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Henry Arnold
Prefazione
Un viaggio verso la fine del tempo
Il tempo è un fenomeno inspiegabile. Il tempo è vita e la vita è un viaggio verso la fine del tempo.
Quello che stiamo vivendo diventa qualcosa che abbiamo vissuto. Tempo si trasforma subito in tempo passato. Gone ...
Il film ha lo scandaloso privilegio di uscire dal tempo. Per giocarci, accelerarlo o fermarlo, a suo piacimento. Il film è tempo compresso: le lunghe 26 ore di Zweite Heimat corrispondono in realtà a 10 anni. Il film salta, omette e scorre in avanti, per fermarsi all’improvviso. In un momento, un attimo “così bello...”; oppure doloroso.
E può fare anche di più: rende il tempo ripetibile. Detto in modo diverso, fa fermare completamente il tempo. Il ventenne Hermann Simon è ancora tra di noi. Il film non invecchia. Invecchia solo attraverso noi spettatori. Incontra in noi un‘altra vita e diventa, così, un altro film. Rimane lo stesso e tuttavia emerge sempre di nuovo. Ma deve essere visto. Se il film non viene visto, muoiono anche Maria, Clarissa o Hermann.
È il grande merito di questo libro non solo evidenziare e riaccendere un aspetto essenziale della trilogia di Heimat, ma anche mantenere vivo il film. E quindi è stato un onore e un piacere per me far parte di questo libro, oggi, nell’anno 2021. Come mi ero amalgamato con la figura di Hermann Simon 30 anni fa, così sono uno spettatore oggi. Hermann può essere vivo, l’Henry Arnold di allora non esiste più. Il “tempo delle prime canzoni” è ormai passato. La mia “Heimat” è chiusa.
“Heimat” questo termine complesso da afferrare e in tutte le sue sfumature difficilmente traducibile racconta principalmente qualcosa sul tempo. “Heimat” è memoria. È unica ed indivisibile. “Heimat” non è un sentimento collettivo. Di conseguenza è tanto sbagliato quanto, purtroppo, comprensibile che il termine sia così manipolato in chiave popolare dai nazionalisti.
“Heimat” significa qualcosa che conosco, di cui posso fidarmi, qualcosa che è permanente, che rimane. E significa il luogo dell‘infanzia. È proprio qui che si trova l‘errore. Non c‘è niente che dura, l‘infanzia è sempre un‘infanzia perduta, non importa quanto sia stata bella. I nostri ricordi ci tradiscono costantemente e quando li trasformiamo in parole, li inganniamo, li modifichiamo e ci inventiamo un passato nostro. Non rimane molta verità.
Viviamo solo qui e ora. Nella migliore delle ipotesi, possiamo influenzare ciò che ci aspetta. Finché abbiamo molto futuro davanti a noi, è una buona cosa. «Stiamo portando noi stessi di nuovo nel mondo», dice il ventenne Hermann in un momento di Zweite Heimat. Non ha voglia di “Heimat”, vuole andare avanti. Si sforza persino di separarsi dall’altra fonte di ciò che rende la “Heimat” così speciale, la lingua madre: il suo “Hunsrücker Platt”.
Solo quando la possibilità del futuro diminuisce a livello biologico cresce il bisogno di sicurezza.
Vogliamo approdare a una certezza nella nostra percezione del mondo. Il cambiamento diventa spaventoso perché a un certo punto sfugge inevitabilmente al controllo.
L’Hermann Simon di Heimat 3 non è ancora arrivato a questo punto. È ancora in viaggio, lo tormentano le domande. Le domande sulla vita, su sé stesso, sulle sue azioni e sull’arte. Però cerca sicurezza, vuole arrivare anche lui.
Ma la sicurezza è ingannevole, “Heimat” è una chimera.
«Il “buon tempo antico” se ne è andato», dice Nietzsche. E prosegue: «[...] in Mozart si spegneva il suo canto». Ogni generazione ridefinisce quello che avrebbe potuto essere il suo “buon tempo antico”.
