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Introduzione di Ilaria Rabatti
Dentro uno specchio rotto
Ti si rompe lo specchio e dell’universo che conteneva
non rimane che una macchia nera, frastagliata sul muro.
M. Guidacci
Il primo atto di coraggio che si può chiedere a se stessi
è di vedere onestamente, fino in fondo,
senza chiudere gli occhi,
fino a qual punto si ha paura.
M. Guidacci
… il problema di ritrovarsi è più profondo
e infinitamente più generale
di quello (analogo) che si presenta nella relatività fisica.
P. Valéry1
«Nel vano d’una finestra», dentro una stanza silente, immagino Margherita che in un labirinto d’angoscia cerca di ritrovare i tratti del suo volto riflessi nell’opacità di un vetro. Se fra tutti i suoi libri dovessi sceglierne uno, forse sceglierei proprio questo, il libro-fantasma con lucida pena tenuto dentro per tutta la vita. Una miniera nascosta, vibrante di umana inquietudine, un diario-taccuino di lavoro in cui è registrato di tutto: intuizioni, smarrimenti, lacerti poetici, sogni, meditazioni, severe autoanalisi e disarmanti confessioni. «Certamente un libro del nadir», difficile da definire anche per l’autrice, che introduce e conduce a quella che Margherita Pieracci Harwell chiama la «trilogia dell’amarezza»:2 Un cammino incerto (1970), Neurosuite (1970) e Terra senza orologi (1973).
Con il ritmo della poesia e la concretezza della prosa, Lato di ponente è anche un libro filosofico, intessuto di citazioni che sono per lei voci dialoganti; numerosi i rimandi, che talvolta l’autrice nomina esplicitamente: da Qohélet ad Agostino, Pascal, Donne, Dickinson, Leopardi, Rilke, Kafka, Valéry, Eliot. Oscillante tra la coscienza del vuoto e la ricerca di senso, tra la paura della solitudine e l’orgoglio (dickinsoniano) della solitudine stessa, il libro registra i segni di una profonda crisi.
La scrittura resta comunque limpida e ferma, e, come sempre nei libri della Guidacci, ha il dono grande della semplicità, sia che si rapprenda in una forma essenziale da frammento presocratico o da “quartetto” eliotiano, sia che si distenda in composizioni di più ampio respiro meditativo. «Ripartire da zero è impossibile com’è impossibile rinascere», scrive lapidaria Margherita in un pensiero. La logica è stringente e si addensa in sfida, anche nei confronti di chi legge. Intorno a questa ineluttabile certezza, infatti, il sentimento della disgregazione e dispersione del tempo, l’angoscia del vuoto e della morte, l’ossessione del decadimento del corpo, si risolvono in una meditazione integra e onesta, talvolta dura e senza reticenze, sul significato e le difficoltà del vivere. È, come dice Margherita stessa nella premessa, l’inizio del tunnel, l’abisso della malattia depressiva che minerà il suo equilibrio e la porterà fin dentro l’inferno della clinica neurologica. Rivolta a ponente, il versante dell’ombra, nell’arrischiato percorso d’introspezione (e introversione) su cui coraggiosamente s’incammina una catabasi che implica il confronto con il fantasma di una perdita primordiale (la morte del padre) e rimanda ad una perigliosa immersione nelle «acque oscure»3 dell’inconscio («L’uomo che esplora gli abissi della propria anima ha più coraggio di quello che esplora gli abissi dell’universo»)4 Margherita cerca di farsi luce attraverso le domande, ascoltando dice quella «consueta voce disperata con cui dialogo con me stessa». Anzi, l’insistente e continuo interrogarsi sul senso delle proprie azioni nel tempo e sulla propria responsabilità personale diviene forma speculare di questa auscultazione di sé, che assomiglia ad una profonda, impietosa resa dei conti dell’autrice con se stessa, i cui pensieri, come dentro uno specchio rotto, assillati di domande senza risposta, lasciano spazio alle proprie debolezze e difficoltà, anche espressive, evocando il limite della dicibilità della scrittura («quel che dico distrugge sempre quel che ascolto»)5 ma soprattutto aprono al «vuoto bruciante» di ciò che nel tempo non si è compiuto:
