|
Daniele Dottorini
Lo sguardo mediterraneo
Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante.
Friedrich Nietzsche
Zone oscure e invisibili contrapposte a Spazi apparentemente aperti e solari. Ecco, si potrebbe iniziare da qui, da questa immagine non particolarmente originale, ma sicuramente efficace: una contrapposizione di spazi e di luce. Cominciare da qui, perché questa è l’immagine che immediatamente salta agli occhi dopo la lettura del testo di Beniamino Biondi sul nuovo cinema greco.
Come ogni immagine che balza immediatamente alla memoria, quella dello spazio e della luce può essere vista da diverse prospettive, può assumere cioè diversi significati. Il primo è ovviamente legato alla fortuna e alla conoscenza del cinema greco in Italia. Il lavoro di Beniamino Biondi è un lavoro anzitutto di ricerca, sistematica e approfondita su un periodo chiave del cinema greco quello degli anni Sessanta e Settanta e sui suoi sviluppi successivi. Il cinema greco è ed è stato per l’Italia spesso una zona oscura, una zona indistinta e poco attraente, legata di solito ad un pugno di nomi noti che in sé riassumevano ogni tendenza, ogni “scuola”, ogni sguardo (Anghelopoulos, Cacoyannis, tanto per fare due esempi tra i più noti). Dunque uno spazio apparentemente illuminato per quanto ristretto, delimitato da confini precisi, incapace di sorprenderci ancora e non è questo un vizio atavico della critica, quello di fissare il più presto possibili confini entro i quali riuscire a circoscrivere i movimenti? Cercare uno o due autori di riferimento e circoscrivere, definire una scuola, una corrente, un movimento. Eppure leggendo il lavoro di Biondi non è così, e l’immagine della luce e dello spazio ci soccorre ancora. Non solo perché il lavoro di “mappatura” di autori e film compiuta nelle pagine del testo ci aiuta a scoprire o riscoprire sguardi spesso rimasti “oscuri” o dimenticati come quello di Alexis Damianos, a cui Biondi dedica pagine intense del suo percorso, ma anche perché questa operazione di ricerca e scoperta (di nuova illuminazione, potremo dire), mette in evidenza alcuni dei percorsi interni ad uno sguardo collettivo, percorsi che mettono in gioco le contraddizioni e i conflitti di un territorio che non è in fondo circoscritto alla Grecia, ma che non faremmo fatica ad identificare con l’Europa intera. Il lavoro di Damianos sul proprio territorio, la capacità che il regista ha avuto nei suoi film di mettere in scena «una Grecia bellissima e disperata, totalmente arcaica», sospesa tra modernità e un passato mitico che è al tempo stesso la sua eredità e la sua condanna.
La Zona oscura acquista allora un altro significato. La luce che attraversa il cinema greco è spesso la luce accecante e bruciante della fotografia dei film di Yorgos Panoussopoulos, Nikos Nikolaidis, o per fare un esempio recente, di Delivery di Nikos Panayotopoulos; film in cui lo sguardo “brucia” la realtà, ne mostra la dimensione quasi metafisica e al tempo stesso assolutamente materiale, immerge il reale in un tempo mitico, scomparso, annichilito dalla crudeltà della storia, eppure ancora lì, ancora destinato a segnare (forse proprio per la sua assenza) il destino delle generazioni contemporanee e dunque anche le forme del cinema, le forme più acute e sensibili dello sguardo mediterraneo.
Ecco forse questa è una caratteristica di uno sguardo mediterraneo, sempre che si possa proporre una simile definizione, sempre che esista un tale sguardo: una caratteristica che emerge pagina dopo pagina, nel viaggio compiuto da Biondi lungo la storia e le forme del cinema greco. In molti degli autori affrontati, citati, ripresi nel testo, ci si imbatte spesso in un aspetto comune, che è quello di dover/voler fare i conti con il passato, con un passato mitico, forse addirittura fuori dalla storia, fuori dal tempo. Ecco, lo sguardo mediterraneo è forse questo, quello sguardo che cerca di cogliere insieme arcaismo e modernità, arretratezza economica e contemporaneità, differenze sociali radicali e coesistenza urbana, macerie del passato e sguardi non più capaci di comprenderli.
Più si procede nella lettura del testo, più un tale sguardo emerge con forza e con decisione. Nelle sue forme più acute e sensibili, il cinema greco nato tra gli anni Sessanta e Settanta ha costruito un’idea di modernità intesa come un rapporto mai risolto, sempre conflittuale con il passato, con un passato che non passa e con non può e non deve essere dimenticato. Un passato arcaico, si è detto; ma anche un passato recente, un passato politico, di dittatura e repressione militare.
La Luce si fa accecante nel cinema mediterraneo. In questo senso, gli autori affrontati da Biondi diventano gli interlocutori di altri registi che ne condividono le ossessioni, a volte le forme, sicuramente la disperazione. Dal Pasolini di Edipo Re al Victor Erice di El Sol del Membrillo, fino a registi dalla luce crudele come Sharunas Bartas, Joaquin Jorda e moltissimi altri, il cinema della seconda modernità si è spesso scontrato con la luce non come metafora illuminista, ma come lacerante e bruciante metafora di uno sguardo carico di contraddizioni.
Basta allora pensare ad un regista come Pantelis Voulgaris per ritrovare lo stesso disperato e bruciante sguardo. To proxeneio tis Annas (Il fidanzamento di Anna) è come un concentrato di storia del cinema moderno, un film dallo sguardo apparentemente neorealista, ma capace di andare oltre di farsi metafora di un paese intero e forse di andare ancora più in là.
Raccontare la Grecia, per raccontare in fondo un mondo più ampio e antico, da sempre legato alla lacerante contraddizione di una storia sospesa tra ricordo del passato e suo oblio, tra modernità desiderata, voluta e un mito che fatica a farsi Storia, ma che al tempo stesso non può essere dimenticato. Strani corto circuiti si formano allora tra le cinematografie del mediterraneo. Strani e fecondi rapporti tra sguardi paralleli eppure diversi, Yilmaz Guzney, Youssef Chahine, Yoursry Nasrallah, Djibril Diop Mambéty, le voci e i nomi si srotolano come un mantra, come il rotolo nietzschiano che improvvisamente torna indietro, costringe l’uomo a ricordare, cioè a creare un collegamento tra il passato e il futuro, improvviso, non previsto.
È quello che capita al lettore del testo di Beniamino Biondi, scrittore poliedrico, singolare, capace di concentrare l’attenzione su autori e tendenze attuali ma spesso oscure, avvolte in quella nebbia critica sin troppo pesante, dal cinema catalano di contestazione al cinema di Hisayasu Sato, uno degli autori più irriconciliati del cinema giapponese. Ed ecco allora un testo ossessivo, affascinante. Apparentemente scritto come un dizionario, una enciclopedia, una mappa concettuale che dispiega, uno dopo l’altro i vari sguardi di un cinema che ha sempre lottato tra la modernità e un passato che non passa (siamo tentati di dire: per fortuna). È un altro modo di dire la contemporaneità, è un altro modo di esplorarla.
Daniele Dottorini, Critico cinematografico e docente di “Teoria e Tecnica del Montaggio” e di “Istituzioni di Storia del Cinema” presso la facoltà del DAMS dell’Università della Calabria.
|