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Cat.n. 514

Fernanda Mazzoli

J.-P. Sartre e la tragedia di Oreste nel Novecento. Da Argo a Parigi: il dramma “Les Mouches”, Prefazione di Gherardo Ugolini.

ISBN 978-88-7588-431-4, 2025, pp. 64, formato 130x200 mm., Euro 13 – Collana di teatro “Antigone” [18].

In copertina: Oreste ed Elettra si incontrano presso la tomba del padre Agamennone dopo molti anni di separazione (Foto Cordon Press), riproduzione di soggetto vascolare, XIX sec., fonte non identificabile.

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Prefazione

Un Oreste ‘esistenzialista’

di Gherardo Ugolini

Il Novecento è stato il «secolo di Elettra»1 e non c’è alcun dubbio che proprio nel secolo passato le vicende mitiche ruotanti attorno alla casata degli Atridi – con protagonisti Oreste ed Elettra, ma anche Clitemnestra, Egisto, Pilade, Agamennone e Cassandra – siano state riprese in una gran quantità di adattamenti, riletture, trasformazioni drammaturgiche e narrative. L’elenco dei prodotti di questo avvincente capitolo della ricezione classica è denso: la sequenza si inaugura con l’Electra ispanica di Benito Pérez Galdós (1901) e con l’Elektra viennese di Hugo von Hofmannsthal (1903), prosegue con i quattro capitoli di Mourning Becomes Electra di Eugene O’Neill (1931), dove la vicenda è trasportata alla realtà americana della Guerra di secessione. Seguono, in Francia, l’Électre di Jean Giraudoux (1937) e quella di Marguerite Yourcenar che reca il titolo completo Electre ou la Chute des masques (1944). In Germania Gerhart Hauptmann scrive negli ultimi anni del regime nazista una Tetralogia degli Atridi, pubblicata nel 1947. In Grecia Ghiannis Ritsos compone negli anni Sessanta più monologhi drammatici ispirati a figure della saga degli Atridi, tutti compresi nella raccolta Quarta dimensione: Agamennone, Oreste, Il ritorno di Ifigenia, Crisòtemi. In Italia Pier Paolo Pasolini si inventa un dramma di totale mitopoiesi, il Pilade (1967), mentre Dacia Maraini riabilita Clitemnestra nel dramma I sogni di Clitemnestra (scritto nel 1978 e rappresentato per la prima volta a Prato nel 1980)2. E nel regesto, inevitabilmente incompleto, che abbiamo riportato, un posto di rilievo particolare occupa anche la rivisitazione esistenzialistica del mito realizzata da Jean-Paul Sartre nel 1943 con il titolo spiazzante di Les mouches.

Tra i denominatori comuni delle riscritture novecentesche se ne possono individuare alcuni che spiccano con assoluta evidenza e che indicano il distacco radicale rispetto alla tradizione antica del racconto mitico. Intanto il personaggio di Elettra assume una centralità nuova nella maggior parte dei casi, come era del resto già in Sofocle (non così in Eschilo). Il suo rapporto con la madre Clitemnestra e con l’omicida Egisto, la sua traumatizzata memoria dell’uccisione del padre Agamennone, anche l’alleanza col fratello Oreste in nome della giusta vendetta si riconfigurano nella modernità alla luce di nuovi interessi e matrici culturali: le dinamiche psicologiche inerenti alla famiglia intesa in senso borghese, le problematiche di genere, l’attenzione per i meccanismi inconsci della mente umana. La figlia di Agamennone diviene un personaggio problematico, che agisce sulla base di pulsioni oscure e inconfessabili, di traumi mai elaborati, di ricordi rimossi. Già nel 1913, del resto, lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung, nel Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica (1913) era giunto a identificare nel personaggio di Elettra l’archetipo dell’attaccamento morboso della figlia al padre, con conseguente conflitto con la madre. Il “complesso di Elettra”, come venne da subito battezzato, è un rovesciamento simmetrico di quello edipico che Sigmund Freud aveva scoperto pochi anni prima. È a partire dalla psicanalisi che O’Neill e Yourcenar caratterizzano il personaggio facendolo soffrire di una gelosia morbosa nei confronti della madre (con alternanza di identificazione e rivalità) e di pulsioni erotiche inconsce verso il padre, con transfert anche su altre figure maschili.