La vita che ci duole è quella che non abbiamo vissuto. Siamo stanchi soprattutto di ciò che non abbiamo fatto. Ciò che abbiamo fatto potrà essere, se non altro, consegnato alla misericordia dell’oblio. Ma ciò che non abbiamo fatto rimane incorruttibile ossessione: incorruttibile desiderio, incorruttibile rimprovero. A volte penso che l’Inferno non sia la presenza di determinate torture, ma solo un immenso vuoto bruciante.6
Al di là del poco interesse che la poetessa ha sempre dichiarato per la cura degli scartafacci, è possibile ripercorrere la storia elaborativa di Lato di ponente proprio attraverso le carte custodite nel Fondo Guidacci,7 grazie al paziente e attento lavoro svolto da Carolina Gepponi, che studiando la donazione Minarelli ne ha rivelato per prima l’esistenza.8 La storia del libro è infatti anche (o soprattutto) la storia di un’amicizia letteraria, quella di Margherita con il giornalista bolognese Tiziano Minarelli (1922-2006) con il quale per quasi un decennio, dal 1982 al 1990, la poetessa intratterrà un fitto scambio epistolare.9 Un tempo d’amicizia intenso e profondo, scandito dalle lettere e ribadito dall’estrema, «liberatoria», volontà guidacciana di affidamento testamentario della propria opera, anche di quella sommersa, a conferma che sono in fondo gli amici anche quelli a venire, gli «ipotetici» lettori gli unici per cui si scrive:
Ho tanti fogli sparsi, tante cose non ricopiate, e a volte penso che se morissi a un tratto (come sarà probabilmente mio destino morire, essendo una “paziente a rischio”, per via della pressione) tutta questa roba, che io sola sono in grado di vagliare e distinguere, verrebbe presa in una bracciata e data (anche giustamente) a qualche raccoglitore di carta straccia. Ho pensato che la vorrei ricopiare tutta e mandare a te, che almeno la leggeresti e la terresti in ordine. Ci sarebbe materia, credo, per una mezza dozzina di libri (più di prosa che di poesia; e più noiosi che ispirati; ma mi piacerebbe portarli almeno allo status di dattiloscritti). Soltanto che il tempo, dove lo trovo? E l’inerzia in cui mi sento sempre più sprofondare, chi me la fa vincere? Ma se riuscissi a vincerla pura ipotesi ti sentiresti di essere il destinatario di tutti questi fondi di cassetto?10
Dunque, sarà proprio lo stimolo di questo legame amicale che spingerà Margherita, a metà degli anni Ottanta, a tentare di rimettere ordine alla «diaspora delle carte» nei propri «disordinatissimi cassetti», ed a portarla a maturare progetti antologici (rimasti tutti però inattuati)11 che troveranno poi un effettivo ma ridimensionato compimento nella stesura per l’amico Minarelli di tre quaderni manoscritti intitolati dall’autrice Tra pietra e corrente, Paesaggio con rovine I e Paesaggio con rovine II.12 I 240 pensieri che compongono Lato di ponente (a nostra cura numerati per favo rirne la distinzione) sono stati trascritti dalla poetessa nel secondo quaderno, Paesaggio con rovine I, finito di copiare il 6 ottobre 1987, come precisa Margherita stessa nell’explicit a Tiziano Minarelli. L’urgenza di ricopiare e consegnare all’amico tutta la propria opera le rivelerà infatti il profilo definitivo del libro. Un libro rimasto a lungo “sommerso” e che cronologicamente affonda le radici nel decennio di massima sofferenza psicofisica da lei patita, gli anni Sessanta, quando tra i tanti assilli che si trovò a fronteggiare (il trasferimento da Firenze a Roma, gli impegni domestici e professionali, la crisi coniugale e quella religiosa) vi fu anche una impasse creativa. Secondo quanto riportato dalla Guidacci stessa nella nota introduttiva, il fulcro del momento compositivo dei pensieri risalirebbe al 1963, eccetto un inserto di juvenilia (38 pensieri isolati nel testo da una nota di apertura e di chiusura) appartenenti invece agli anni universitari. In realtà, Lato