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Gingillino è l’ultimo e più ampio dei grandi polimetri giustiani. Cominciato verso la fine del ’44, fu portato a termine negli ultimi mesi del ’45. Diviso in tre parti, oltre il Prologo, è un indagine relativa all’identità personale condotta simultaneamente all’interno e all’esterno di sé, dentro e fuori la propria giurisdizione. E la morsa che attenaglia l’esploratore, l’angoscia che non lo abbandona mai, nasce dalla paura di scoprirsi uno squallido nessuno, una marionetta compromessa (forse, fin dall’inizio, rovinata) dalla bruttezza della coesistenza. Chi aspira alla propria salvezza non può fare a meno di passare attraverso lo spettacolo ripugnante della dannazione: la sua, temuta, e quella degli altri, spesso anche troppo sfacciatamente esibita. Seguendo il suo “uomo della folla”, il Giusti si ritrova nel “lombricaio” degli aspiranti al pubblico impiego. Nel fango di quella fogna sguazzano coloro che, partiti per essere avvocati, si ritrovano poi a fare le spie. Deciso a conoscere fino in fondo dove porti “la scala di vertigine” della degradazione, il poeta scivola in un ambiente che non è arbitrario definire “espressionistico-kafkiano”.
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