuasione e la rettorica.4  Questo lavoro avrebbe dovuto essere la tesi di laurea di Michelstaedter, assegnata dal professor Girolamo Vitelli, sui concetti di persuasione e rettorica in Platone e Aristotele; ma La persuasione e la rettorica, pur essendo un’opera di grande profondità e maturità, sostanzialmente si discosterà dall’argomento iniziale della tesi. Le altre opere basilari – oltre alle già citate Poesie e La persuasione e la rettorica – per lo studio del pensiero michelstaedteriano (e per cercare di giungere a delle conclusioni riguardo allo spirito e agli esiti ultimi del suo pensiero) sono Il dialogo della salute e l’Epistolario.

Nell’accostarsi alle summenzionate opere, non è sufficiente un’analisi di tipo storiografico che si pone di fronte a un evento storico, inteso come concluso, definito e cristallizzato nel tempo una volta per tutte; ma occorre immergersi nella profondità del pensiero, mostrando il senso “inaudito” secondo cui la persuasione si relaziona all’Essere.5

Certamente, uno degli aspetti che rendono il filosofo goriziano un caso per molti versi straordinario nel panorama culturale dell’Europa contemporanea è proprio l’inscindibilità di pensiero e vita (teoria e etica), che caratterizza l’uomo persuaso: dove l’etica diviene assoluta, e non più incline ad alcun genere di compromesso.

Il volgersi all’Essere, a ciò che è eterno, accomuna tutti i grandi pensatori persuasi delle epoche trascorse – e anche a venire –; perciò la persuasione ci appare anche sotto l’aspetto di un dialogo tra i grandi uomini che hanno saputo guardare oltre l’orizzonte meramente conoscitivo-razionale. Questa linea interpretativa trova una conferma nei riferimenti (epigrafi e citazioni) di Michelstaedter ai grandi persuasi della storia, in una sorta di dialogo personale all’interno di un dialogo ben più vasto, che alla fine, per usare un’espressione michelstaedteriana, «li vede tutti sulla stessa strada luminosa». Ciò che è necessario mostrare, anche attraverso il confronto con la riflessione di altri grandi pensatori, è l’essenza stessa del pensiero “persuaso”, e la forza che esso è (o sarebbe) in grado di dispiegare concretamente nel “presente eterno” dell’uomo.

Nelle opere michelstaedteriane si parla indubbiamente di più della rettorica rispetto alla persuasione;6 ma ciò non sta certo a significare la sua maggior rilevanza teoretica rispetto alla per­suasione, anzi, al contrario, l’unica via che l’uomo è chiamato a percorrere è quella della persuasione: il resto, per il goriziano, è solo cecità e sventura. Michelstaedter, però, deve necessariamente trattare e scrivere anche della via della rettorica (cioè della via della dimenticanza: dell’oblio dell’Essere e di se stessi), che porta l’uomo solo a illudersi di possedere la propria vita.7 La persuasione è trattata in un modo essenziale e ineffabile, anche per cercare di sfuggire alla “trappola”, alla gabbia, costituita dalla falsità del linguaggio conoscitivo-razionale; e perciò, paradossalmente, essa si delinea nei suoi contorni razionalmente indefiniti più facilmente, almeno in un primo momento, negando tutto ciò che è rettorica, cioè trattando di ciò che non è.

La separazione del presente studio in due parti raggruppanti differenti capitoli seguirà una suddivisione per tematiche essenziali, che Michelstaedter stesso sembra implicitamente suggerire nella Persuasione e la rettorica. Come detto, è evidente, infatti, la dicotomia radicale tra la rettorica e la persuasione: dove al primo termine possiamo associare la vita inautentica, mentre al secondo termine la vita autentica.8 Per vita inautentica s’intendono, in primis, le condizioni volitive e psicologiche che, a livello empirico, fondano fragilmente, sulla sabbia, l’esistere dell’uomo.9 Saranno perciò, anzitutto, analizzate le connotazioni individuali del vivere rettorico; ma la rettorica è anche ciò che si esplica e si realizza in una prassi etica, sociale e politica condivisa – oltre che volitiva e co­noscitiva esperita a livello individuale –, trovando una conferma e un suo sviluppo nella rigidità strutturata della società tradizionale (con la sua etica fondata su dei valori presupposti – da chi ripone in essi la propria fede – stabili ed eterni), o nell’attuazione della scienza moderna e contemporanea attraverso la somma potenza della tecnica, che rappresenta il modello “vincente” della società occidentale che attualmente domina il pianeta.