di ponente rivela con tutta evidenza una elaborazione molto stratificata dal punto di vista cronologico, restando work in progress almeno fino a tutto il 1965 e anche oltre, come testimoniano due dattiloscritti, inventariati tra le carte del Fondo con la sigla FG4 e FG5.13 Dunque, dopo averli dattiloscritti a metà degli anni Sessanta, evidentemente ritenendo possibile una loro pubblicazione, i pensieri verranno poi di fatto, per quasi un ventennio, intenzionalmente abbandonati dalla loro autrice ad un destino di provvisorietà, restando quasi completamente inediti,14 salvo riaffiorare talvolta in forma carsica in raccolte poetiche cronologicamente anche molto distanti.15 Una tentazione di clandestinità insidia del resto quasi tutte le opere nate in questo doloroso frangente, dalla raccolta parzialmente edita Un cono d’ombra all’inedita Avourneen in cui l’aperta confessione del proprio disagio esistenziale lascia affiorare in moduli stravolti, quasi espressionistici, i temi scottanti della follia e del suicidio attestata dall’autrice stessa che a proposito della scelta della lingua inglese dirà: «L’uso dell’inglese mi serviva per assicurarmi della “privacy” e contemporaneamente era desiderato strumento di distacco da me stessa».16
In conformità con il quaderno Paesaggio con rovine I, il testo dei pensieri pubblicati in Lato di ponente rispetta sempre quello stabilito dalla Guidacci nella trascrizione manoscritta. Assemblato in fretta presentendo ormai vicina la fine del proprio viaggio umano senza il consueto lavoro di revisione e montaggio dei testi, Lato di ponente rivela una evidente natura composita, smentita però sul piano tematico, nella costante ripresa e indagine di alcuni motivi chiave che legano i pensieri in una totalità profondamente coerente.17 L’asse del libro in cui tornano in un continuum alcuni nuclei salienti della riflessione poetica guidacciana è infatti il tema del tempo. I titoli stessi, Col tempo e La durata e la fine, come concepiti in un primo momento, sottolineano il valore centrale della meditatio mortis all’interno del libro, che appare, tra echi dickinsoniani, come scandito dai rintocchi di un orologio immaginario a cui bisogna obbedire: «Tu che avesti il primo messaggio, anche l’ultimo devi ora accettare coraggiosamente. Sorgesti a primavera, coi fiori, simile a un’iris, radioso slancio tu stessa verso il cielo. Ora ti chiama il colchico, la mano che ti fa cenno perché tu discenda nella terra silenziosa».18
Il senso della fine ed il tema della vanitas, rifuggendo da ogni astrazione intellettuale, divengono nel libro i Leitmotive che dispiegano, in un corposo sistema di metafore biblico-barocche (la rosa, la polvere, la cenere, i vermi, le rovine, l’ombra, lo scheletro, lo specchio) l’immagine ossessiva della morte: «I distruttori più implacabili sono quelli che lavorano nell’ombra: il tarlo, la tignola, la ruggine, l’attimo che passa e ci mina senza che noi ce ne accorgiamo».19 Anzi, secondo una metafora di spiccata derivazione rilkiana, la morte è qualcosa che cresce in noi («Io non attendo la mia morte, io sono la mia morte che sta crescendo»)20 come la larva necrofora, stadio prenatale del verme, che in un pensiero espunto dalla versione definitiva del libro, ma presente nei testimoni dattiloscritti, allude alla morte come al monstrum negativo da cui siamo minacciati d’invasione: «Come puoi conservarla [la vita] se il verme è annidato dentro, se la larva della morte è stata deposta nell’ovulo ed è ingrossata con l’ingrossare del frutto? Mentre tu vegli sulla buccia, il verme ha già divorato la polpa».21
