Nicola Lisi nasce a Scarperia, nel Mugello, l’11 aprile 1893, da una famiglia di piccoli possidenti. Compiuto il corso di studi primari, si trasferisce a Firenze per frequentare le scuole superiori conseguendo il diploma di geometra, professione che eserciterà presso l’Amministrazione Provinciale. Accolto nel “fervore” culturale delle “Giubbe Rosse”, ne diviene frequentatore discreto. Qui e al caffè Gambrinus incontrando artisti, filosofi, scrittori, come Ottone Rosai, Arturo Reghini, Eugenio Montale, Aldo Palazzeschi, partecipa della temperie culturale dei “salotti” letterari della Firenze primi Novecento.
Il primo conflitto mondiale lo vede impegnato per tre anni (1916-1918) al fronte: un’esperienza particolarmente terribile per la sua indole mite e per la sua dichiarata ripugnanza per le armi. Rientrato a Firenze dal Friuli, in un itinerario di rinnovata convinzione cattolica avvenuta principalmente attraverso l’incontro con la spiritualità francescana, si avvicina a Bargellini e Betocchi ed insieme ad essi fonda nel 1923 il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, un almanacco di pensieri, “proponimenti”, “avvenimenti”, “avvertimenti”, un lunario di breve durata, che anticipò la fortunata stagione del “Frontespizio”, la rivista fiorentina che riuniva nelle sue file esponenti di rilievo della cultura cattolica e scrittori di solida fama come Papini, Giuliotti, Soffici, di cui nel decennio 1930-1940 Lisi diviene uno dei principali collaboratori.
Non incline alle mode e agli sperimentalismi delle avanguardie, benché attentissimo e acuto osservatore della realtà e dei mutamenti del suo tempo, Lisi attraversa con la sua opera e la sua vita il fascismo senza nulla concedere al regime, così come niente di apologetico ha la sua posizione dinanzi al cattolicesimo ufficiale. Pur condividendo valori e sodalizio artistico con altri amici cattolici come Giorgio La Pira, Luigi Fallacara, Primo Conti, Pietro Parigi, egli si definiva un “cattolico scrittore”, sottolineando con l’anticipazione aggettivale la sua posizione di scrittore indipendente.
La carriera letteraria di Nicola Lisi inizia nel 1928 con la pubblicazione (ed. Vallecchi) de L’acqua, dramma fantastico-religioso definito dall’autore “rappresentazione umana”, che non andò in scena nonostante un rifacimento adattivo da parte dell’autore nel 1948. Al teatro Lisi ritornerà nel 1953 con la ricostruzione dialogica de La via della Croce (Fratelli Fabbri, con illustrazioni di G. Manzù), opera presentata al Festival di Venezia nel 1956 e più volte radiotrasmessa, e nel 1957 con Aspettare in pace (ed. Vallecchi, con 7 tavole del Beato Angelico), una rappresentazione sacra ispirata dalla visione nel Museo di San Marco di alcuni scomparti di una predella istoriati dal Beato Angelico. Nel 1933 escono le Favole (ed. Il Frontespizio, con 9 xilografie di Pietro Parigi) dove si delineano le tematiche e il carattere di tutta l’opera lisiana che ha la sua radice nell’osservazione umile e attenta degli uomini e delle cose. Lo sguardo sovradimensionato dello scrittore penetra a cogliere il senso del mistero in quel “sacro implicito nel concreto del vivere” (Luzi 1987).
