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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 019

Giuseppe Giusti

Il Gingillino [a cura di Giampiero Giampieri e Luigi Angeli].

ISBN 88-87296-76-6, 2000, pp. 64, formato 140x210 mm., Euro 5,16.

In copertina: Giuseppe Giusti in una foto pubblicata su “Scena illustrata”, anno 65, n. 5, maggio 1950, p. 8.

indice - presentazione - autore - sintesi

5,16

A proposito di Gingillino

 

 

di Giampiero Giampieri

 

Scrivendo tra il 1839 e il 1845 La Vestizione, La Scritta, Il Ballo e Gingillino, Giuseppe Giusti componeva quei lunghi polimetri nei quali la critica recente (dopo averli presi finalmente sul serio!) riconosce alcune delle sue satire migliori. E di tali poemetti Gingillino è il frutto “più ambizioso e impegnato”, quello che più fatica costò all’autore. Il tema della satira è “la disonestà, l’arrivismo e l’affarismo della burocrazia granducale, la cui corruzione – precisa Nicolò Mineo – costituiva un peso finanziario per la collettività e un pericoloso modello di comportamento dal punto di vista morale, oltre che un motivo d’attrazione per i giovani senza scrupoli”.

Assistendo alle tappe fondamentali della carriera di quel dannato, di quel, diciamo così, forzato dell’ipocrisia (Gingillino più che un essere umano è una predestinata vittima sacrificale), chi legge diventa spettatore privilegiato del “mistero” di quella sordida ascesa. Gingillino riesce enigmatico e inquietante proprio in quanto individuo assolutamente vuoto, privo di qualsiasi consistenza. Invece che biasimati, qui come in altri testi giustiani, il moralismo, l’astrattezza, la tipicità (tutte accuse, queste, mosse dai soliti critici al poeta) vanno presi sul serio quali indizi della presenza di “qualcosa” che dobbiamo cogliere, ma che è troppo “vero” perché l’interpretazione crociana lo potesse intercettare.

Insieme al Giusti, che ci fa da Virgilio, passiamo tra le ombre di un mondo di morti in cui, volendo, non duriamo fatica a riconoscere il nostro provinciale, e ancora “presente e vivo”, infernaccio toscano (se non “è eterno”, come il dolore della capra di Saba, tuttavia “non varia” di molto). Il “mare magno della capitale” dove rotola Gingillino è l’ottocentesca Firenze granducale, “la turpe bolgia” di cui Giusti gode a stravolgere in senso visionario-espressionistico il laidume morale. Come Parigi per Baudelaire, per il poeta di Monsummano Firenze era la “fourmillante cité, cité pleine de rêves”. Anche lui, buon discepolo di Dante, quindi esperto manipolatore delle apparenze del quotidiano, calpestava con sicure piante la “vanità che par persona” dei suoi simili. Cioè dei morti viventi di sempre e di dovunque: gli ipocriti, gli ignavi... tutti gli “sciaurati che mai non fur vivi”.

 

I critici italiani, i campioni della tradizione esegetica otto-novecentesca che a scuola ci insegnano così bene ad amare i nostri poeti, hanno delle responsabilità davvero grosse. Oltre ad averci guidato a fraintendere (mancandolo in pieno) il senso del passato, hanno smorzato tutti i lumi della poesia italiana, proprio come fanno gli “angioloni” di Er giorno der giudizzio del Belli. E quel che non hanno spento lo hanno immeschinito. Il loro “spiritualistico” contributo alla nostra attuale miseria intellettuale ci è entrato, tramite la scuola, nel sangue, nelle vene, facendo il gioco di chi (chissà chi è), essendo italiano e non amando l’Italia, gode ad avvilirne la cultura e la reputazione. Un poeta come Giuseppe Giusti non sta affatto, come ci insegnano, coi “minori” del nostro Ottocento. Che del resto, badando a come l’han sistemato i critici, è tutto quanto un secolo “minore”, rispetto al resto d’Europa. No, proprio no! Giuseppe Giusti, il bravo, il testardo ammiratore di Dante, non solo si merita: esige di essere avvicinato ai grandi poeti del suo secolo. E non abbiamo certo paura a fare nomi come Baudelaire e Poe. Vale a dire coloro che, agli albori degli squallidi trionfi della borghesia, decisero di esplorare la modernità e la sua scioccante bruttezza.

