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Prefazione
di Giulia Angelini
Pubblicato per la prima volta nel volume I Greci (1996, a cura di S. Settis), per poi ritornare nella raccolta Dialogo con gli antichi (2007, a cura di S. Gastaldi, F. Calabi, S. Campese e F. Ferrari), riproponiamo nella collana il giogo il testo L’io, l’anima, il soggetto di Mario Vegetti (1937-2018), preziosissima perla per la delineazione di una grammatica filosofica capace di risignificare, ogni volta, come l’uomo si è pensato: da qui anche la decisione di conferire al saggio una propria autonoma collocazione dal punto di vista editoriale.
In questo scritto, dove continua a scavare in tematiche a lui care che erano già emerse in uno studio precedente, Passioni antiche: l’io collerico (1995), Vegetti pone a tema, ça va sans dire, la questione dell’«io», dell’«anima» e del «soggetto» nel mondo greco, che, come si chiarisce dalla fitta analisi diacronica e sincronica che emerge fin dalle prime pagine, non sono assolutamente espressioni sinonimiche: basti pensare a cosa è stata l’anima in Omero (soffio vitale) e nelle sette orfico-pitagoriche (traccia di un demone decaduto) e basti rapportarla alla concezione cristiana che poi è stata elaborata (pur con toni differenti, l’interiorità è centrale), per capire la complessità della questione.
Infatti, a partire da una forte consapevolezza delle problematiche inerenti al linguaggio (non c’è solo il riferimento a Wittgenstein, breve ma decisivo), l’autore cerca di svincolare questi termini (che sono snodi di vita, orizzonti di senso, squarci esperienziali, etc.) da qualsiasi assolutizzazione che si richiama a un generico “mondo greco”, in cui risulterebbero un tutto compatto all’interno di un orizzonte altrettanto omogeneo.
Di fatti, tra i vari citati, Omero, Empedocle, Parmenide, Socrate, Plotino e, soprattutto, Platone troppe volte vengono imprigionati in gabbie interpretative ad uso e consumo della mentalità successiva, che ne stravolge la specificità in nome di istanze successive.
Ben lungi da una semplice invocazione dell’ermeneutica (ancora oggi molto di moda), così come rigettando qualsiasi classicismo di maniera (tipico di una certa tradizione), si tratta di indagare la stessa produzione di saperi e di poteri che soggiace, articola e determina ogni singola presa di posizione, compresa la propria, dove ciò ridisloca, immancabilmente, ogni tematica: la stessa presunzione di “scoprire” certi concetti (dando per scontato lo statuto del “concetto”) è messa in discussione, in uno scavo continuo che investe i presupposti della ricerca.
Che si sia d’accordo o meno con le tesi esposte nel saggio, tesi che non andremo a riassumere, ne vogliamo sottolineare l’importanza perché qui si pongono dei problemi a cui non ci si può sottrarre: d’altra parte, questo rimane anche un esempio di come fare storia della filosofia antica, “disciplina” che, per quanto inevitabilmente specialistica, non deve mai essere chiusa in sé stessa cosa che, a nostro avviso, la farebbe scadere in qualcosa di peggiore della mera dossografia.
Di fatti, sullo sfondo di questa ricerca (uno sfondo esibito da chi scrive, per rifarci al titolo di una sua raccolta,1 anche con la mano sinistra), vi è una fortissima tensione con il presente: anzi, si potrebbe dire che sono proprio le contraddizioni (in senso più o meno forte, più o meno tecnico, più o meno … marxista) dello stesso a richiedere questa analisi retrospettiva.
Ad ogni modo, per come la si voglia vedere, il rapporto è strutturale, rapporto in cui è sempre in gioco la questione della “continuità e discontinuità” tra le varie epoche: questo rimane un orizzonte immancabilmente aperto, che, tuttavia, anche a costo di non risolverlo mai, deve sempre essere fatto agire.
In questo senso, seguendo la celebre interpretazione hegeliana (che non riconosce l’idea di soggettività ai Greci, ma la imputa ai “barbari del nord”), il nodo della moderna soggettività non sembra un archetipo da rintracciare nel mondo antico: ma allora l’idea moderna di soggettività (ammesso e assolutamente non concesso che ora risolva, al suo interno, le discrasie tra “io”, “anima” e “soggetto”, oppure ancora che ora sia sinonimo di “individuo” e “persona”) dove affonda la sua origine?, pur sapendo che ogni concezione alla sua base ne ha molte altre e così via.
