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L’attuale crisi della scuola si radica nell’accettazione dei dogmi della pedagogia naturalistica. Iniziata nel 1762 da Rousseau ed esasperata dai suoi ammiratori romantici, essa crede che la mente del bambino si sviluppi da sola insieme al corpo, secondo un ritmo naturale che l’adulto non deve turbare con interventi sollecitati dal suo mondo artificiale e corrotto. La scuola rifondata sulla base del culto naturalistico rifiuta la scrittura e la conoscenza teorica; non può più dunque mediare tra l’alunno e l’eredità culturale e scientifica che sostanzia la civiltà. Emarginato l’insegnante a cui spettava quella mediazione, banditi i libri, i quaderni e perfino i banchi, essa si trasforma prima in un ambiente fisico per le esperienze manipolative, e poi in un ambiente virtuale per le esperienze immersive. Messa alla prova negli U.S.A. nonostante la sua inconsistenza teorica, l’impostazione naturalistica ha provocato la rovina delle loro scuole e l’esacerbazione dei loro divari sociali e ideologici. Ma già negli anni Venti i rivoluzionari russi avevano accolto da John Dewey il verbo naturalistico e lo avevano messo in pratica. Dalla riflessione sul fallimento di quell’esperienza nasce negli anni Trenta l’originale pedagogia di Vygotskij, per cui la scuola non deve seguire lo sviluppo della mente dell’alunno, ma promuovere il suo progresso dalla spontaneità alla consapevolezza e alla volontà, mediante l’acquisizione del contenuto logico della parola.
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