Nel Mugello, fatto di luce e di silenzi, egli ritorna durante l’estate; lì è la sorgente di quella “geometria celeste” che Carlo Bo ha individuato nella sua arte (Bo 1976). Quella terra di per sé celeste, come tutta la campagna toscana, “porta in sé il senso della misura che è misura dell’uomo” (Del Beccaro 1975). Esemplificata nella pittura fiorentina dal Tre al Cinquecento tanto amata da Lisi, è la misura della raffinatezza di linee semplici ed essenziali, in cui realtà e magia si incontrano nella poesia di una quotidianità vissuta come miracolo naturale, veicolata da una prosa “popolarmente aristocratica” (M. Del Serra 1993). Seguono Paese dell’anima (ed. Vallecchi, 1934), L’arca dei semplici (ed. Vallecchi, 1938) e Concerto domenicale (ed. Vallecchi, 1941), opere in cui si dispiega il vasto raggio della religiosità lisiana che lega uomo, natura e sovrannaturale in una partecipata concezione creaturale dell’esistenza. Nel 1942 vede la luce il Diario di un parroco di campagna (ed. Vallecchi), il suo libro più famoso, pubblicato in parte a puntate sulla terza pagina de “Il Corriere della Sera”. È il romanzo di un parroco semplice, solitario, che sa cogliere segni di eternità nella sua apparentemente modesta vicenda terrena. Dalla fine dell’agosto 1944 all’autunno 1945 Lisi con Giorgio La Pira, Mario Luzi, Pietro Parigi ed altri amici, pensa e pubblica “La Badia”, un foglio di lettura di due pagine per numero (36 numeri) distribuito alla Messa dei poveri celebrata nella Badia fiorentina. Tra i collaboratori Pietro Annigoni, Piero Calamandrei, Margherita Guidacci, Dilvo Lotti, Giovanni Michelucci, Giovanni Papini, Alessandro Parronchi, Ottone Rosai. Di impianto tipicamente lisiano, ogni “foglietto” è “un’avventura letteraria” (Mazzariol 1977) osmotica di fede, arte e impegno civile. Con Amore e desolazione. Diario 1 gennaio-31 luglio 1944 (ed. Vallecchi, con 7 disegni di Dilvo Lotti, 1946) si conclude la fase “diaristica” dell’opera lisiana (Luzi 1987). È il diario dell’occupazione tedesca di Firenze, nato da commossa meditazione sul dolore degli uomini e sulla vana crudeltà della guerra. Un sofferto e insieme pacato monologo interiore che, in uno stile scabro e limpido, trova la sua voce in pagine di assoluta bellezza.
Esce nel 1950 La nuova Tebaide (ed. Vallecchi), una raccolta di 25 “parabole” o “exempla” ispirati dal dipinto La Tebaide, attribuito a Gherardo Starnina, esposto alla Galleria degli Uffizi. La stessa sottile spiritualità unita a concreta saggezza umana è rintracciabile in molti racconti de La faccia della terra (ed. Vallecchi, 1959), dove si rivela attraverso liriche visioni l’eterno itinerario dell’uomo verso un destino di pacifica armonia con il naturale e il sovrannaturale: una meta intuita nell’oscurità della distanza, illuminata dalla felice prosa lisiana. L’anno seguente escono, sempre da Vallecchi, I racconti (1961), fusione di L’arca dei semplici e Concerto domenicale. Nel 1965 viene pubblicato il volume La mano del tempo (ed. Vallecchi, con 5 disegni di Venturino Venturi), una raccolta di poesie in prosa, aforismi, “illuminazioni”, meditazioni di uno “sguardo totale” (Luzi 1987) sereno ma non privo di inquietudine. Con Il seme della saggezza (ed. Vallecchi, 1967, con un disegno di Primo Conti) Lisi ripropone e accresce le Favole, in cui germina il seme sapienziale della poesia.
L’ultima opera di Lisi, ormai ottantenne, è la prosa autobiografica della Parlata dalla finestra di casa (ed. Vallecchi, 1973). Libro “delizioso” (Del Beccaro 1975), in cui narrare e meditare, realismo e sogno si integrano, eterno e contingente si uniscono in armonia. Qui, soffusa di una sottile ironia, la fedeltà alla realtà degli eventi, in cui ricompaiono anche gli amici delle “Giubbe Rosse” in vicende che scorrono concatenate alle memorie dell’infanzia e dell’adolescenza, permane, pur nella trasposizione magica del film della propria vita: un’esistenza pacata cui pure non è estraneo il dramma e il mutamento. È il disegno di una lunga vita solo apparentemente imperturbabile, “risultato ultimo di una decantazione dell’anima” (Del Beccaro 1975).
Nicola Lisi muore serenamente la mattina del 24 novembre 1975 nella sua casa di Borgo Albizi a Firenze. È sepolto a Firenze, accanto alla moglie Margherita, nel cimitero detto delle Porte Sante presso la basilica di San Miniato al Monte.
Donata Scarpa Di Zanni