 

Leggendo Gingillino, noi seguiamo il protagonista da quando nasce – passando attraverso la sua sottomessa adolescenza di vigliacco – fino “alla laurea in legge, all’inserimento nel mondo dell’avvocatura e nei quadri della dirigenza amministrativa”. Ma Gingillino non è affatto uno “scherzo” di struttura fondamentalmente mimetica in cui la volontà di denuncia del poeta si concretizza “da una parte in fatti e comportamenti e momenti di vita, dall’altra in individui precisamente caratterizzati come tipi sociali” (Mineo). Nel Novecento l’ideologia ha fatto ai professori scherzi ancor più bizzarri e balzani di quelli creati dallo stesso Giusti. Sono troppe le verità dell’Italia con cui la parallela “verità” accademica ha preferito giocare a rimpiattino (nel nome di Hegel o di Marx) piuttosto che gettarci sopra “uno sguardo libero”, e logorarci quel nobile, professorale cervello. Così i dotti, cacciandoci nel ginepraio delle loro prospettive critiche, ci hanno voluto regalare un Giusti piccolo-borghese, un campione di provinciale, anzi paesano “buon senso”! Quel “buon senso” italiano che preclude (a lui ieri come a noi oggi) “la possibilità di costruirsi una visione del mondo e un’ideologia in sé coerenti e organiche”. Il nostro poeta, ahimè!, avvertì solo “in termini teoricamente vaghi e incerti l’esistenza e la consistenza di un problema toscano e italiano, e la sua reazione rimase ad uno stadio quasi puramente emotivo e moralistico”. Sul piano costruttivo, infatti, le sue idee finirono “coll’essere un balbettante adattamento delle posizioni della classe egemone...”. Ed ecco dunque che i “gran sciupateste d’Università” (così li chiamerebbe il Giusti), dall’alto della loro definitiva sapienza freudiano-marxista, di uno scrittore, cento e più anni dopo la sua morte, capiscono tutto: dall’affiorare di fantasie e di angosce di castrazione su su all’inibizione dell’aggressività edipica – fino alla funzione equilibratrice e gratificante dell’esercizio letterario come attività sublimata con esito antinevrotico...

 

Eppure, per quanto riguarda il Gingillino, uno studioso come Nicolò Mineo ha saputo vedere quanto siano intense le implicazioni personali presenti nel testo. Il critico osserva giustamente che il poemetto “è una parabola densa di significati e allusioni ossessivi per Giusti, che vi riconosce l’esatto contrario della propria vita, ma anche il modello di quel che lui stesso avrebbe dovuto essere secondo il desiderio, non troppo segreto, del padre. Da ciò la dialettica degli stati d’animo espressi nel componimento: dal senso di stupore e angoscia dinanzi alla realtà rievocata a un più sereno distacco consentito dalla superiorità morale che condanna il male, attraverso la sua mimesi, al disprezzo e all’ironia”. Purtroppo, quello che il marxismo e il freudismo ci hanno aiutato a capire sempre meno, nel corso del Novecento, è la presenza misteriosa del male che invece il Giusti avvertiva, rabbrividendone. E proprio il suo laico sgomento di “piccolo borghese” perplesso ci permette di accostare il nostro provinciale monsummanese ai ben più spericolati esploratori dei moderni stati di allucinazione. Gingillino è un momento della coraggiosa discesa nel “terribile paesaggio” della mente tentata da un viaggiatore non particolarmente coraggioso. (Chi non ricorda il giudizio del Guerrazzi, secondo cui il Giusti fu un Sansone che, appena scosse le colonne del tempio, s’impaurì dei primi calcinacci?). E il protagonista del poemetto, che Mineo definisce “burattino senza consistenza... parvenza e marionetta”, incarna efficacemente il paradosso dell’inconsistenza, del non-essere, proprio perché è la voce nevrotica del poeta il quale

 

misura con lo sguardo ardente di terrore

la scala di vertigine dove s’inabissa l’anima.

 

Chiameremo questo un restare alla superficie delle cose, un fermarsi al balbettante stadio di adattamento “emotivo e moralistico” alle “posizioni della classe egemone”? Il professore non ci prova neanche a immaginare l’entità dell’esperienza con cui il Giusti è alle prese. L’esercizio letterario è molto lontano, qui, dall’assolvere alla “funzione equilibratrice e gratificante” di rispecchiare la vita civile e politica.