Al di là del riferimento al neoumanesimo di W. Jaeger (per cui Vegetti non ci sembra provare troppa simpatia), si può dire così: se la tesi hegeliana è stata poi confutata, per diverse ragioni, da B. Snell, A.W.H. Adkins e, soprattutto, da R. Mondolfo, si tratta comunque di vagliarla, rifiutando, oltre a ogni approccio astorico, ogni tendenza storicistica che altro non farebbe che gettare ancora più oscurità su questo plesso.
Questo è quello che il nostro tempo ci impone, per riuscire a comprenderlo meglio: la stessa questione della teologia (ma anche: il rimando alla interiorità di Agostino, al “cogito” cartesiano, all’io trascendentale kantiano, etc.), non è un mero esercizio di stile, arzigogolo accademico o ostentata erudizione, ma è necessaria per andare a fondo della questione.
“Continuità e discontinuità”, si era detto: si tratta di tenere sempre in tensione questi due poli, con tutta la fatica, teorica, che ciò comporta.
Tra l’altro, nel tentativo di delineare questa grammatica, emerge fortemente il debito con lo strutturalismo francese in particolare, M. Foucault: più che nel preciso contenuto (si pensi alla trattazione del tardo stoicismo romano), Vegetti lo riprende soprattutto per le indicazione di carattere metodologico, cioè, come si può intuire, l’idea di “archeologia” o “genealogia”.
Come è già stato sottolineato in un’altra prefazione, che si rifà a un’importante intervista rilasciata da Vegetti,2 questa è una prospettiva «secondo cui i rapporti di discontinuità o continuità tra le epoche si delineano lungo diverse linee di frattura o di persistenza, determinando di volta in volta il peculiare intreccio di saperi e di poteri che costituisce l’orizzonte (aperto e conflittuale) di un’epoca».3
Ecco che allora i riferimenti a Omero, Empedocle, Parmenide, Plotino e, soprattutto, Platone scuotono dalle fondamenta la sopraddetta omogeneità di quel mondo, determinando varie strade che poi nel corso del tempo sono state percorse: la stessa problematica della soggettivazione, nel suo scarto dall’individuazione, cambia, nelle diverse epoche, ma è proprio questo che rende obbligatorio il percorso.
Si tratta anche di non addebitare ai Greci qualsiasi «assurdo primitivismo che deriverebbe dal negar loro la forma moderna della soggettività» per interrogarsi sulle «forme specifiche della soggettività progressivamente elaborate nell’ambito dell’esperienza culturale greca»,4 chiedendosi quale sia il rapporto con la tradizione moderna un rapporto anche più sotterraneo di quello messo in luce da Hegel.
A essere in gioco, come Vegetti ha mostrato in altri suoi lavori (fin dall’Ideologia della città, 1975, scritto con il caro amico D. Lanza), è lo stesso intreccio tra saperi e poteri a cui prima abbiamo fatto un veloce cenno, intreccio che riarticola ogni volta le forme, i modi e le maniere in cui la realtà si dice.
Da qui, la necessità di mettere a tema l’idea di società, con tutto il suo armamentario ideologico, che fa della stessa medicina una delle sue armi portanti: in questo, non è assolutamente un caso che tantissimi scritti di Vegetti (dagli studi su Ippocrate fino a quelli su Galeno), siano dedicati a quest’ambito, come anche le ricerche di quella che ci azzardiamo a chiamare la sua scuola.5
Detto questo, in questa ferrata analisi, sembra riconfermarsi l’idea hegeliana per cui la moderna soggettività non possa rintracciarsi nel mondo antico, anche se, dallo studio di Vegetti, questo stesso mondo viene delineato con molto più specificità: ogni singola voce trova finalmente il suo spazio, compresa tutta l’esperienza della tragedia greca che troppe volte viene accantonata.
Di volta in volta, i vari pensatori presi in considerazione (finanche quella che chiama l’«anomalia» socratica, che F. Nietzsche aveva così tanto stigmatizzato) mostrano muoversi su altri orizzonti: tra l’altro, come è stato messo in luce da tantissimi/e autori/autrici, la dimensione del πολίτης per i greci è primaria rispetto a quella di qualsiasi altra, nel tentativo di superamento della sfera privata.
In una sorta di odi et amo che meriterebbe di essere indagato più a fondo dalla critica, un posto particolare lo ha però Aristotele, che, per Vegetti, introdurrebbe quella “grammatica della soggettività” che poi si è imposta nel mondo moderno: ben lungi dal portare avanti un ragionamento semplicistico, si indaga la produzione, in relazione a questa tematica, del «nesso tra proprietà (ἴδιον), patrimonio (οὐσία) e affezione primaria per sé (φιλαυτία)», che costituisce «il fulcro di una forma di soggettivazione nuova»,6 che prenderebbe proprio avvio dal posizionamento della figura dell’οἰκονόμος.