In un futuro sconosciuto sarà definito anche il nostro presente complicato (un presente che non sembra molto adatto per essere “il buon tempo antico”. Un tempo in cui un virus ci costringe a un arresto obbligato e a rifuggire i contatti umani per evitare la morte. Ma chi lo sa? Solo allora noi non ci saremo più).
Il “buon tempo antico” è un’altra chimera.
I film di Edgar Reitz, invece così si spera rimarranno.
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Cristina Jandelli
Introduzione
Gli attori di Heimat
Il racconto-fiume seriale di Edgar Reitz impiega personaggi-attori che compongono la Heimat degli spettatori. Una patria di finzione disseminata di figure che si rincorrono nei primi tre cicli e infine, in Heimat-Fragmente: Die Frauen (2006), viene sostituita dalla soggettività della protagonista, Lulu, che incorpora frammenti dell’opera-mondo come atti di memoria filmica riattualizzata. Per comprendere chi sono i principali attori di Heimat e cosa fanno in questo grande ciclo, che abbraccia (e oltrepassa) l’arco cronologico 1919-2000, occorre, come fa Barbara Rossi nel suo saggio introduttivo, ricordare sia la loro formazione che ripercorrerne le biografie artistiche: tutte si definiscono infatti a partire dall’incontro con Edgar Reitz.
La provenienza dei protagonisti è diversa, la loro formazione variegata ma si può esaminare la serie di Heimat come un universo concluso e coerente anche dal punto di vista degli interpreti. Infatti, a sorpresa, non vige in questo mondo un principio di casting formalizzato, né tantomeno scelte puramente dettate dal type-system (la scelta dell’interprete in base all’aspetto fisico assegnato al personaggio). Come dichiara nelle pagine che seguono Marita Breuer, rievocando il momento in cui le è stato affidato il personaggio-chiave di Maria nel primo ciclo, «non c’è stato casting, cosa difficile da credere al giorno d’oggi [...]. Non ero affatto il prototipo di una donna di campagna. Evidentemente [Reitz] era più interessato alla personalità di un’attrice che al suo aspetto esteriore». La scelta dei protagonisti di Heimat è imputabile al solo autore dell’opera. Non a caso, nelle interviste che seguono, ciascuno rievoca quel momento, quell’incontro, come decisivo.
Agli inizi degli anni Ottanta si è ormai spento il clamore delle Vague ma si è anche appena concluso il primo “ciclo” della storia del cinema che impiega lo stesso concetto heimatiano del tempo come durata scolpita sul corpo di un attore, cioè la saga di Antoine Doinel: nel 1978 L’amore fugge si presenta come l’attualizzazione della memoria cinematografica nel racconto del personaggio precedentemente delineato ne I quattrocento colpi (1960), Antoine e Colette (1962), Baci rubati (1968), Non drammatizziamo... è solo questione di corna (1970). L’interprete Jean-Pierre Léaud ha incontrato Doinel da adolescente e nel 1978 è un uomo. Da ogni film della saga (e da altre pellicole precedenti) per L’amore fugge Truffaut preleva del metraggio inutilizzato e lo reimpiega per comporre l’ultimo atto della storia, frammentaria e sconnessa, del suo personaggio. Léaud è in tale simbiosi con il suo regista da somigliargli ormai fisicamente, come se la sua fisionomia, negli anni, si fosse plasmata a immagine e somiglianza del suo autore e mentore. Questo significa scolpire il tempo con un corpo attoriale. Certo non accade a nessuno dei personaggi di Heimat, eppure sia Heimat-Fragmente: Die Frauen (2006) che L’amore fugge si presentano come found footage d’autore: impossibile non mettere in relazione i due film. Certamente, laddove la pellicola di Truffaut si può leggere come un addio all’alter-ego autobiografico, Heimat-Fragmente omaggia le protagoniste femminili della saga e il film del congedo (provvisorio) si configura come un superamento dei loro destini. La giovane e indipendente Lulu (Nicola Schößler, formata nel teatro musicale sperimentale), l’erede della stirpe Simon di Schabbach, si è emancipata dal luogo natale, è divenuta apolide ma in Heimat-Fragmente il passato si ripresenta intessuto dalla sua memoria («La giovinezza finisce», dice Lulu nel film, «quando cominciano i ricordi»). La figlia di Hermann inevitabilmente porta, dentro di sé, le immagini della nonna Maria (Marita Breuer) e la presenza-ombra del padre, in Heimat 3 divenuto compositore di fama. Ed è proprio il personaggio di Hermann Simon interpretato prima da Peter Harting (decima e undicesima puntata di Heimat), poi da Jörg Richter (l’Hermännchen della nona) a venir incarnato, da Die zweite Heimat ad Heimat-Fragmente, da Henry Arnold, la cui intervista qui apre la ricca serie di testimonianze rese dagli attori del ciclo.