Il poeta ondeggia penosamente tra il brutto spettacolo del mondo intorno a lui e il terrore di sapersi contaminato da quello stesso male. Un male che si è impresso, in modo indelebile, anche tra le contorsioni del suo povero raziocinio. Che cosa lo umilia così intimamente? Di che infame complotto è vittima la sua anima? La società è uno specchio che concretizza e moltiplica i disgustosi fantasmi della coscienza del poeta. Con un’ossessività assurda, avvilente, inutile. Egli scopre sgomento che anche dentro di lui (chissà come, perché, da quando...) è annidata, risoluta a crescere e fortificarsi, la fetida presenza dei “servi encomi” e “codardi oltraggi” da cui si riteneva, ma non era, “vergine”.

 

Gingillino è un’indagine relativa all’identità personale condotta simultaneamente all’interno e all’esterno di sé, dentro e fuori la propria giurisdizione. E la morsa che attanaglia l’esploratore, l’angoscia che non lo abbandona mai, nasce dalla paura di scoprirsi uno squallido nessuno, una marionetta compromessa (forse, fin dall’inizio, rovinata) dalla bruttezza della coesistenza. In sé il Giusti avverte la possibilità di risortire, in negativo, ciò che la misteriosa signora Ponza afferma di essere, alla fine del pirandelliano Così è (se vi pare): “Io sono colei che mi si crede... e per me nessuna”. Il terrore, per il poeta di Monsummano, è quello di non approdare mai all’autenticità intravista da chi, “forte animo” che si accende a “egregie cose”, avverte il contrasto fra il suo e il falso divenire sociale.

 

Come personaggio Gingillino “trae vita dal movimento che è intorno a lui, mentre in sé è un «burattino» senza consistenza” (Mineo). E tale burattino, per “logica poetica”, non viene “mimato direttamente ma attraverso quello che di lui si rivela nelle azioni che altri compiono intorno a lui e per lui”. Il suo non-essere è il frutto dell’educazione “effettuale” che tutti riceviamo venendo al mondo e crescendoci in mezzo. Questa brutta, selvaggia pedagogia – diretta, efficacissima, garantita a tutti – introduce in ciascuno di noi il caos della babelica mentalità collettiva. L’inconsistenza di Gingillino è il risultato dei consigli che fin da bambino, su su, gli sono stati vomitati negli orecchi dall’abietta fogna sociale. Sii docile, sii servile – gli hanno detto e ridetto. E così gli è stato impresso il marchio di fabbrica: “la lettre sociale écrite avec le fer”, direbbe Alfred de Vigny. Spegni ogni vivacità, mortifica ogni dignità; – gli hanno ripetuto – nascondi i tuoi vizi, camuffali da virtù. Fai del denaro l’unico scopo della tua vita ... Macché scienza, macché gloria: adula i potenti, servili anche nei mestieri più bassi; procacciatene senza scrupolo il favore, e abbandonandoli appena cadono in disgrazia. Soprattutto chiedi, chiedi sempre ... senza stancarti mai. Solo in questo modo si ottiene, prima o poi, ciò che si desidera.

Così catechizzato Gingillino mette in pratica i consigli ricevuti. E, ottenuto l’impiego, mattina e sera reciterà davanti al decreto di nomina la sua professione di fede. La mostruosamente anonima professione di fede del piccolo-borghese:

 

Io credo nella Zecca onnipotente,

e nel figliuolo suo detto Zecchino;

nella Cambiale, nel Conto corrente,

e nel Soldo uno e trino ...

 

Il Giusti, riversando il suo ribrezzo su quell’esemplare prodotto del cinismo sociale, ci ha descritto lo squallore degli ambienti frequentati da Gingillino. Ma non si è limitato a questo; ha voluto soprattutto renderci testimonianza dell’angoscia scatenata in lui dallo spettacolo di un’educazione tanto devastante. Così le fasi dell’esperienza personale del poeta scorrono parallele alle fasi della carriera di Gingillino. E la vuotaggine della marionetta serve al poeta a riprospettarsi di continuo, penosa, drammatica, la propria lotta interiore contro la sua stessa inettitudine. È chiaro che nell’oggettiva volontà di smascherare quella bruttezza c’è la decisione di denunciare il marcio del mondo che gli sta intorno. Prima ancora però (e molto più profonda) c’è l’urgenza del poeta di esprimere la sua sarcastica disperazione di fronte al bugiardo inferno della vita sociale. Nessuno laggiù, nel regno della falsità quotidiana, abisso nel cui buio nuota silenzioso il Gerione dantesco, nessuno desidera, e concretamente vi collabora, l’evoluzione spirituale di chicchessia. Nessuno va aiutato a diventar se stesso. Il limite, impostoci dal teatro in cui siamo malamente obbligati a recitare, è quello di non sfondare lo scenario, di restare al di qua, in mezzo ai burattini.