Un altro topos persistente ha a che fare con la politica e con la morale. Elettra e Oreste si oppongono alla coppia regale, usurpatrice del potere, con la conseguenza di dover sopportare una con­dizione di emarginazione e sofferenza estrema. Tali elementi possono diventare metafore per de­nunciare le condizioni di un popolo o di un individuo. Ed è precisamente in questo ambito politico-morale che si può inserire il caso di Les Mouches, rappresentate per la prima volta al Théâtre de la Cité di Parigi durante l’occupazione nazista (3 giugno 1943). La riscrittura di Sartre rielabora e contamina vari modelli antichi: l’Elettra di Sofocle, ma anche le Coefore e le Eumenidi di Eschilo, oltre a l’Elettra e l’Oreste di Euripide. Lo stesso anno vide anche la pubblicazione di L’essere e il nulla, la grandiosa esposizione di una prospettiva filosofica che divenne nota come esistenzialismo. Non deve sorprendere, di conseguenza, che Les Mouches siano state lette in larga misura come un manifesto esistenzialista in forma drammatica.

L’Oreste di Sartre arriva ad Argo da Atene (e non dalla Focide come nella tragedia greca) sotto le mentite spoglie di Filebo, laddove il nome è una chiara allusione all’omonimo dialogo platonico vertente sul tema del piacere e della felicità. È accompagnato dal pedagogo, secondo il modello sofocleo tradizionale, il quale però qui non approva affatto la decisione del suo pupillo di ritornare nella città natale. Argo, infatti, è una città infestata da un culto perverso dei morti: una volta all’anno, i due padroni della città, Clitennestra ed Egisto, aprono le porte dell’Oltretomba per consentire agli spiriti dei defunti di tornare e confrontarsi con i vivi, accusandoli dei torti subiti in passato. Gli Argivi viventi rispondono con un’isterica autocondanna per una serie di crimini (tra cui l’omicidio di Agamennone) ed esprimono profusamente il loro senso di colpa per il semplice fatto di essere vivi; allo stesso tempo, implorano ripetutamente i morti di avere pietà di loro. Tali riti apotropaici, celebrati dal Gran Sacerdote insieme con Egisto per espiare le colpe e scacciare la maledizione che incombe sulla città, sono in effetti l’espressione di una gestione cinica del potere. Può essere che Sartre, mediante queste manifestazioni di autoincriminazione popolare e di ipocrita pentimento collettivo volesse alludere caricaturalmente all’etica cristiana del pentimento, o forse alla politica di colpa nazionale che il regime collaborazionista di Vichy cercò di attuare durante l’occupazione nazista3. In realtà il pentimento degli Argivi è una negazione delle loro responsabilità, un rifiuto di impegnarsi in una linea d’azione liberamente scelta. Tale fallimento va rapportato alla “malafede”, principio che in L’essere e il nulla vale come antitesi della libertà esistenziale.