Henry Arnold come Jean-Pierre Léaud? Non esattamente. L’attore francese “nasce” con Truffaut ma la sua presenza innerva l’intera stagione della Nouvelle Vague, permea della propria immagine (e del proprio inconfondibile stile di recitazione, sprezzante e nervoso) un ventennio di storia del cinema internazionale. Questo non è, con tutta evidenza, il destino di Henry Arnold. Heimat è un universo testuale e produttivo autarchico e di conseguenza, anche se la carriera dell’attore non termina con il ciclo reitziano, l’opera-mondo cine-televisiva ne condiziona il futuro nelle due direttrici principali del cinema e della musica. Del resto Arnold era stato reclutato solo lontanamente in virtù della somiglianza con Jörg Richter, il primo Hermann adulto: Reitz sceglie, per Die zweite Heimat, un polistrumentista, secondo un criterio di massima adesione alla formazione artistica del personaggio narrata nel secondo ciclo.
Uno degli aspetti più interessanti del presente volume consiste nel rievocare con precisione, si è detto, il momento in cui Reitz “chiama a sé” i suoi attori. Per Arnold, interprete teatrale alle prime armi, sembra in azione un costrutto tipico dello stardom hollywoodiano classico: come ricorda Barbara Rossi, era scritturato per un ruolo secondario ma, «provvisto della preparazione musicale richiesta al protagonista», diventa Hermann («Io recitavo ancora a teatro: per un caso sono andato a Monaco, mi sono presentato. Più tardi ho saputo che mentre mi riportavano alla stazione perché io quella sera dovevo recitare Reitz in auto ha detto al suo co-produttore: “Questo è il mio Hermann”»). Il primo episodio di Die zweite Heimat lo mostra perplesso ed eccitato: la camera di Reitz ne coglie l’impaccio ma anche le potenzialità che avranno modo di dispiegarsi, nel secondo e terzo segmento del ciclo, attraverso numerose performance musicali e anche in scene dove è richiesta maggiore perizia attoriale. Di conseguenza il personaggio autobiografico di Hermann prende man mano corpo attraverso Henry Arnold, perché il suo mandato narrativo è chiaro, deve dare vita a un giovane che si sta formando come musicista e l’attore stesso è in formazione, sul set. Ma sa cosa deve fare: trasferire i ricordi del giovane Reitz (che, disceso da Morbach, incontra il Junger Deutscher Film monacense) nel personaggio-guida di una comunità di musicisti in erba in stretto contatto con il mondo intellettuale e le produzioni artistiche della loro epoca, e perfino con la storia (il magnifico episodio VI dedicato alla morte di Kennedy). Hermann Simon vuole affermarsi, sperimentando senza tregua, sulla scena della musica tedesca come il giovane Reitz desiderava diventare un regista cinematografico della Neue Welle: Henry Arnold, grazie a Heimat, diventa un attore. Ma resta in bilico fra la carriera musicale e quella teatrale e, come osserva Rossi, non diventerà un divo né troverà una collocazione, come interprete, nel panorama cinematografico e televisivo tedesco, mentre proseguirà la sua carriera come compositore e regista di opere liriche. Un po’ Hermann, un po’ Reitz e molto sé stesso.
