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Se è vero che «il sogno della città ideale è la forza trainante della storia», in quanto la città utopica e perfetta, la Gerusalemme celeste, è posta all’omega della storia stessa, come sua culminazione e consumazione (“fine” nel doppio senso del sostantivo), è altrettanto certo che questa apocalittica ed apocatastatica civitas Dei, quale suprema architettura etica e spirituale dell’uomo, contiene sempre in sé, come nòcciolo prezioso o perla-cuore incastonata nella sua conchiglia, il suo giardino edenico, il paradiso dell’anima o, tout court, «il giardino‑anima».
Da sempre, nei miti di creazione delle culture occidentali ed orientali, e nella congenere poesia antica e moderna, l’immagine edenica per eccellenza del paradiso primigenio, sempre perduto e sempre inseguito, è quella di un’intatta ed intangibile, liberatrice ma cintata conchiglia verde di pienezza significante e di fervida quiete, «serbatoio di contenuti ideali» e «laboratorio di segni», specchio degli elementi naturali che riflettono ed alimentano le potenze dell’anima umana, giacché la città comprende i suoi giardini come il corpo comprende e abbraccia spesso non senza spine la sua anima.
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