 

C’è una certa affinità tra il Gingillino di Giuseppe Giusti e L’uomo della folla di E. A. Poe. In quel racconto lo scrittore americano ci parla di un giorno in cui, standosene tranquillamente seduto in un bar di Londra, legge il giornale, osserva gli altri, guarda dai vetri fuori nella strada. Assorbito dallo spettacolo della folla che passa per la centralissima via, lo scrittore segue con interesse il fluire dell’enorme massa in movimento, fino a quando la sua attenzione si concentra su un vecchio... L’aspetto di costui lo incuriosisce a tal punto da indurlo a metterglisi dietro: ne vuole spiare da vicino le fattezze, i gesti, i movimenti. Ma dopo averlo pedinato per ore e ore, tuffandosi con lui nella calca delle vie di Londra allo scopo di capire chi egli sia, finalmente Poe ha un’intuizione. Inutile cercare oltre: di lui è dato sapere solo il disperato bisogno che ha di stare con gli altri, il suo rifiuto della solitudine. Ecco, quell’apparizione rappresenta l’essenza stessa del delitto: è l’uomo della folla, l’incarnazione del male che è in noi, tra noi. La non umana malvagità che si annida tra gli uomini tenta di assumere un volto, cerca di darsi un nome, ma non ci riesce... Essa è la negazione medesima di qualsiasi forma di realtà. Pur aspirando a evolversi, a “divenire”, il Male non consegue mai alcuna consistenza. I gesti dell’uomo della folla esprimono l’inutile dibattersi di chi, non essendo niente, non diventando nessuno, si sforza, tramite lo spasmodico, insensato rispecchiamento negli altri, di approdare all’identità. Ma lo stare insieme, il coesistere (anche se gli individui, agli occhi dell’infanzia, paiono essere “qualcosa”) non è altro che partecipare alla mostruosità della mancanza collettiva di senso.

 

Anche il Giusti, tallonando il non-essere di Gingillino, mira a smascherare un segreto che lo riguarda. Vorrebbe afferrare il proprio mistero; sente che qualcosa, oscuramente, minaccia la sua identità. E siccome sa bene quali siano le conseguenze di un’educazione negativa (com’è stata anche la sua) si fa tante domande. Perché si continua a devastare l’intelligenza dei piccoli, incapaci come sono di difesa? Con che coraggio ci si ostina a chiamare  “educazione” quel groviglio di teorie (i cui fallimenti, voluti o casuali, sono comunque irrimediabili) che determinano l’evaporazione del “ricco metallo della nostra volontà”? Perché la pedagogia collabora, di solito, al tradimento dell’infanzia, traducendo in tracollo irreversibile il delicato sbocciare della vita interiore? Gingillino, lo sappiamo, è colui che, senza mai tentare di essere se stesso, si adegua alla menzogna. Ma qui il Giusti, più che condannare una determinata categoria di persone, esprime tutta la sua rabbia di individuo schietto, autentico, sincero, burlato ed estromesso a forza dalla propria verità interiore. Lo spaventa l’idea di essere e di restare un fallito, il prodotto di una società che partorisce soprattutto “sciaurati che mai non fur vivi”. Il suo è il timore di chi, sentendo di non essere all’altezza, non riesce a liberarsi dalla negatività del male.

 

Nell’affidare incarichi di qualche importanza, i padroni, i detentori del potere, scelgono sempre “quanto di porco d’infimo d’ottuso / pullula negli stati felicissimi”. Tale malcostume comporta che l’uomo “non volgare e non infame” o venga scavalcato e si spenga nell’inerzia, o imbirbonisca anche lui, come le “altre arpie fameliche e melense”. La prima conseguenza è esattamente ciò che il Giusti sente avvenire dentro di sé. L’altra possibilità riguarda invece chi, adeguandosi come Gingillino, non fa niente

 

senza il permesso de’ Superiori,

sempre abbassando la ragione e l’estro,

sempre pensando a modo del maestro!

