Sia crescita, non costruzione!
Per questo scegliesti
il partito delle radici
contro il lastrico delle vie, fossero pure imperiali.
Né compasso né regolo
possono misurare
il tuo germoglio oscuro.
Il tuo segreto lo si chieda al vento,
alla pioggia di Dio.
Tu sei la fronda che fruscia nella notte,
e l’ala d’uno sconosciuto angelo.
Margherita Guidacci, Crescita
Se è vero che «il sogno della città ideale è la forza trainante della storia», in quanto la città utopica e perfetta, la Gerusalemme celeste, è posta all’omega della storia stessa, come sua culminazione e consumazione (“fine” nel doppio senso del sostantivo), è altrettanto certo che questa apocalittica ed apocatastatica civitas Dei, quale suprema architettura etica e spirituale dell’uomo, contiene sempre in sé, come nòcciolo prezioso o perla-cuore incastonata nella sua conchiglia, il suo giardino edenico, il paradiso dell’anima o, tout court, «il giardino‑anima».
Da sempre, nei miti di creazione delle culture occidentali ed orientali, e nella congenere poesia antica e moderna, l’immagine edenica per eccellenza del paradiso primigenio, sempre perduto e sempre inseguito, è quella di un’intatta ed intangibile, liberatrice ma cintata conchiglia verde di pienezza significante e di fervida quiete, «serbatoio di contenuti ideali» e «laboratorio di segni», specchio degli elementi naturali che riflettono ed alimentano le potenze dell’anima umana, giacché la città comprende i suoi giardini come il corpo comprende e abbraccia spesso non senza spine la sua anima.