Se al principio della vicenda l’Oreste di Les Mouches appare assoggettato alla passività della malafede e all’edonismo superficiale, come tutti gli Argivi, la situazione cambia dopo l’incontro con la sorella. Elettra costituisce un elemento di resistenza e di ribellione: si rifiuta di partecipare ai riti annuali di espiazione voluti da Egisto e non esita ad arringare la folla perché si liberi dall’oppressione. Ma le sue parole di incitamento alla vendetta sono accolte come blasfeme dal popolo di Argo. Oreste, sempre senza palesarsi come fratello, nei panni di Filebo, le chiede di abbandonare Argo e di seguirlo a Corinto. Il figlio di Agamennone non è quel liberatore e vendicatore che Elettra si aspettava conformemente alla tradizione. È un giovane inesperto, che neppure sa usare la spada e che vorrebbe portar via con sé la sorella per sottrarla alla cupa atmosfera di morte che incombe su Argo, anziché realizzare la vendetta. Anche dopo l’avvenuta agnizione permane tra fratello e sorella un senso di sostanziale estraneità, e questo è uno dei tratti più originali della riscrittura sartriana.

Elettra riesce comunque a convincere il fratello ad agire inducendolo ad abbandonare il suo bisogno istintivo di fuggire e di sottrarsi alla necessità delle responsabilità. Questa è la svolta essenziale. L’assassinio di Egisto e di Clitennestra consente a Oreste di appropriarsi di una personalità, di un’identità corrispondente a quella attesa secondo tradizione, di conseguire un’autenticità esistenziale. E non è certo un caso che Sartre si distacchi dal plot dell’Elettra di Sofocle facendo uccidere a Oreste prima Egisto e poi Clitennestra. In tal modo l’orrore del matricidio non viene mi­nimamente attenuato. Ma per l’Oreste sartriano, eroe esistenzialista, capace di accettare in toto la sua parte di responsabilità morale, agire significa affermare la propria libertà. I ruoli tra Oreste e Elettra si ribaltano simmetricamente: quando Oreste colpisce con decisione e senza tentennamenti, Elettra non regge l’orrore del matricidio e il peso della colpa. Lei si dice pentita, mentre Oreste sostiene che la vera libertà consiste nell’accettare il peso delle proprie azioni.

Entrambi devono pagare il fio delle loro colpe, tormentati dalle mosche, simbolo del rimorso, moderna trasposizione delle mitologiche Erinni. La loro azione persecutoria ha un esito duplice: Elettra soccombe all’etica del rimorso e del pentimento e cerca di scrollarsi di dosso l’insopportabile fardello della responsabilità morale, arrivando persino a negare di aver mai desiderato la morte di sua madre. Invece, Oreste resiste opponendo l’etica della libertà esistenziale: non solo non nega la propria responsabilità per l’atto matricida, ma anzi la assume volontariamente e pienamente. Considera il crimine compiuto come l’espressione suprema della sua libertà di scelta. La decisione di andare via in esilio da Argo significa il rifiuto di perpetuare il vecchio ordine accettando il trono del tiranno che ha ucciso. Ma abbandonando la città che ha liberato, Oreste rinnega di fatto le proprie responsabilità nei confronti dei suoi concittadini riaffermando, in ultima analisi, il proprio individualismo e creando un divario tra la giustificazione morale del suo atto e le contingenze politiche con cui non riesce a confrontarsi.

Dunque l’Oreste sartriano di Les Mouches alla fine non riesce a ristabilire un ordine dinastico corretto, a riprendersi la reggia e il potere del padre, a ristabilire un potere regolato da giustizia. Tale fallimento si spiega accettando il senso tutto politico del dramma: l’opera vuole essere un atto di accusa contro il vecchio ordine corrotto – occupazione nazista della Francia, regime di Vichy, collaborazionismo francese – e non un programma coerente per superarlo. Come ha sostenuto lo stesso Sartre in un’intervista del 1951, in occasione di un nuovo allestimento scenico dell’opera, essa «cercava di contribuire […] all’estirpazione di questa malattia del pentimento, di questo abbandono alla vergogna che Vichy sollecitava» dal popolo francese4.

Gherardo Ugolini, Università di Verona, agosto 2025

1 F. Condello, Elettra, Storia di un mito, Carocci, Roma 2010, p. 107.

2 Un utile raccolta di testi antichi e moderni in Elettra. Varia­zioni sul mito, a cura di Guido Avezzù, Marsilio, Venezia 2002.

