Costanza Caglià, con augurale preveggenza, ha scritto: «il nostro amore resterà celebre e immortale così come io lo vedo con i miei occhi velati di mistero».
Così è. L’amore con Erode, pubblicato dalla Libreria delle Donne di Firenze nel 1983, sopravvive a Erode, al secolo Torello Vannucci, e a Costanza, morta l’8 marzo 1999.
Costanza ed Erode si erano conosciuti nel 1971, a San Salvi, l’ospedale psichiatrico fiorentino dove Erode rimarrà fino alla fine e da cui Costanza uscirà per essere ospitata al Pensionato comunale di Via del Porcellana.
Quel librettino sottile non si è perso negli scaffali della Libreria. È stato diffuso, ne furono tirate più di mille copie, è stato letto.
È arrivato a teatro, con una riduzione di successo di Silvia Guidi, rappresentata per la prima volta nell’autunno del 1995.
È sopravvissuto allo sconcerto che ne accompagnò l’uscita, in tempi nei quali la ricerca delle donne si indirizzava verso antenate e genealogie oltre i mondi della denuncia sociale degli anni ’70, appena alle spalle.
Alle spalle come la fervida scoperta della follia, l’apertura dei manicomi e la loro progettata definitiva chiusura con la legge 180, la legge Basaglia. Tutto questo era già acquisito, restava terreno dei servizi sociali.
Da questi territori, grazie al premio letterario istituito per gli ospiti del Pensionato, emerse il libro di Costanza. Subito ci si rese conto, con Annarita Vezzosi, con Lilli Bacci che l’opera meritava la pubblicazione, scommettendo sulle sue qualità di scrittura.
La Libreria delle donne accettò questa scommessa.
Il romanzo, uscito con copertina di Letizia Volpi raffigurante due mani che fanno nido a un palpitante cuore rosso, non dimentica la reclusione psichiatrica patita dall’autrice ma ne misura continuamente la distanza dal tempo presente, sorto dalla significativa relazione d’amore, che ha restituito individualità sacrale ai protagonisti.
È proprio attraverso il ragionamento d’amore, nel costruirlo e apprenderlo «con cuore di fanciulla e di alunna» che nasce la consapevolezza dell’opera: «e intanto ti ho parlato di questo libro che io vorrei pubblicare, vorrei fare un bel volumetto di cento e più pagine».
Sulle ascendenze letterarie profonde e rintracciabili nella nostra tradizione umanistica Costanza aveva fatto studi classici fino alla soglia dell’Università ha scritto con attenta analisi, più di ogni altro, Maura Del Serra.
Perciò la valenza emblematica della vicenda di Costanza, non può che essere riconfermata, come già avvertiva la prefazione alla prima edizione perché «il libro è bello, al di là delle precisazioni biografiche, proprio perché il manicomio diventa un paradigma universale della costrizione, dell’impedimento ad esistere».
Il libro con salde radici affondate nell’invenzione letteraria, concentrata sul ragionamento d’amore, sa rappresentarci anche tutti i tremori di un’esistenza che vorrebbe trascendere le ristrettezze quotidiane: «Alle 6 di mattina quando le rondini mi hanno svegliata sono di corsa uscita e andata al caffè adiacente SARDEGNOLI e mi sono volate L. 3.000 presto presto. Più presto ancora sono tornata a casa tremante di paura perché avevo speso quasi tutta la somma della giornata in mezz’ora: ho infatti L. 5.000 al giorno. Mi sono messa a letto come un coccodrillo steso supino e dalla paura non mi sono mossa più».
Quando Costanza iniziò a scrivere il suo libro aveva 57 anni, viveva già al Pensionato comunale di Via del Porcellana, dove è rimasta circondata dalla comprensione del «personale dell’Albergo» fino alla fine.
Il libro ha guidato come un faro anche la sua scrittura privata, annotata in agendine e quaderni, diligentemente intestati e corredati di piccoli sommari indici, con i pensieri utili allo svolgimento del suo tema, ben oltre la morte di Erode, avvenuta nel 1988.
Vissuta nella civiltà dei bar, dove stazionava con professionale quotidianità, Costanza sapeva di non poter sopravvivere all’immobilità, alla privazione dei suoi viaggetti, a Bologna, a Pisa, a Settignano, al flusso della vita che guardava stretta al suo Bonzino, il pupazzetto di zucchero eletto a figlio, diventato quasi di porcellana negli anni, al calore delle sue mani.
Quando le vicende dell’età l’hanno costretta a letto, immobilizzata da una frattura, non ha avuto più voglia di vivere, temendo l’ospedale forse come suo destino. Aveva scritto: «Io non ci vorrei andare perché all’ospedale mi sento male per via che c’è da stare a letto e io a letto non posso stare perché ho il cuore che cammina».
All’Albergo, come lo chiamava Costanza, hanno conservato finora, in uno scatolone le sue carte, la corrispondenza, i quaderni, le sue foto, ben oltre i termini di quanto avviene per persone che non lasciano nessuno.
Le abbiamo prese con responsabilità pensando che saremmo contenti se un giorno qualcuno mantenesse le nostre carte, le tracce di una vita, dove si entra talvolta con sgomento non potendo più chiedere permesso.
Isolina Baldi