Questo saggio di Daniela Belliti su Hannah Arendt viene presentato in occasione del Giorno della Memoria. Non è questo un fatto occasionale e senza significato. La Arendt ha indagato come si evince in maniera chiara e convincente dal testo ed in maniera approfondita, sull’origine del totalitarismo, tema ancora attuale anche se sono apparentemente finiti il fascismo, il nazismo e lo stalinismo. Comunque la cosa più suggestiva e fondamentale è rappresentata dal fatto che le origini del totalitarismo (cosa ben diversa dalla dittatura e dalla tirannide) sono state valutate e scandagliate con un atteggiamento psicologico, con una metodologia e con un approccio culturale in cui coincidono, si fondono e si alimentano considerazioni e valutazioni di carattere storico, sociologico e filosofico. È stato scritto molto sul rapporto tra oppressione e libertà, potere assoluto e dispotico e istituzioni democratiche, ma la grande originalità dell’opera della Arendt come con magistrale efficacia è riuscita ad argomentare Daniela Belliti è rappresentata dal fatto che la Arendt non si è fatta condizionare dall’ideologia, come non si è fatta coinvolgere in giudizi precostituiti e preconfezionati quando ha scritto sull’antisemitismo e sulla figura di Eichmann. Comunque la cosa ancor più coinvolgente e che giustifica pienamente la pubblicazione da parte dell’Istituto è costituita dalla modernità e dall’umanità che sottendono l’intera opera della Arendt. L’uomo e il suo destino sono al centro dell’interesse dell’autrice e sono l’uomo e la sua “vita activa” che hanno stimolato l’analisi e la ricerca di Daniela Belliti. Quando la Arendt si domanda «Chi è l’uomo?», essa risponde che a pensare, agire, volere, giudicare, amare e creare «[...] non è l’uomo nella sua singolarità, ma gli uomini che abitano il pianeta, la pluralità è la legge della terra».
Un ulteriore motivo di interesse del nostro Istituto per il pensiero di Hannah Arendt sono i testi da lei scritti sulla Resistenza tedesca. Come ha scritto Karl Jaspers «Il suo assunto è che la Resistenza tedesca attiva ebbe inizio solo nel 1938 quando la guerra diventò una minaccia e alcuni generali si convinsero della necessità di evitare un conflitto che era impossibile vincere. La Resistenza vera e propria, i grandi complotti, iniziarono solo nel 1942 quando la sconfitta bellica fu chiara e agli occhi di alcuni patrioti apparve necessario salvare almeno il salvabile». La Arendt parla di una resistenza silente che rimase passiva. La sua tesi è che la resistenza non nacque dall’orrore per lo sterminio del popolo ebraico ma solo per salvare la nazione tedesca e negoziare la disfatta.
Due parole sull’autrice del lavoro. Una cara amica che spero non giudichi una forzatura la mia convinzione che la sua vita e il suo impegno civile hanno molte analogie con la vita e l’impegno della Arendt. La passione per la filosofia e per la politica nell’assunto che la polis vive sul sentimento degli uomini ma non può essere governata se non dalla ragione. Infine se la Arendt non si è fatta mai coinvolgere totalmente sul versante del femminismo, certo è che non è difficile scorgere un filo che lega, nello scenario della storia e della cultura del Novecento, i movimenti del cuore di Simone Weil, lo spessore intellettuale della Arendt e di Maria Zambrano, la passione politica della Luxemburg e della Kuliscioff. Tutte queste luminose figure femminili rappresentano la voce della verità perché, come scrive la stessa Arendt: «Occorre usare la forza della verità contro il potere della menzogna perché tale potere è sicuramente più forte ma non duraturo: per diventare duraturo deve usare la violenza», quella violenza che è il fondamento del totalitarismo.
Roberto Barontini
Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza
e della Società Contemporanea nella provincia di Pistoia