 

L’inconsistenza dei Gingillino diventa un crocevia da cui si dipartono due possibili percorsi. Il Giusti ne scruta attentamente le traiettorie parallele. Da una parte c’è la sua vicenda di uomo onesto, però scontento, amareggiato, irrisolto. Dall’altra, c’è la parabola esemplare dell’ipocrita. Il poeta la osserva, o meglio: la “spia” da vicino. Date le premesse da cui discende la sua educazione, teme di scoprire qualche ripugnante somiglianza, qualche losca analogia. Tutto il poemetto è una specie di esorcismo: un lungo, scrupoloso, analitico scongiuro contro la possibilità di avere qualcosa in comune con Gingillino.

Non ci troviamo davanti un semplice testo di pittoresca denuncia sociale. Invitandoci a questa evocazione dei propri fantasmi interiori, il Giusti vorrebbe che noi, leggendo lui come leggiamo Dante, riconoscessimo in Gingillino l’evocazione di ciò che avrebbe potuto essere ma che, per fortuna, di lui non è stato.

Ecco, il poeta assiste all’ironica “ninna nanna” cantata presso la culla del piccolo predestinato all’ipocrisia. In quel bimbo ritroviamo, con un po’ di malizia, il curioso paradosso di una convergenza-divergenza. (Senza malizia, d’altronde, che ci resterebbe di toscano in un toscano?) È come se il poeta assistesse al battesimo o, diciamo così, al benvenuto nella società di un aurorale marmocchio originario (in tedesco si direbbe ur-kind) destinato a due diversi esiti possibili: la sorte di Gingillino o quella del Giusti.

La ninna nanna è una cantilena la quale, bonariamente, ci prospetta uno di quei terribili, inconfutabili annientamenti preliminari della volontà infantile, piuttosto frequenti, da sempre. Come non pensare, per esempio, alla Geltrude dei Promessi Sposi? È come se il poeta ci materializzasse davanti una specie di spietata condanna sociale alla vigliaccheria, quasi una predestinazione “que nul n’élude”, poiché se ti tocca è a te che tocca. Ognuno poi reagirà in base alla propria indole: Gingillino in un modo, il poeta (grazie al Cielo!) in un altro. Intanto però, mentre ascoltiamo la ninna nanna “tutta sentenze d’oro”, siamo invitati a riflettere sulla ferocia di condizionamenti rispetto a cui, quando colpiscono, siamo senza difesa.

Vent’anni dopo eccoci assistere alla laurea di un Dottore di cui sentiamo lodare “la docilità e la prudenza” da parte di “un Frate professore, / gran sciupateste d’Università”. Il fatto che Gingillino si laurei in giurisprudenza ce la dice lunga sul valore allusivo del dettaglio. Anche il Giusti, comprata la divisa “d’Eccellentissimo”, com’è noto, lasciò Pisa da avvocato. Come avvocato però (nonostante o forse proprio a causa delle inevitabili pressioni paterne) non poté mai prendersi sul serio. E Gingillino, probabilmente, nasce proprio dal profondo senso d’inadeguatezza che lo costrinse a divergere e a ribellarsi nevroticamente all’autorità del padre.

 

Gingillo significa “ninnolo; oggetto di poco valore, che serve da trastullo”. Ora probabilmente, quando il Giusti afferma che al suo eroe

 

è concessa facoltà

di potere in jure utroque

gingillar l’umanità,

 

egli ha inteso alludere al permesso che la società accorda a Gingillino di “imbrogliare” legalmente, ufficialmente, il suo prossimo. Comunque il significato esatto del termine gingillo è quello di oggetto inutile, di zimbello ridicolo con cui ci si diverte e si perde tempo. E quasi certamente è questa l’accezione prevalente che, nella sua ambiguità, il poeta voleva dare al nomignolo “Gingillino”. Costui rappresenta quell’infanzia tradita, umiliata e calpestata che ognuno, vincente o perdente, laureato o ignorante, impiegato o senza lavoro, si porta sempre dietro. Grazie alla nostra originaria sconfitta segreta l’autorità riesce a tenerci in pugno. E di che altro è frenetica l’autorità se non di utilizzare storture e debolezze di tutti noi in modo che il male, fatto e ricevuto, non diventi mai bene? Anzi, in modo che si prolunghi, come il Gerione dantesco, in una “fiera con la coda aguzza, / che passa i monti, e rompe i muri e l’armi” e

 

tutto ‘l mondo appuzza.

 

Salutato in stile bernesco dagli scalmanati compagni d’università, Gingillino si avvia verso la sua gloriosa carriera. Il poeta si addentra con lui

 

nel mare magno della capitale,

ove si cala e s’agita e ribolle

ogni fiumana e del bene e del male.