È sulla linea del sé che bisogna, comunque, insistere, per comprendere come il tempo del ciclo reitziano si basi anche sulla sperimentazione del corpo attoriale come durata o, meglio, come materiale sia disciplinabile che resistente all’azione del tempo e a quella del creatore del mondo finzionale. Arrivato al termine del processo innescato dal cinema moderno, all’attore è chiesto di offrire alla macchina da presa più il suo corpo performante che la capacità di interpretare il personaggio-perno del ciclo. L’Hermann di Arnold non appare esattamente un alter-ego dell’autore, ma non per una questione anagrafica (l’intervallo temporale è più o meno lo stesso che separava Truffaut da Doinel-Léaud). È un alter-ego ma anche altro da sé: di qui il fascino indiscutibile di questo personaggio-attore un po’ sfasato, leggermente casuale, interno ed esterno al racconto, incaricato com’è di mostrare a volte il lato duttile (e dunque la consonanza con la memoria autobiografica del regista) e a volte quello più spigoloso, quando “fa” il musicista e si prende le sue libertà rispetto al portato biografico e memoriale dell’autore. Il corpo come materiale disobbediente e forma imperfetta si misura anche con i processi di ageing imposti dal mondo diegetico di Heimat. Come rievoca nell’intervista che segue Henry Arnold, «in Heimat 3 dovevo avvicinarmi alla caratterizzazione del personaggio, che nel frattempo era invecchiato: interpretare Hermann con i capelli grigi. Ad alcuni miei conoscenti questa trasformazione sembrava difficile, continuavano a vedere me dietro il cambiamento. Invece tutti gli altri che non mi conoscevano non se ne sono nemmeno accorti». Ad invecchiare, nel ciclo, non è l’attore ma il personaggio, e nel frattempo lo spettatore heimatiano si è reso del tutto disponibile a ritrovare Henry Arnold nel ruolo di Hermann. Lo accetta di buon grado così com’è, con le rughe ispessite e i capelli artificialmente brizzolati, con le sue sfuriate e il suo estro dinamizzante. Hermann non può che essere Henry Arnold.
Guardando alle interpreti, la linea femminile del racconto appare più frastagliata. Ma il caso di Marita Breuer, presente nel primo ciclo, in Heimat-Fragmente e nel “prequel” del ciclo (il film L’altra Heimat Cronaca di un sogno, 2013) ambientato nell’Hunsrück dell’Ottocento, è altrettanto esemplare. Marita è Maria, la matriarca dei Simon, e resta tale anche nel film che a oggi chiude la saga familiare, impiegata nel personaggio di Margarethe, la nonna di Maria. Pur cambiando personaggio nell’universo heimatiano, il mandato narrativo di Marita Breuer è chiaro come quello di Henry Arnold. Lo si può leggere nelle pagine di Peter Handke, in Infelicità senza desideri (1972), racconto della vita oscura della madre dello scrittore trascorsa al servizio della famiglia e fra le mura domestiche. Come Reitz resta incatenato alla sua Heimat, Marita Brauer appare non solo perfettamente saldata alla rappresentazione tradizionale della maternità ma anche formata alla tecnica di recitazione più impiegata dal cinema, nella linea che va da Stanislavskij all’Actors Studio, quella dell’immedesimazione. Tanto Henry Arnold è un attore “moderno”, quanto Marita Brauer è un’interprete “classica”: sensibile, quieta, una forza tranquilla che il primo piano di Reitz ama e valorizza. Maria abita nell’attrice, nei suoi silenzi, nei suoi sguardi espressivi, nel suo mondo in bianco e nero, ne è intima parte. E tale ricchezza interiore (dell’attrice) diventa la vera dote del personaggio che, non a caso, mette in moto la memoria affettiva ed emotiva dell’interprete, come si evince dalle sue parole: «L’esperienza più importante che questo ruolo mi ha offerto è consistita nell’aver trovato in me molto dell’esistenza di mia madre e dei miei genitori. Anche se non sono cresciuta negli anni Quaranta ho ritrovato in me sul piano emozionale la consapevolezza di quel tempo. Ho avuto l’impressione di conoscerne molti aspetti. È stato davvero sorprendente». Forse per questo Reitz l’ha richiamata nel ruolo di Margarethe Simon: l’esistenza di una linea matrilineare nel mondo immaginato dal regista tedesco è profondamente connaturata al mondo contadino che il Novecento sconvolge e i secoli precedenti attestano come modello sociale, dunque appartiene al tema stesso della saga. È con Die zweite Heimat che questa società entra in crisi, si frammenta, si disperde e si ricompone nell’altra patria, quella scelta, non ereditata, la patria delle arti. In questo luogo magico che è la Monaco neoavanguardista degli anni Sessanta raccontata da Reitz con massima felicità espressiva si dispiega anche una nuova femminilità, quella della violoncellista Clarissa interpretata da Salome Kammer.
