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La discussione filosofica e sociologica sull’individualismo moderno è giunta ormai ad un livello di articolazione e di profondità apprezzabili. I saggi sono numerosi, le riviste specializzate esistono ed hanno un pubblico attento e critico. Anche chi è del tutto estraneo al dibattito filosofico conosce il concetto di individualismo di massa, anche perché la solitudine metropolitana non è un’invenzione di psicologi disoccupati, ma è una realtà materiale delle società contemporanee.
Nello stesso tempo, c’è il rischio che la discussione sull’individualismo moderno scada nell’ovvio e nel banale, ed oscilli in modo sterile ed impotente fra la nostalgia di un tempo antico conviviale e solidale e la fuga in avanti avveniristica di individui collegati per Internet al mondo intero, in cerca di un recupero virtuale di ciò che si è perduto nel mondo reale. A un livello più sofisticato, c’è il pericolo che la discussione sull’individualismo moderno si svolga fra i due poli fittizi delle due scuole teoriche rispettivamente denominate individualismo e comunitarismo.
Se personalmente fossi costretto a scegliere in modo “digitale”, premendo cioè un tasto, sceglierei come male minore il comunitarismo, che contiene almeno alcuni timidi elementi di critica alla globalizzazione imperialistica. Ma questo breve saggio è stato scritto appunto per rifiutare recisamente la dicotomia fra individualismo e comunitarismo, una dicotomia ancora più illusoria di quella già estremamente illusoria fra destra e sinistra, dal momento che la corretta impostazione del problema si compendia appunto nella formula individui liberati in comunità solidali.
Tutte e quattro queste parolette esprimono concetti, e tutti e quattro questi concetti sono indispensabili. La mancanza di uno solo di questi concetti comporterebbe infatti fraintendimenti in senso individualistico e/o inversamente organicistico. Bisogna dunque organizzare la discussione critica in modo da sviluppare coerentemente questi quattro concetti.
Non è facile. Tuttavia, per rendere più facile al lettore la comprensione di questo saggio e la possibilità di eventuale reazione critica ad alcune delle sue conclusioni, ho deciso per chiarezza di sviluppare l’argomentazione attraverso quattro punti principali, che anticiperò immediatamente in forma sintetica prima di cominciarne l’analisi.
In primo luogo, so per esperienza che ogni discussione sull’individualismo rischia di essere confusa ed approssimativa se non si esplicita chiaramente all’inizio la propria posizione sia in termini di antropologia filosofica sia in termini di genesi storica del problema dell’individualità. È dunque necessario che io espliciti fin da subito la mia posizione, e lo farò nei primi due paragrafi. Innanzitutto, affermerò che la natura umana esiste, ed inoltre che la maggior parte dei suoi comportamenti, a cominciare dal linguaggio, deve essere considerata innata.
Si tratta, in breve, della posizione di Noam Chomsky, che considero esatta nell’essenziale e pertanto condivido largamente. Secondo, affermerò che a mio avviso l’impostazione filosofica più corretta, pertinente e geniale sulla questione filosofica dell’individuo è stata fatta da Hegel a proposito della situazione spirituale dell’Impero Romano, e che questa impostazione, per ragioni che chiarirò brevemente, mi sembra tuttora sostanzialmente insuperata, e deve pertanto essere tenuta sempre presente nel prosieguo della discussione.
In secondo luogo, è necessario affrontare l’analisi teorica della genesi dell’individuo moderno radicalizzando l’ipotesi teorica della separazione di principio fra borghesia e capitalismo. Si tratta di un’ipotesi teorica che ho già ampiamente sollevato in alcuni miei precedenti lavori, ma questa ipotesi resta velleitaria e sterile se non viene radicalizzata, coerentizzata e soprattutto applicata. Vi è infatti una sorta di “capitalismo utopico” delle origini, che promuove l’utopia di una società di individui sovrani dotati della triplice caratteristica di essere uomini razionali, borghesi colti e capitalisti efficienti.
Questo vero e proprio “capitalismo utopistico” si scontrerà con la dura realtà storica che lo renderà impossibile ed impraticabile, e vi è qui un interessante elemento di analogia con quel vero e proprio “socialismo utopistico”, nel senso negativo di impossibile e di impraticabile, che è stato il socialismo reale ed il comunismo storico novecentesco. Il pensiero di Adorno è scelto come punta alta di comprensione implicita di questo fallimento, e per questo verrà privilegiato rispetto ad altre risposte possibili, di cui per brevità verranno soltanto ricordate quelle di Wittgenstein e di Habermas.
In terzo luogo, verrà ribadita l’interpretazione teorica di Marx in termini di individualismo radicale, addirittura eccessivo. Marx non avrebbe dunque “peccato”, ammesso che questa stupida parola abbia un senso, per carenza di individualismo, ma per suo eccesso. Nello stesso tempo, Marx aveva a mio avviso impostato correttamente la questione nei suoi termini essenziali, come mostra la nota citazione dei Lineamenti, che qui riproporremo benché essa sia notissima: una società postcapitalistica è possibile soltanto sulla base della libera individualità, non di un fantomatico e regressivo “uomo nuovo” gregarizzato e “collettivizza to”. L’uomo collettivizzato è anzi l’anticamera di una reinserzione subalterna nell’atomismo capitalistico al di là della coscienza infelice borghese e della coscienza rivoluzionaria proletaria. Fra mille citazioni possibili, mi limiterò ad alcune frasi di Franco Fortini che a mio avviso pongono correttamente la questione.
In quarto luogo, per finire, sosterrò che la sinergia fra il doppio fallimento del capitalismo utopico e del socialismo utopico ripropone in modo nuovo la questione dell’individuo moderno al di là di ogni alternativa fittizia fra fautori dell’individualismo e partigiani del comunitarismo, consentendo nello stesso tempo di fare una relativa chiarezza su di una questione filosofica tanto cruciale.
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