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«Non fare ciò che è male / fare ciò che è bene / purificare la propria mente: / questo è l’insegnamento del Buddha».1 Questo passo del Dhammapada, uno dei testi più autorevoli ed influenti per tutte le tradizioni del Buddhismo, sembra indicare senza alcuna possibilità di fraintendimento la centralità che occupa in esso l’etica e al tempo stesso ci conduce subito al suo cuore: la connessione tra la pratica etica e le tecniche con le quali la mente viene liberata dalle sue impurità e resa chiara. Nonostante questa centralità, ben presente a quanti in Occidente sono attratti dal Buddhismo, per i quali esso è anche, se non soprattutto, la religione della compassione e del rispetto per la vita anche animale, sono pochissimi gli studi dedicati in modo specifico all’etica buddhista ed ai suoi problemi a livello internazionale; in Italia, poi, sono quasi inesistenti.2 Non è facile comprendere le ragioni di questo disinteresse. Molto ha influito la convinzione, presente anche in alcuni maestri, che l’etica, nonostante affermazioni come quella citata in apertura, abbia un ruolo accessorio nel percorso di liberazione, centrato invece sulla meditazione.3 Ma tra le cause c’è anche la scarsa attenzione che in ambito buddhista ricevono le questioni di metaetica, la riflessione sulla natura stessa del discorso morale, che invece è centrale nella filosofia morale occidentale. D’altra parte è molto sviluppata nel Buddhismo, invece, quella che potremmo chiamare tecnica etica o etica operativa, ossia la ricerca sui modi in cui, dopo aver compreso cosa è bene e male (problema della individuazione del bene) e perché, posto che una cosa sia bene, occorre farla (problema della giustificazione del bene), possiamo concretamente diventare capaci di fare il bene, vincendo in noi le tendenze che vanno in direzione contraria. Ciò che caratterizza il Buddhismo è il nesso tra conoscenza ed etica e tra tecnica ed etica. Il Buddha non si limita a dire che bisogna provare compassione ed amore per ogni essere vivente, che bisogna evitare l’odio e la malevolenza. Il Buddhismo spiega perché accade di compiere il male, quali meccanismi e percorsi psichici conducono verso l’indivia, l’astio, l’odio, ed in quale modo sia possibile combatterli e sostituirli con percorsi alternativi che conducano verso il bene. A spingere verso il male è l’ignoranza della vera natura delle cose ed in particolare l’ignoranza della vera natura di sé stessi. È l’errata convinzione dell’esistenza di un sé separato e stabile che ci spinge a contrapporci agli altri, ad usarli, a considerarli come un mezzo e non come un fine.
Mi è impossibile in questo libro occuparmi del Buddhismo in generale. Concentrerò l’analisi sul Buddhismo Theravāda, escludendo i diversi sviluppi del Buddhismo Mahāyāna e Vajrayāna, che sono mondi estremamente affascinanti e raffinati dal punto di vista filosofico, ma che richiederebbero studi ugualmente mirati; un libro sull’etica buddhista che consideri in modo serio ed approfondito tutti i suoi sviluppi non può che essere il lavoro di una équipe di specialisti.
Le fonti primarie di questo studio saranno dunque il Canone in lingua pāli (Tipitaka) e il Visuddhimagga di Buddhaghosa, mentre fonti secondarie, oltre ai testi degli studiosi occidentali ed orientali (che non sono molti), sono gli scritti dei maestri buddhisti contemporanei, pur appartenenti a tradizioni diverse da quelle qui considerate, il cui insegnamento è in alcuni casi prezioso per cogliere il significato più profondo di un testo o di una pratica.
Il mio approccio non è né antropologico né storico né filologico, bensì filosofico. Non intendo analizzare il Buddhismo nelle sue complesse manifestazioni sociali e culturali, né distinguere, all’interno di tali manifestazioni, un preteso Buddhismo vero dalle sue degenerazioni. Mi occuperò dei sutta (sūtra in sanscrito), poiché ritengo che essi contengano analisi e proposte di straordinario interesse per il pensiero filosofico. Poiché il mio sguardo è filosofico, mi soffermerò sugli aspetti filosofici dei testi, pur consapevole che in essi non tutto è razionale almeno secondo il modello occidentale di razionalità e che ad ogni piè sospinto si incontrano dei e demoni, miracoli e portenti, poteri magici, paradisi e inferni.
Intendo considerare l’etica buddhista seguendo il suo stesso approccio: non mi dilungherò in analisi metaetiche, ma studierò il modo in cui avviene la trasformazione morale ed il rapporto che c’è tra questa trasformazione e la liberazione finale dalla sofferenza.