In senso completamente opposto, per vita autentica s’intende l’esperienza stessa della persuasione che si rapporta direttamente all’Essere, e che si basa, perciò, su un cambiamento radicale di rotta rispetto al vivere inautentico, negando in primis, in maniera assoluta, tutto ciò che caratterizza il vivere rettorico.

Tuttavia, l’uomo che volesse ottenere la persuasione non potrebbe accontentarsi di un semplice e “dozzinale” atto nichilistico di negazione e di rivolta, perché egli è alla ricerca della libertà assoluta che solo il contatto con la “trascendenza” dell’Essere può dargli. La persuasione consiste, perciò, nel riuscire a spiccare quel “salto” che deve far superare la dimensione inautentica del vivere rettorico, cioè quell’inganno che vale sia per la società costituita su dei valori di volta in volta ritenuti “veri” sia per il nichilismo della società dominata dalla tecnica, che nega l’assoluta trascendenza (ciò che è eterno); ma è proprio il superamento del nichilismo (e della volontà di potenza-dominio che lo connota, di cui l’esplicarsi della tecnica contemporanea ne rappresenta il parossismo) che deve condurre al palesarsi dei “mezzi” in grado di rendere l’uomo effettivamente persuaso, per farlo permanere in quello che Michelstaedter chiama – in modo ineffabile e carico di mistero – il presente eterno (o l’ultimo presente). Questi mezzi, che nessun maestro può insegnare, ma che ognuno deve trovare e reinterpretare da sé, sono l’arte autentica e soprattutto la “mistica”. Il “significato” di mistica, intesa come quell’esperienza ineffabile – e allo stesso tempo speculativa – che apre all’uomo la dimensione eterna della coincidenza degli opposti e della risoluzione della contraddizione apparente del divenire nell’Essere (della visione sub specie aeternitatis spinoziana), è essenziale e anche, al contempo, il presupposto fondamentale della stessa arte autentica e del nuovo linguaggio “risemantizzato”.

In questo senso, l’esperienza singola, antistorica e tragicamente inattuale dell’uomo persuaso, è pensata come inconciliabile non solo con il pensiero razionale di filiazione cartesiana, con il positivismo e le sue derivazioni, ma anche con il sistema dialettico idealistico hegeliano (e coi sui epigoni italiani novecenteschi), che vede nel dispiegarsi del divenire storico non casualità e contraddizione mai risolta, ma, al contrario, la realizzazione, man mano sempre più “completa”, dello spirito assoluto, dove il singolo col suo dolore perde il carattere di unicità decisiva.

Gli scritti michelstaedteriani sono costantemente pervasi dall’anelito infinito (o meglio iperbolico, come verrà chiarito nel prosieguo dell’opera) di ricondurre l’uomo di fronte al segreto della verità dell’Essere, che è racchiuso nella sua stessa interiorità spirituale (socraticamente parlando, nella sua anima), e perciò già da sempre presente. Tuttavia, l’uomo persuaso non ricerca una salvezza solipsistica in opposizione agli altri uomini; ma, anzi, proprio perché la persuasione raggiunta dovrebbe eliminare le differenze,10 le opposizioni, che illusoriamente caratterizzano il mondo empirico, egli si pone di fronte ai suoi simili come un monito di luminosa speranza che indica la via che conduce alla vera salute e alla “salvezza”: la sua stessa vita diviene il simbolo di un coraggio impossibile – opposto cioè al mondo rettorico: limitato e possibile – divenuto la vera realtà.