Rispetto a Marita Breuer l’interprete di Clarissa, la musicista di cui Hermann si innamora, ha un curriculum di tutt’altro tipo, molto più affine a quello di Henry Arnold e di Nicola Schößler. Attrice e violoncellista, Salome Kammer si specializzerà come cantante di un repertorio moderno che va da Luciano Berio ad Alban Berg, da Kurt Weill a Cole Porter. Come per Arnold, anche per Kammer Die zweite Heimat rappresenta l’esordio cine-televisivo, ma il casting dura un anno intero e le viene chiesto di superare diverse prove intermedie. Oggi dichiara nell’intervista a seguire: «Sono la moglie di Edgar Reitz quindi il mio percorso di vita dopo Heimat 2 si è svolto in parallelo al suo. Tuttavia, dopo aver concluso la lavorazione di Heimat 2, ho incominciato ad esprimermi con la voce e mi sono concentrata maggiormente sul canto». La recitazione introversa di Salome Kammerr resta paradigmatica di una figura attoriale estremamente espressiva, a metà strada fra la “classicità” di Marita Breuer e la “modernità” di Henry Arnold. Nel dar vita a Clarissa, si legge fra le righe della sua intervista, Salome Kammer non esita a ricorrere all’improvvisazione, che la caratterizza anche come interprete canora. Le sue performance costellano il secondo ciclo della saga che si nutre delle sue capacità musicali, come esecutrice al violoncello ma soprattutto come cantante di musica colta moderna. Più ancora di Breuer e di Arnold, Kammer esce dall’esperienza di Heimat rigenerata: il sodalizio artistico con l’autore è diventato sentimentale e la carriera prosegue per lo più sul versante canoro. Non trova però un ruolo artistico in L’altra Heimat cui partecipa come assistente alla regia. Nel prequel della saga non scompare, come Henry Arnold, né riappare, come Marita Breuer. Si riconfigura nel ruolo, ormai divenuto parallelo, ma in posizione subordinata, deciso per lei dall’autore.
Oltre ai protagonisti l’amalgama reitziano prevede, come il saggio di Barbara Rossi evidenzia, una serie di caratteristi di forte spessore, reclutati per lo più in ambito teatrale. È il caso di Anton ed Ernst, i fratellastri di Hermann interpretati da Mathias Kniesbeck e Michael Kausch nei primi cicli e divenuti in Heimat 3 personaggi centrali del racconto, e, nel primo Heimat, almeno di due caratterizzazioni singolari: quella comica di Marie-Goot (Eva Maria Schneider) e quella terragna ma sensibile di Katharina (Gertrud Bredel). E poi ci sono innumerevoli figure minori cui viene chiesto semplicemente di aderire al contesto, ad esempio con la conoscenza del dialetto dell’Hunsrück considerata obbligatoria per poter partecipare a L’altra Heimat, o dei dialetti della Germania Est richiesti ai manovali di Heimat 3. Di voci e volti, come di ogni altra qualità essenziale per rendere credibile e vero l’affresco storico, si nutre l’universo compositivo reitziano che ha, fra le sue regole non scritte, una profonda coerenza interna. Con personaggi che vanno e che vengono nelle sessanta ore circa di racconto audiovisivo e attori che a vario titolo potranno vantarsi di ricordare il giorno in cui Edgar Reitz li scelse.