Chi si addentra nello studio del Buddhismo resta prima o poi colpito da una apparente contraddizione: da un lato il Dhamma del Buddha indica l’abbandono dell’ego come passaggio decisivo per il Risveglio, dall’altro le pratiche meditative e l’etica dei precetti hanno la funzione di costituire una soggettività forte, in grado di dominare sé stessa. Nella mia interpretazione l’etica buddhista ha tre momenti: un primo momento per così dire pre-morale, nel quale l’ego è disperso nella molteplicità delle sue pulsioni; un secondo momento, quello del sé dimora, nel quale attraverso la meditazione e l’etica dei precetti il soggetto si costituisce come unità; un terzo momento nel quale questo sé solido torna ad aprirsi, grazie all’azione delle dimore sublimi, il momento più alto dell’etica buddhista. Nell’ultima fase di questo processo etico sono trascesi tanto il soggetto quanto l’etica intesa come scelta del bene.
L’io disperso nelle volizioni è premorale, esposto costantemente alla possibilità di compiere il male, poiché il male è null’altro che il risultato dell’azione dell’ego. L’io concentrato è capace di controllare gli stati non salutari e di favorire quelli salutari, come anche di compiere azioni improntate all’amore ed alla compassione. Ma si tratta di un’etica provvisoria, per così dire. Se il male è compiuto dall’io, allora la persistenza di un io, sia pure concentrato e non disperso nella volizione, non consente di attingere pienamente il bene. In aperto contrasto con quanti ritengono che con il nibbāna sia trascesa anche l’etica, attingendo una condizione al di là del bene e del male, sostengo in questo studio la tesi che per il Buddhismo il vero bene, il bene più profondo, il bene che è al di là della distinzione tra bene e male la cui espressione più piena trovo in alcuni passi del Canone pāli viene attinto solo in una dimensione transpersonale. E questa mi sembra la differenza più significativa tra l’etica buddhista e l’etica occidentale.
Nella conclusione provo a ragionare, in modo inevitabilmente sommario (una trattazione approfondita avrebbe richiesto un altro libro) sulla ipotesi che questa etica transpersonale, apparentemente così lontana sia nel tempo che nello spazio, indichi invece una direzione possibile per il pensiero occidentale, i cui fondamenti classici Dio, la sostanza e il soggetto sono entrati progressivamente e irrimediabilmente in crisi e che si ritrova dunque singolarmente vicino ai presupposti dell’etica buddhista: l’insostanzialità delle cose, l’irrilevanza della questione di Dio, il carattere illusorio dell’io.
La scrittura di questo libro, che mi ha impegnato per diversi anni, è stata parte della mia quotidiana pratica del Dhamma del Buddha, che è parte significativa del mio tentativo di comprendere qualcosa della vita. Mi auguro che, pur con i suoi limiti, esso possa essere utile anche ad altri, e riesca a stimolare la riflessione sul contributo del Dhamma del Buddha alla chiarificazione dei problemi morali.
Sono grato ad Andrea Pasqualini per l’attenta lettura del testo e i preziosi suggerimenti per migliorarlo; sono naturalmente l’unico responsabile dei limiti e delle imperfezioni che permangono.
Antonio Vigilante
Siena, marzo 2021
Note
1 «Sabbapāpassa akara?a?, / kusalassa upasampadā; / sacittapariyodapana?, / eta? buddhāna sāsana?» (Dhp, 183).
2 Per una panoramica sugli studi, si veda P. Vicentini, Lo studio dell’etica buddhista, in Id., Le tessitura della saggezza. Tra Oriente e Occidente, a cura di E. Magno e M. Ghilardi, Mimesis, Milano-Udine 2019. Scrive Vicentini: «Lo studio dell’etica buddhista è stato trascurato non solo all’interno di tale tradizione, ma anche dagli studiosi occidentali. Solo recentemente, con il fiorire di studi su tutti gli aspetti del pensiero e della pratica buddhisti, si è cominciato a rivolgere la dovuta attenzione anche all’ethos. Tuttavia, molto del lavoro che è stato fatto è ancora preparatorio e assai poco sistematico e non esistono studi d’insieme che provvedano ad indagare e caratterizzare l’etica buddhista utilizzando la tipologia dell’etica filosofica occidentale» (pp. 113-114).
3 «L’etica, la vita morale, spiana la strada sino al limite di questo mondo ma non lo supera, anche la buona morale fa parte del mondo di avidya [l’ignoranza] e duhkha. Occorre trovare la porta senza porta, imparare ad attraversarla liberamente», scrive il maestro Mauricio Yushin Marassi in uno dei pochissimi libri italiani dedicati all’etica buddhista (M.Y. Marassi, G. Iorio, La via libera. Etica buddhista e etica occidentale, Stella del Mattino, s.l. 2013, p. 85). Di opinione contraria Giangiorgio Pasqualotto, che sostiene che la meta del sentiero buddhista «non è speculativa ma etica. Purificare la mente non significa condurla allo stadio della contemplazione pura e lì rinchiuderla, ma vuol dire portarla alla condizione di fare il bene» (G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Donzelli, Roma 1998, p. 75; corsivo nel testo).
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