3 Cfr. V. Liapis, Three Landmarks in the Reception of the Oresteia in Twentieth-Century Drama, in A Companion to Aeschylus, ed. by Jacques A. Bromberg and Peter Burian. “Blackwell com­panions to the ancient world”, Wiley, Hoboken 2023, pp. 479-490, qui p. 486.

4 Citato in D. McCall, The Theatre of Jean-Paul Sartre, Columbia University Press, New York 1969, p. 167, nota 18.

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Fernanda Mazzoli

Prologo

Da Argo a Parigi

Da Argo a Parigi la strada è lunga, gli inciampi numerosi e le deviazioni di percorso ancora di più.

Gli dèi dell’Olimpo scompaiono, le vendette scolorano, madri e sorelle invecchiano, perdendo cupa grandezza e trepida pietà. Eppure, Oreste continua il suo viaggio, sospinto dalle Erinni e da troppi interrogativi irrisolti, e una sera del giugno 1943 calca le scene di un teatro parigino, vestendo i panni del protagonista nel dramma di Sartre Les Mouches.

Fuori, un altro dramma tiene avvinta la città: l’occupazione nazista.

Duemila anni e più di cammino lungo le vie della cultura occidentale lo hanno non poco segnato: ha perso qualche radice e non poche convinzioni e più che cercare gli assassini del padre sta cercando se stesso, ma per potere dire sono deve prima di tutto fare, e dunque è alla ricerca di un’azione e dal momento che tutt’intorno e anche dentro il teatro ci sono i Tedeschi, allora non può che uccidere Egisto, usurpatore del trono di Agamennone.

È così che, nel quadro narrativo offerto dal mito, nell’opera sartriana filosofia e politica si mescolano e si compenetrano, lasciando aperte tante questioni che ancora oggi, anzi oggi più che mai, ci incalzano. La stessa impasse su cui si conclude il testo offre un fertile terreno alla ricerca.

Ciò che segue non pretende di essere uno studio critico, e tanto meno esaustivo, della pièce del filosofo e scrittore francese, quanto, piuttosto, uno stimolo per l’approfondimento di alcuni temi che, a partire da Les mouches, investano diverse sensibilità culturali e campi del sapere.

Lo stretto legame tra dimensione filosofica e politica, cui si è fatto cenno, da un lato favorisce l’incontro di prospettive differenti, dall’altro sollecita una riflessione non meramente accademica sul presente e sui compiti che esso pone a chi ritiene che la libertà – che l’Oreste sartriano, sia pure in modo contraddittorio, persegue come fondamento del proprio nascere al mondo – debba orientare, in questo nostro tempo caratterizzato da un suo effettivo svuotamento, l’elaborazione teorica e la prassi politica.

Le prime sollecitazioni suscitate da questo testo prendono le seguenti direzioni che coinvolgono sia la complessiva opera di Sartre, sia il contesto culturale in cui essa è maturata:

– lo scarto tra l’Oreste antico e l’Oreste novecentesco, anche alla luce della natura del tragico;

– l’Oreste moderno al crocevia tra eroe problematico e uomo della crisi del Novecento, assediato dall’assurdo e dalla necessità di darvi una risposta;

– il rapporto tra libertà individuale e collettiva, tra libera scelta e responsabilità verso gli altri;

– il rifiuto, sul piano filosofico, del concetto di natura umana e le sue implicazioni;

– la necessità e la difficoltà di stabilire dei fondamenti morali ad una visione integralmente laica della vita;

– il ruolo del mito nella formazione di una coscienza collettiva.

Non questioni particolarmente nuove, certo, ma che la lettura de Les mouches e l’odierna soffocante cappa culturale-politica volta ad asfissiare intelligenze e coscienze ripropongono con rinnovata urgenza e che sottopongo all’attenzione di quanti siano interessati.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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