Michelstaedter però, nella prefazione alla Persuasione e la rettorica, dichiara immediatamente di parlare tanto per parlare, e di sapere che non persuaderà nessuno.11 Con ciò egli mette subito in guardia dai pericoli e dalla disonestà dell’uso del linguaggio, e soprattutto dai suoi limiti che irretiscono l’uomo all’interno della rettorica della φιλοψυχία (cioè l’amore per la vita, intesa come viltà).12 Egli è costretto con le parole a far guerra alle parole; e gli stessi suoi critici, nell’interpretarlo, non farebbero altro che dar voce alla loro vanità (doppia disonestà), invece di porre in atto la vera filosofia e cercare essi stessi la persuasione in ciò che autenticamente potrebbero fare.13

Secondo Michelstaedter, la vita stessa è il fulcro di ogni persuasione (come ha insegnato Socrate, che nulla ha lasciato di scritto e che trascorreva gran parte del suo tempo nell’agorà alla ricerca della verità condivisa). «Socrate il filosofo: Aristotele professa il sistema della propria filosofia. Vana cosa è la filosofia se esce dalla vita: l’ultima illusione, e l’ultimo gioco del vecchio rimbambito; l’ultimo ottimismo che arresta la vita nel suo glorioso svolgimento verso l’universale, nella gioiosa liberazione dell’amore particolare per l’amore universale: la morte».14

Roberto Fumagalli

1 E. Garin, in Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 102, sottolineando questo isolamento e marginalità, lo definisce «un intruso per la filosofia italiana del Novecento».

2 Enrico Mreule (1986-1959) fece conoscere Schopenhauer a Michelstaedter, e, probabilmente, lo iniziò anche alla conoscenza del buddhismo. Lo scrittore C. Magris ne scrisse una biografia romanzata, nel suo libro Un altro Mare, Gar­zanti, Milano 1991.

3 Terminati gli studi ginnasiali a Gorizia, Michelstaedter si iscrisse alla Facoltà di Matematica dell’Università di Vienna; ma tuttavia, anche negli anni successivi, come testimoniano varie lettere, non abbandonerà mai il proposito di andare a studiare a Vienna (una volta conclusi gli studi a Firenze).

4 Il titolo dell’opera – pubblicata postuma – non fu mai indicato da Michelstaedter; ma fu, sostanzialmente, deciso da Emilio Michelstaedter – cugino di Carlo –, e utilizzato fin dalla prima edizione del 1913 (presso l’editore Formiggini di Genova).

5 S’indicherà d’ora in poi – in modo per ora necessariamente vago – con Essere (con la vocale iniziale in maiuscolo) – alla stregua del Logos (inteso in senso eracliteo) e vedremo, per esempio, anche del Tao (nel pensiero di Lao Tzu) – il “principio” trascendente eterno, che non è nessun ente particolare oggettivabile (ma tuttavia la totalità dell’essente sussume in sé), che sarà definito meglio, per quanto possibile (non essendo intrinsecamente concettualizzabile), nel prosieguo dell’opera.

6 G. Gentile, Michelstaedter, in «La critica», XX, 4, 20 novembre 1922, p. 335, scrive: «Michelstaedter ferocemente attacca la rettorica, che era il suo tema, e della persuasione si serve quasi soltanto come di termine di paragone che illumini la fosca natura di quella».

7 Una via illusoria quanto quella della doxa narrata nel poema di Parmenide.

8 In un recente studio critico sull’opera di Michelstaedter (P.M. Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere, Inschibboleth, Roma 2017) si dà, secondo l’autore, una terza via, cioè quella dell’illusione della persuasione; ma l’illusione della persuasione è comunque sempre una forma di non autenticità e di falsità.

9 La volontà a cui Michelstaedter fa riferimento, intesa similmente al “Wille” schopenhaueriano, abbraccia tutto l’esistente, non solo l’uomo e il regno della vita organica.

10 Intese in senso metafisico, come magistralmente scritto, in tempi più recenti, anche da M. Sgalambro nel “Dialogo sul comunismo” in De mundo pessimo, Adelphi, Milano 2004.

11 Cfr. PeR, 35.

12 Cfr. PeR, 50.

13 Cfr. C. Michelstaedter, Il prediletto punto d’appoggio della dialettica socratica e altri scritti, a cura di G.A. Franchi, Mimesis, Milano 2000, p. 119.

14 Ivi, pp. 119-120.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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