Il dolore per lo scorrere del tempo e la dissoluzione di ciò che è terrestre ed anche l’anima diventa qui “deperibile” carica i pensieri di un ricco repertorio iconologico di tipo funerario/cimiteriale afferente alla marcescenza («Quel che non si consuma marcisce. Fra tutte le sostanze l’anima è la più deperibile»),22 al disfacimento (il «comune calpestato disfacimento» dei fiocchi di neve), alla polverizzazione («La polvere che calpestiamo è stata tutto fuorché polvere. Eppure non ricorda di essere stata altro che polvere»),23 al seppellimento («Ogni giorno, infatti, a partire dal giorno stesso della nascita, noi ci scaviamo un po’ più la tomba. Il tempo che passa e che noi ci lasciamo dietro come un mucchio di terra è la vita che esce da noi, lo spazio vuoto che ci si allarga davanti è la morte che rimane ad attenderci e in cui saremo calati»),24 al definitivo annullamento nell’humus notturna («[…] poi viene la notte e inghiotte l’ombra e anche l’albero, e questa è un’immagine della nostra vita nel suo finire»).25
Data la fragilità del mondo, anche il tema della vaghezza, ovvero il modo di essere delle cose che non hanno confini precisi, è al centro di numerosi pensieri e viene evocato dalla poetessa sia sotto un aspetto semantico («Poiché le forme della realtà, esteriore e interiore, sono infinitamente più numerose delle parole, accade spesso che una parola designi non una sola realtà, ma un grappolo o una famiglia di realtà più o meno arbitrariamente avvicinabili. […] Ci accorgiamo infatti che usando una stessa parola non intendiamo la stessa cosa»),26 sia epistemico («Ogni nostra conoscenza è imperfetta, non solo perché vi sono limiti di comprensione connaturati alla nostra mente, ma anche perché la cosa conosciuta cambia durante il tempo che impieghiamo a conoscerla»),27 sia metafisico («I confini che nell’astratta crudezza dei nostri pensieri ci appaiono come i più ovvi, sono in realtà i più labili ed imprecisi, i più difficili a determinare. Così è il confine tra la salute e la malattia, quello tra la saggezza e la follia e perfino, di attimo in attimo, il confine tra la vita e la morte»).28
Il reale si frammenta in istanti slegati, numerabili in un «conto alla rovescia» tendente a zero, divenendo paradigma ripetitivo di una realtà del tutto priva di sfondo e di significato, a cui introducono le ricorrenti immagini, legate allo sguardo, di specchi, finestre, lenti, riflessi;29 un teatro delle assenze che spalanca improvvisi abissi nella quotidianità più usuale ed anticipa i toni allucinatori di Neurosuite: «Mentre tornavo a casa, in autobus, gli alberi, le case, il cielo mi sono parsi improvvisamente inconsistenti, come figure dipinte su un velo. Mi è parso che tutto il mondo non fosse altro che una specie di sipario in procinto di alzarsi. Ma alzarsi su che cosa? Sulla realtà definitiva o sul vuoto?».30
Mentre lo spazio abitabile si riduce ad una soglia31 e la realtà tutta (anche quella del corpo) appare percorsa da frane, crolli, crepe, scivolamenti che alludono alla trasformazione come drammatica esperienza di depersonalizzazione,32 Margherita si ritrova bloccata in un raggelante33 immobilismo depressivo che, in numerosi pensieri, rievoca l’immagine kafkiana della pietrificazione: «Un certo indurimento è condizione di sopravvivenza […] Chi è così calpestato finirà col farsi pietra, perché la pietra non soffre ad essere calpestata», e ancora: «L’inerzia non è un esorcismo contro la morte è essa stessa una forma di morte. Si chiama pietrificazione, e io mi sono pietrificata».34
Anche le forme circolari (la ruota, il braccialetto, l’anello) metafore ricorrenti del tempo in tutta la poesia guidacciana, qui non racchiudono più nulla di vivo, ma manifestano inquietanti la loro natura pietrificante e abissale, divenendo gorghi di vuoto (cerchi «dove l’oro chiude soltanto aria»), simboli angoscianti di una casualità senza senso (gli «spicchi della roulette»),35 di una prigionia claustrofobica da cui si anela fuggire: «L’atto suicida non è che il segno esteriore di un evento già intimamente compiuto: come per una sposa l’anello nuziale»: immagine ripresa poi nell’amara ironia dell’indovinello [109]: «Qual è la prigione più piccola del mondo? […] Risposta: è l’anello nuziale».