 

Qui il tragitto, facendosi infernale, diventa inevitabilmente sempre più dantesco. Chi aspira alla propria salvezza non può fare a meno di passare attraverso lo spettacolo ripugnante della dannazione: la sua, temuta, e quella degli altri, spesso anche troppo sfacciatamente esibita. Seguendo il suo “uomo della folla”, il Giusti si ritova nel “lombricaio” degli aspiranti al pubblico impiego. Nel fango di quella fogna sguazzano coloro che, partiti per essere avvocati, si ritrovano poi a fare le spie. Deciso a conoscere fino in fondo dove porti “la scala di vertigine” della degradazione, il poeta scivola in un ambiente che non è arbitrario definire “espressionistico-kafkiano”:

 

Giace in un vicolo

sghembo e remoto,

tra le pozzanghere

d’eterno loto,

 

nera casipola

a uscio e tetto,

che d’una trappola

ti dà l’aspetto.

 

In quella tana c’è una vecchia sibilla (un’autorevole sgualdrina di regime) a cui l’eccellentissimo dottor Gingilla, entrato nelle sue grazie, chiede “il bandolo / che mena al varco, / e schiude i pascoli / del regio parco”. E il poemetto si conclude, appunto, con le raccomandazioni che la “maestra” dà al suo discepolo e a tutti quelli come lui (paragonati dal Giusti a brutti uccelli malconci: merli tarpati, galli castrati, gufi ladri, falchi e nibbi affamati, sparvieri, avvoltoi...). Tali insegnamenti, antitetici (inutile dirlo) al senso del viaggio dantesco, guidano Gingillino al più completo dei fallimenti e lo aiutano a realizzare, come l’uomo della folla di Poe, il totale annientamento di sé.

L’autore del Gingillino, insomma, non è affatto uno che “tutto riducendo, per la sua incapacità di maturare una lucida visione socio-politica, al punto di vista superficialmente ed esclusivamente moralistico della contraddizione interna alla classe detentrice del potere economico, non vede i termini reali e riesce solo a cogliere le manifestazioni esterne del costume” (Mineo). Simili prospettive ideologico-professorali, inducendoci a liquidare, a suo tempo, quasi tutto il nostro patrimonio letterario, sono state per i devoti della poesia italiana ciò che, stando a Marx, sarebbe per i popoli la religione: oppio! No, Giuseppe Giusti va riconsiderato molto, ma molto più attentamente di come si è fatto finora. E, se vogliamo comprenderne la grandezza autentica di questo toscano verace, ci vuole il coraggio di strapparlo ai vecchi pregiudizi delle tetre ideologie novecentesche e di riavvicinarlo a quei conterranei con cui ha veramente a che fare: Dante, Collodi, Palazzeschi... Da una parte egli guarda al libero divenire di chi, strappandosi a viva forza all’immobilità del proprio dolore privato, si spinge come Dante, quasi si scaraventa, da sé, da solo (“torcia, frusta, / freccia d’Amore in terra”) verso i paradisi dell’evoluzione interiore. Con questo “scherzo” infatti il Giusti, che sa quanto sia difficile farcela con le proprie forze, pur disperando di sé, esprime il bisogno di staccarsi dalla società che l’ha plasmato, dall’educazione che ha ricevuto. In questo esperimento satirico “dantesco” egli procede alla rovescia: dalla descrizione di una negatività senza scampo vuole che si sprigioni, antitetica, la speranza di salvezza. Così, dall’altra parte, l’inerzia di Gingillino anticipa le continue fughe di un bambino toscano bizzarramente assetato di metamorfosi e di divenire. Anche Pinocchio, sì, proprio lui, è un burattino. Certamente! Però è così disobbediente da eludere ogni inganno, da balzar via da tutte le trappole. E chi ci dice che il destino di un simile ribelle non sia nato proprio da una scelta precisa di Collodi? Egli potrebbe aver intuito l’immortale vicenda del suo libro proprio leggendo gli “scherzi” in cui il Giusti evoca tante rigide marionette. Forse quei balzi instancabili, quell’inesausta volontà di salvezza sono la risposta di Pinocchio al troppo noto delirio d’immobilità di Gingillino:

 

O benedetto te, che dalla culla

se’ stato savio di dentro e di fuori;

che non hai fatto nulla

senza il permesso de’ Superiori,

sempre abbassando la ragione e l’estro,

sempre pensando a modo del maestro!

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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