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Ringraziamenti
Da quando sul mio cammino di studiosa di cinema si è palesata la figura di Edgar Reitz uno dei grandi maestri del Nuovo Cinema Tedesco degli anni Sessanta e massimo esponente della cinematografia mondiale è iniziato per me un viaggio emozionante, laborioso, ricco di incontri, del quale ogni giorno continuo a essere sorpresa e grata.
Avere l’opportunità di approfondire attraverso l’opera di Reitz i contenuti e le forme del cinema tedesco contemporaneo nato dall’ansia di rinnovamento degli allora giovani cineasti firmatari del celebre Manifesto di Oberhausen del febbraio 1962, mi ha permesso alla stregua di Lulu Simon, “archeologa della memoria” in Heimat 3 non solo di risalire alle radici narrative di una parte cospicua della cinematografia europea del Novecento, ma anche di confrontarmi con i macro-temi dell’identità, del sentimento di appartenenza a un luogo (la “Heimat” di nascita o d’elezione), della permanenza e trasfigurazione del ricordo. Il concetto di “Heimat” come dimora sia geografica che narrativa e la sua evoluzione sino ai giorni nostri è, tra l’altro, molto presente alla mia attenzione in questa fase della mia vita.
Ringrazio, dunque, con grande stima per il loro lavoro e affetto sul piano personale, il gruppo di straordinari artisti che con generosità si è reso disponibile a collaborare a questo libro, condividendo con i lettori i personali ricordi: Edgar Reitz, in primis, anche per la gentile concessione dell’immagine di copertina, ricavata dal suo archivio personale; Salome Kammer, violoncellista, cantante e protagonista con il personaggio di Clarissa di Heimat 2 e Heimat 3, oltre che moglie e musa ispiratrice del regista; Marita Breuer, eccellente espressione del teatro popolare e sublime interprete di Maria, incarnazione della “Heimat” nella saga reitziana. Devo un ringraziamento particolarmente sentito a Henry Arnold, il mai dimenticato Hermann del secondo e terzo ciclo di Heimat, come lui musicista, compositore e direttore d’orchestra, che ha partecipato alla stesura di quest’opera nelle forme di un’appassionante intervista e di una prefazione scritta di suo pugno, in un brillante italiano.
E ancora: grazie alla prof.ssa Cristina Jandelli, docente di Storia del cinema presso l’Università degli Studi di Firenze e studiosa del divismo cinematografico, che nella preziosa introduzione a questo saggio ha analizzato il ruolo degli attori in Heimat; al prof. Sergio Arecco, critico cinematografico, insegnante e traduttore, per la dettagliata postfazione sul “racconto che non finisce di finire” e per la sua colta e sensibile amicizia; al prof. Michele Maranzana, docente di filosofia e dirigente scolastico, per l’esaustivo itinerario filosofico nella Heimat di Edgar Reitz e per le lunghe discussioni su tempo, cinema e memoria.
Un ringraziamento doveroso anche a Enrico Maisto, regista e coordinatore del settore cinema presso il Centro San Fedele di Milano, per aver fatto da trait d’union con i protagonisti di Heimat e all’editore Carmine Fiorillo di Petite Plaisance, per aver sostenuto il progetto editoriale.
Infine, last but not least, grazie alla mia “Heimat”, che si qualifica ogni giorno di più come recita il titolo del recente e pluripremiato documentario di Thomas Heise “uno spazio nel tempo”.
Barbara Rossi
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