Per quanto Vegetti non metta qui a tema la questione dell’uomo come πολιτικὸν ζῷον (che, a parer nostro, complicherebbe la situazione), la grammatica aristotelica, con il forte riferimento al «mio», sembrerebbe, per lo studioso, quella essersi imposta di più, nello stesso fraintendimento, successivo, da cui è stata investita: lo stesso riferimento allo stoicismo risulta decisivo, anche se questo lo lasciamo a chi intraprenderà la lettura del saggio.
Come ebbe a dire in una sintesi che fece di questo testo, sintesi che fa leva sulla codificazione dell’ὑποκείμενον nell’intreccio dell’analisi politica con quella ontologica:
«La lingua greca, e la sua teorizzazione aristotelica, ci consegnano dunque una struttura soggetto/predicato come luogo esclusivo dell’asserzione veritiera. La seconda ci impone inoltre la concezione del soggetto sintattico come ousia, sostanza-patrimonio costitutiva tanto della realtà quanto del nucleo primario dell’individuazione soggettiva».7
Mettendo da parte il fenomeno della Riabilitazione della filosofia pratica, una possibile via di fuga sembrerebbe offerta da Platone, che ora non è semplicemente un pensatore tra gli altri, anche se, ovviamente, per Vegetti non lo è mai stato.
Questa via di fuga non è data tanto dal Platone dell’utopia (termine più volte problematizzato), ma dal Platone teorico «di una concezione non patrimoniale del valore e dell’“interesse” che ad esso lega il soggetto»:8 quel Platone che, se capito appieno, permetterebbe di volgere in euporia la crisi della soggettività che attanaglia il nostro presente.
Su L’io, l’anima, il soggetto altro non ci sentiamo di premettere, se non che gli spunti, i dubbi e le riflessioni che solleva sono delle questioni ancora aperte, che è poi il motivo per cui questo saggio è più che mai necessario.
Tanti altri nodi sarebbero da indagare (lo stesso interrogativo dell’“immortalità dell’anima” è dirimente), ma questi vengono lasciati al/alla lettore/lettrice, che, sicuramente, sullo sfondo delle altre opere di Vegetti, riconoscerà al meglio tutte quelle tematiche su cui poi l’autore ha continuato a lavorare.
Come abbiamo detto, che si sia d’accordo o meno con le tesi esposte nel saggio, che non abbiamo riassunto, il punto è sempre continuare a discuterne, senza mai cadere in troppo comode semplificazioni: d’altra parte, questo è quello che la storia della filosofia antica ci consegna, in tutta la sua complessità che, se accolta in pieno, altro non contiene che la sua enorme ricchezza.
Giulia Angelini ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Padova, dove attualmente è Cultrice della materia in Filosofia politica. La sua ricerca verte principalmente sul pensiero di Aristotele e, in particolare, sulla questione dello ζῷον πολιτικόν, sull’epistemicità della filosofia pratica e sui vari significati delle categorie di potenza e atto. Proprio in relazione a questi temi, ha partecipato a numerose conferenze nazionali e internazionali ed è autrice di svariati articoli scientifici. Tra le sue curatele, si segnala Ricerche aristoteliche. Etica e politica in questione (Petite Plaisance, Pistoia 2021).
1 Il riferimento è a M. Vegetti, Scritti con la mano sinistra, Petite Plaisance, Pistoia 2021 (Ia ed. 2007).
2 Cfr. Id., Lo strabismo dello storico (tra gli antichi e noi). Intervista teorico-biografica a cura di Marco Solinas, in «Iride», a. XXI, n. 55, settembre-dicembre 2008, pp. 529-566 (in particolare, pp. 533-535).
3 F. De Luise, Prefazione, in M. Vegetti, Scritti con la mano sinistra, cit., p. 7.
4 M. Vegetti, L’io, l’anima, il soggetto, v. infra, p. 21.
5 Tra le tante opere che sono state prodotte, citiamo qui Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca di S. Campese, P. Manuli e G. Sissa (Bollati Boringhieri, Torino 1983).
6 M. Vegetti, L’io, l’anima, il soggetto, v. infra, p. 54.
7 M. Vegetti, Un vincolo ambiguo: l’anima, l’io, il soggetto, in «Quaderni di storia», XIX, 37, gennaio-giugno 1993, p. 108.
8 Ibidem, p. 109.
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