Forse, tra tutti i vuoti e le assenze passate in rassegna nel libro, la ferita che brucia di più è proprio il confronto con la perduta realtà dell’amore, sempre comunque da lei ricercata e rimpianta. Eppure Margherita, grazie ad una lucidità che comprende il periplo dell’ombra, sceglie di affrontare questa condizione senza ipocrisie perbeniste, ad occhi aperti: pietra e acqua, ombra e luce. E se rimettersi al mondo con minor dolore non è possibile, ciò che si può fare questo mi sembra dirci Margherita è affrontare la disillusione agonicamente, corpo a corpo nella scrittura, per trarre ancora una volta, da tutto il tragico possibile, un germe di senso.
Note
1 P. Valéry, Quaderni, vol. 4, a cura di J. Robinson-Valéry, Milano, Adelphi, 1990, p. 484.
2 M. Pieracci Harwell, Introduzione a A.M. Tamburini, Margherita Guidacci. La poesia nella vita, Aracne, Roma 2019, p. 16
3 Come recita l’epigrafe dedicatoria di Neurosuite: «a Bruna a Giulio a Madeleine / a quanti conobbero le acque oscure / agli scampati ai sommersi».
4 Pensiero [58].
5 Pensiero [162].
6 Pensiero [8].
7 Il “Fondo Margherita Guidacci” è custodito presso L’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze. Il nucleo principale del Fondo è costituito dalla donazione compiuta dai figli della poetessa nel 2004, a cui si sono aggiunte quella dell’amica Anna Ninci Meucci, sempre nel 2004, e quella del giornalista bolognese Tiziano Minarelli, effettuata nel 2008 dal nipote Alberto Minarelli.
8 Si veda il contributo di C. Gepponi, Poesie inedite e disperse di Margherita Guidacci, in “Studi di Filologia Italiana”, vol. LXVIII, 2010, pp. 265-281.
9 Cfr. Un carteggio di Margherita Guidacci. Lettere a Tiziano Minarelli, a cura di C. Gepponi, Firenze University Press, 2015.
10 M. Guidacci, Lettera 130 del 20 maggio 1985, in Ead., Un carteggio di Margherita Guidacci. Lettere a Tiziano Minarelli, cit. p. 335.
11 A proposito dei progetti antologici maturati dalla Guidacci in questi anni e rimasti inediti, nonostante l’alacrità della scrittrice nel pianificarne una pubblicazione, si veda l’introduzione di C. Gepponi a Un carteggio di Margherita Guidacci. Lettere a Tiziano Minarelli, cit. pp. 25-26.
