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L’autore dell’opera ha sempre amato il film a episodi. Quando, in Italia, nel 1952, con Altri tempi, Alessandro Blasetti lo inventa d’acchito, inaugurando un filone che copre in lungo e in largo tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, con qualche propaggine negli anni Settanta e qualche rarissimo esemplare nei primi anni Ottanta e nei primi anni Novanta (gli ultimi esperimenti importanti sono costituiti da Kaos di Paolo e Vittorio Taviani, 1984, e La domenica specialmente, 1991, firmato a otto mani da Barilli - G. Bertolucci - Giordana - Tornatore, film ambedue rappresentati nella silloge), indirizza il cinema italiano, in quegli anni languente causa la crisi del neorealismo, verso una tendenza che si rivela subito indovinata e cospicua di titoli, tale da attirare anche i maggiori cineasti e non solo. Lungo i Cinquanta, da Rossellini I sette peccati capitali (1952) segue subito a ruota Altri tempi a Visconti, da Eduardo a De Sica, da Soldati ad Antonioni, da Pietrangeli a Fellini (a parte Agenzia matrimoniale, qui accreditato, la stessa Dolce vita, 1959, non tradisce a suo modo la genealogia del film a episodi?). Fino a che Boccaccio ’70 (1962) dà un nuovo impulso al secondo decennio, e oltre a rilanciare Visconti e Fellini, lancia autori come Monicelli e Ferreri, Risi e Pasolini. I titoli maggiori dei Cinquanta e Sessanta li conosciamo e sono tutti, qui, documentati: da Siamo donne (sotto gli auspici di Zavattini) a Questa è la vita a I vinti, da L’amore in città a L’oro di Napoli, da Ieri, oggi, domani a I mostri, da Controsesso a Oggi, domani, dopodomani, da Capriccio all’italiana a Le streghe, da Tre passi nel delirio a RoGoPaG.
Ecco, quest’ultimo, che riunisce come da titolo Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti, è, come già Tre passi nel delirio, una coproduzione italo-francese. Il che ci fa riflettere su un fenomeno che, dai primi anni Sessanta Paris vue par…, espressione collettiva della Nouvelle Vague, accomuna la Francia all’Italia, con, in Francia, film a episodi come Les Adolescents, L’amour à vingt ans, Archipel des amours e tanti altri. Mentre gli studi hollywoodiani, inclini da sempre alle superproduzioni e al cinema-romanzo, rimangono refrattari alla moda, per cui, se esiste qualche iniziativa, essa resta un’iniziativa condotta a livello individuale, e comunque proiettata verso gli anni Settanta e oltre da Coffee and Cigarettes a New York Stories, qui parimenti recensiti.
A proposito di cinema-romanzo e dell’allergia della grande tradizione statunitense per il racconto breve. Il cortometraggio non sta forse al lungometraggio come il racconto breve sta al romanzo? Ebbene. Pensiamo per un momento a Intolerance (1915) di David W. Griffith, il primo (assieme al nostro Cabiria) grande monumento del muto. Non si compone forse di quattro episodi ben distinti: La caduta di Babilonia, La passione di Cristo, La notte di San Bartolomeo, La madre e la legge? Sennonché Griffith, romanziere e non novellista, come poi tutti i suoi seguaci grandi e piccoli, finisce per cucirli insieme, intersecandoli e incrociandoli grazie alle potenzialità filmiche dell’analogia (leggi montaggio), facendone l’opera-epopea che Intolerance è. Per rintracciare, all’epoca, quelli che, negli Stati Uniti, potrebbero dirsi i primi film a episodi, occorre scavare nella produzione di serie B, evocare serial come Woman in Grey (James Vincent, 1915), The Exploits of Elaine (Louis Gasnier, George B. Seitz, Donald MacKenzie, Edward José, 1915) o Wolf of Kultur (Joseph A. Golden, 1918), veri e propri feuilleton a puntate, paralleli ai ben più originali feuilleton francesi di Louis Feuillade, da Judex (1912) a Fantômas (1913) a Le vampire (1915), ricalcati pochi anni dopo, in Italia, da I topi grigi (Emilio Ghione, 1918). E, quasi senza volerlo, si è pronunciata la parola chiave: serial, serie. In simultanea con la nascita del cinema nasce la serie a soggetto moderno e contemporaneo, per accontentare palati meno raffinati, spesso infastiditi o annoiati dai tanti péplum e kolossal storici che inondano le sale cinematografiche del primo Novecento. Poi le cose cambieranno. Lo stesso Griffith produce, in piccolo (leggi corto), western e melodrammi, avventurosi e polizieschi, dando sì origine al cinema di genere e la circostanza non fa che ingigantire la sua figura di pioniere , un cinema che si perpetuerà per decenni e decenni, fino a oggi. Quell’oggi che, per un naturale riflusso di un passato destinato a non passare mai del tutto, resuscita, in grande stile si tratta di un’emergenza epocale, peculiare di questi ultimi anni la grande serie televisiva, concepita, in virtù delle ormai invasive piattaforme digitali, quale alternativa domestica ai blockbuster o ai cosiddetti ‘film da festival’ (o anche non blockbuster o non ‘film da festival’, ma comunque aureolati da un’infinità di riconoscimenti) proiettati nelle sale oggi chiamate multisale, sale non di rado vuote, o frequentate solo in occasione di hit di grande richiamo.
Perché questa lunga premessa? Per segnalare che, malgrado l’imperio del big is beatiful sullo small is beatiful, lo small, o in veste di film a episodi, o in veste di corto d’autore, ma mai in veste di puntata seriale, ha continuato a esistere e, in tempi difficili come gli attuali, resiste più che mai, proprio in forza della sua diversità, della sua incompatibilità (per esempio, da noi, un grande come Marco Bellocchio, il quale ha esordito come geniale regista di corti, al corto è recentemente tornato con opere bellissime, di grande qualità espressiva, come Per una rosa, La lotta, Urlo (2017-2019)., quasi antefatti degli straordinari Esterno notte (2022) e Rapito (2023). Il presente libro arriva a mappare, come in un atlante rappresentativo della più differenti nazioni, 200 microfiction, o ‘racconti brevi’ sonori, più uno, come recita la battuta finale di Miracolo a Milano, tanto per sfatare la cifra tonda centotrenta circa gli inediti, settanta circa provenienti dal nostro Il cinema breve, pubblicato nel 2016 dalle Edizioni della Cineteca di Bologna, e ringraziamo nella fattispecie il direttore GianLuca Farinelli e la responsabile editoriale Paola Cristalli per averne consentito la riproduzione , a partire, guarda da caso da The Brats (I monelli, James Parrott, 1930) con Stan Laurel & Oliver Hardy. Perché ‘guarda caso’? Perché la coppia rappresenta l’icona ideale del passaggio dal muto al sonoro, dalla comica alla Mack Sennett (inseguimenti e torte in faccia) alla comica alla Max Roach (il loro scopritore già ai tempi del muto), più evoluta e nonsensica, in quanto figlia, per il registro popolare, della comicità di un Harold Lloyd o di un Harry Langdon, e figlia, per il registro surreale (che esiste eccome in… Stanlio e Ollio), della comicità ‘al alta quota’ di un Charlie Chaplin o di un Buster Keaton.
Ecco, Buster Keaton. Credete che non ci sia, persino qui, il vecchio Buster, il quale, da Luci della ribalta a Dolci vizi al foro, ha continuato a recitare, per bisogno soprattutto, oltre per un pervicace attaccamento alla propria identità di ex star del muto? Eccolo, in una versione a dir poco sospetta, in Film (1964), il corto d’avanguardia ideato da Samuel Beckett e modellato sulla sua maschera di pietra. Samuel Beckett il drammaturgo? Certo. E sono pure presenti due altri grandi concorrenti del teatro (o romanzo) del XX secolo: Jean Genet, con un corto tutto suo, l’unico, girato personalmente, Un chant d’amour (1950) Film è materialmente girato da un collaboratore di Beckett, Alan Schneider e Yukio Mishima, anch’egli con un corto tutto suo, l’unico, girato personalmente: Patriottismo (1966).
Questo per dire che, nella silloge, o atlante, che segue, in rigoroso ordine storico-cronologico, dagli anni Trenta a oggi altrimenti non si partirebbe, giustamente, con The Brats e non si rispetterebbe la vicenda che abbiamo fin qui narrato , se gli autori non sono tutti dei Beckett o dei Genet o dei Mishima, sono pur tuttavia, e usiamo un certo understatement, autori rispettabilissimi: da Jean Cocteau a Jean Vigo, da Robert Bresson a Jean Renoir, da Jean Grémillon ad Alfred Hitchcock (Soldati e Matarazzo in rappresentanza dell’Italia), per il periodo d’anteguerra del secolo scorso. Dopodiché, per il secondo mezzo secolo e oltre, i ‘rispettabilissimi’ non si contano davvero più: l’intramontabile Buñuel, l’intera prima fila della Nouvelle Vague (Godard, Rohmer, Chabrol, Truffaut, Rivette, Varda, Rozier, Marker, Guiguet), Akerman, Lucas, Tarkovskij, Skolimowski, Ioseliani, Wajda, Oliveira, Vecchiali, Straub/Huillet, Fassbinder, Scorsese, Kaurismaki, Kieslowski, Frears, Kiarostami, Lynch, Jarmusch, Makhmalbaf, Kusturica, Tarr, Campion, Erice (così, alla rinfusa). Fino ai più attuali Cuarón, Del Toro, Nolan, Mungiu, Gomes, Diaz, Costa, McDonagh, Anderson, Rúnarsson, Nemes, Sitaru, Payne, Villeneuve, Ceylan, Chazelle, Nicolau, Koszalka, Kawase, Sogo Ichii, Hong Sang-soo, Bong Joon-ho, Weerasethakul, Hamaguchi, Aroonpheng (sempre alla rinfusa). Senza dimenticare i nostri Bellocchio e Moretti, Grassadonia-Piazza e Ciprì-Maresco (prima della rottura), Soldini e Salani, Carpignano e Mainetti, Gelormini-Danese e Bozzelli. Tutti e ne abbiamo sicuramente taciuto parecchi, magari meno noti, ma proprio per questo non meno sorprendenti alle prese con la fiction di breve respiro, spesso più incisiva e puntuale della fiction di ampio respiro.
Non il romanzo, il saggio o la poesia, infatti, bensì il racconto nella sua accezione più estesa memoria rapsodica dell’altro, apprensione di momenti di essere altrimenti perituri, resi inapprensibili dal tipo di acquisizione sommaria delle esperienze, spesso dominante , può restituirci oggi una dialettica dell’ascolto diciamo pure socratica. All’interno della quale diventa importante l’interpellanza di un testimone del tempo, eletto tra i tanti che potrebbero affollare una narrazione stratificata, di un vissuto, comico o tragico che sia, assunto a metafora dell’universalmente umano o disumano. L’azione simultanea anziché l’azione parallela (per citare la celebre locuzione di un autore, Robert Musil, che ha praticato entrambe con la medesima intensità progettuale, il racconto breve e il romanzo lungo). Il radicale anziché l’esponenziale. L’uovo anziché la gallina.
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