12 Il primo quaderno Tra pietra e corrente raccoglie in ordine cronologico tutta la produzione poetica guidacciana edita ed inedita fino agli anni Settanta (La sabbia e l’Angelo, Morte del ricco, Giorno dei Santi, Paglia e polvere, Un cono d’ombra, Avourneen, Un cammino incerto). Spicca, come assolutamente inedita, databile attorno alla metà degli anni Sessanta, la raccolta in lingua inglese Avourneen («potrebbe intitolarsi anche Buio pesto») drammatica «continuazione» di Un cono d’ombra (secondo quanto indicato dalla Guidacci stessa nella nota premessa alla trascrizione); opera, quest’ultima, composta di prosa e poesia, dalla gestazione più ampia e travagliata, databile tra il 1951 ed il 1960 e solo parzialmente inedita (una parte delle poesie fu infatti presentata nel 1965 al Premio Cervia e l’anno successivo pubblicata nell’antologia Poeti a Cervia). Il secondo quaderno, Paesaggio con rovine I, accoglie la stesura completa di Lato di ponente. Il terzo quaderno, Paesaggio con rovine II, iniziato a trascrivere nel maggio del 1988, contiene la stesura delle prime 24 poesie di Neurosuite. Il quaderno, rimasto incompiuto, non è mai stato consegnato a Minarelli e figura tra le carte di lavoro del “Fondo Guidacci” (si veda per approfondimenti il saggio di B. Aldinucci e S. Sferruzza, Come «su delle esattissime bilancine da farmacista». La raccolta Neurosuite nell’Archivio Guidacci, in “Filologia Italiana”, n. 15, 2018, pp. 203-221).
13 Per la storia compositiva di Lato di ponente, è interessante notare che i due dattiloscritti, con i numerosi ritocchi a penna, testimoniano diversi stadi di lavorazione di almeno una parte dei pensieri (quelli numerati da 1 a 60): più ampia ed eterogenea la prima, più organica e definitiva (con le sue numerose esclusioni) la seconda. In particolar modo, la compresenza testuale nel dattiloscritto FG4 di una prima redazione con numerose varianti in lingua italiana, ma anche francese ed inglese, dei primi sessanta pensieri insieme alla trascrizione di Avourneen (databile tra il 1965 ed il 1967), ci consente di ampliare, almeno fino al 1965, la data di elaborazione del libro.
14 Una scelta di prose degli anni Quaranta intitolata Pensieri verrà pubblicata con lo pseudonimo di Andrea Luti in “Terraferma”, a. I, n. 4, 25 novembre 1945, p. 6 e successivamente ripresa con il titolo Fogli sparsi (e alcune varianti testuali) in “Lettera”, n. 3, n.s., febbraio 1983, pp. 65-69. Alcuni pensieri degli anni Sessanta verranno pubblicati in Da un quaderno di riflessioni varie, “La Fiera Letteraria”, a. XL, n. 45, n.s., 21 novembre 1965, p. 3 e in “Linea Nuova”, a. III, nn.1-2, gen.-apr. 1967, pp. 38-41.
15 Per una ricostruzione filologica dei nessi intertestuali tra la prosa dei pensieri e la produzione poetica guidacciana che dagli anni Sessanta arriverà fino a Neurosuite e oltre, si vedano i saggi di B. Aldinucci e S. Sferruzza, Sull’orlo di “Neurosuite”, in “Studi di Filologia Italiana”, vol. LXXIII, 2015, pp. 443-462 e Come «su delle esattissime bilancine da farmacista» ecc., cit., n. 15, 2018, pp. 203-221.
16 Nota che introduce la trascrizione di Avourneen nel quaderno Tra pietra e corrente.
17 Di un tentativo di ordinamento di Lato di ponente per costanti tematiche, riconoscibile anche nella titolazione di alcuni pensieri, parla la Guidacci stessa nell’explicit a Tiziano Minarelli: «In un primo momento volevo ordinare tutto per argomento, ma non ce la facevo e allora ho scelto di lasciar tutto com’era».
18 Si veda ad esempio la poesia 764 di Emily Dickinson nella traduzione fatta da Margherita Guidacci: «Il presagio è quell’ombra che si allunga sul prato, / indice di tramonti, / ad avvertire l’erba sbigottita / che su lei presto scenderà la notte».
19 Pensiero [29].
20 Pensiero [18].
21 Si confronti questo pensiero con la descrizione della morte del nonno, Christoph Detlev, narrata da R.M. Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di G. Zampa, Milano, Adelphi, 1992, pp. 14 ss.: «[…] Prima si sapeva (o forse si presentiva) che l’uomo aveva in sé la morte, come il frutto il nocciolo. […] La morte di Christoph Detlev viveva ormai da molti, molti giorni a Ulsgaard, e parlava con tutti e chiedeva. Chiedeva d’essere portata, chiedeva la camera azzurra, chiedeva il salottino, chiedeva il salone. Chiedeva i cani, chiedeva si ridesse, parlasse, giocasse, tacesse, e tutto in una volta. Chiedeva di vedere amici, donne e defunti, e chiedeva di morire lei stessa: chiedeva. Chiedeva e gridava».
22 Pensiero [233].
23 Pensiero [7].
24 Pensiero [22].
25 Pensiero [224]. Cfr. anche Pensiero [171]: «Così di ogni cosa che amammo e che ci è stata tolta, resiste un po’ la memoria, prima che il cielo della nostra anima sia invaso interamente dalla notte».
26 Pensiero [78].
27 Pensiero [87].
28 Pensiero [184].
29 Cfr. Pensiero [89]: «Molte volte ho l’impressione d’intuire qualcosa d’importante qualcosa che si muove sul fondo. Mi provo ad afferrarlo e non riesco: mi sguscia tra le dita come una serpe d’acqua. Ogni volta che provo fallisco. Finisco per dubitare di quella prima impressione. Forse la verità è che non intuisco nulla? O intuisco davvero qualcosa e non arrivo ad esprimerlo per difetto di linguaggio? O forse ipotesi più amara non vi è nulla da intuire e io mi sto semplicemente perdendo in un gioco di riflessi sulle acque?».
30 Questo pensiero, espunto dalla redazione finale del libro, proviene dal dattiloscritto FG4 e che contiene anche un primo abbozzo della poesia che con il titolo Qui entrerà in Neurosuite: «Tante tende che sbattono / Tante porte che si chiudono / Tanti spiragli che balenano / E tutti danno sul vuoto».
31 Il sentimento della soglia intesa qui come luogo di perdita, di oblio e di morte, ma anche di attesa, è evocato in numerosi Pensieri, come ad esempio in [143] e [144].
32 La dissociazione temporale riflette quella dell’io, la cui identità, frammentata in una successione di momenti separati, minaccia di disfarsi e di perdere ogni continuità con il passato, come nel Pensiero [191] in cui l’immagine dell’albero, tanto cara alla poetessa, diviene, disiecta membra, il simbolo rovesciato di un impossibile riconoscimento: «Tento di richiamare la mia vita passata e non solo essa non si ricompone sotto i miei sforzi, ma non riesco neppure a riconoscerla. È come se tentassi di riconoscere i rami di un albero ormai tagliato e ridotto a fascine».
33 In una lettera del 21 maggio 1988 a Tiziano Minarelli, Margherita, rievocando la drammatica paralisi emozionale patita durante la scrittura di Lato di ponente, dirà: «Quando lo rileggo, fa anche a me una certa impressione, soprattutto per la calma con cui mi esprimevo, sentendomi profondamente disperata. In Avourneen urlavo, e anche in Neurosuite sarebbe ricominciato qualche fremito, ma lì avevo toccato una serenità glaciale, come se fossi chiusa e mi pareva d’esserlo in un blocco di ghiaccio». Un carteggio di Margherita Guidacci. Lettere a Tiziano Minarelli, cit., p. 514.
34 Pensiero [228].
35 Pensiero [172].
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