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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 045

Diego Melegari

Il problema scongiurato. Note su Antonio Negri e il “partito" del General Intellect.

ISBN 88-87296-38-3, 1998, pp. 64, formato 140x210 mm., Euro 7,00 – Collana “Divergenze” [17].

In copertina: Disegno di M. Vulcanescu

indice - presentazione - autore - sintesi

7,00

 

Queste poche pagine vorrebbero avviare una critica a partire da un riconoscimento. Esse si propongono di affrontare l’ultima produzione di Antonio Negri, riconoscendo in essa la sola espressione teorica che, oggi, si pone radicalmente il problema del Comunismo. Questa tesi può apparire paradossale, poiché esistono innumerevoli formazioni politiche, collettivi, riviste ed associazioni culturali che si propongono la riproposizione, il rilancio o la rifondazione della prospettiva comunista. Conosciamo le spinte ideali da cui sono mossi gli appartenenti a ciascuna di queste formazioni e abbiamo anche una discreta conoscenza della tenacia con cui respingono ogni argomentazione che possa minare la percezione che essi hanno di sé come i rappresentanti del vero comunismo, sottratto ad un’intera storia di degenerazioni, deviazioni e fraintendimenti. Tuttavia lo statuto teorico delle argomentazioni che sorreggono questa certezza granitica è molto più ondivago di quanto si possa pensare.

Con una buona dose di approssimazione si può dire che ci troviamo spesso di fronte a semplici “teorie del Conflitto”, cioè alla “registrazione” del fatto incontrovertibile che nella società capitalistica esistono sfruttati e sfruttatori, dominati e dominanti e che essi tendono a perseguire i propri interessi collettivi attraverso lo svolgersi più o meno consapevole della “lotta di classe” (che ovviamente non significa solo manifestazioni urlanti da una parte e vigorose manganellate dall’altra, ma rappresenta una dinamica costitutiva della quotidianità, anche più prosaica, essendo valido, in questo caso, quel “primato della contraddizione rispetto ai contrari” che Althusser evidenziò e che piegò ad un indebito vitalismo politico).

Le differenze fra le diverse prospettive, qui unificate nella generica categoria di “teorie del Conflitto”, sono ovviamente enormi. Quasi tutto, infatti, sembra dividere gli entusiasti sostenitori degli operai in tuta blu dai colorati collezionisti di nuovi soggetti antagonisti, oppure i pochi, freddissimi, “ingegneri” marxisti-leninisti che progettano minuziosamente il “Partito dell’Avvenire”, dai caldi eretici del «comunismo libertario, sempre sconfitto e sempre riemergente» (secondo l’espressione di Marco Melotti, uno dei più acuti fra i suoi fans).

 Tuttavia nessuna fra le “teorie del Conflitto” sembra in qualche modo poter fondare il proprio autopercepirsi come “comunista” su una reale accettazione della sfida teorica marxiana. Per Marx, infatti, parlare di Comunismo significava prima di tutto individuare, all’interno del modo di produzione capitalistico, non solo innegabili contraddizioni (e, al limite, possibilità di crollo), ma anche la tendenza a costituire oggettivamente un soggetto (per Marx il “lavoratore collettivo”) in grado di avviare il passaggio ad un diverso modo di produzione. Il marxismo, invece, tentò spesso di mantenere l’esito marxiano della fondazione razionale della necessità del passaggio al Comunismo, aggirando le domande radicali che questa ipotesi di Marx alimentava. Oggi, infine, sembra che si sia giunti, in molti casi, allo schiacciamento della prospettiva comunista sulla conferma reiterata di una semplice petizione di principio. In alcuni il problema della capacità di “governare” una possibile transizione intermodale è ridotto al problema della presa di coscienza del proletariato, per cui il soggetto sociale di riferimento dovrebbe sostanzialmente diventare ciò che già è (per quanto questa sua realtà in sé sia occultata dai fumi dell’ideologia dominante). Altri, partendo dall’impossibilità di individuare un soggetto già dato capace di transizione intermodale, propongono come momento unificante lo spostamento della questione su un piano interamente “politico” precludendosi ogni prospettiva di una razionalità sistemica alternativa (per cui, con uno slogan, l’interesse sta dalla parte della Classe, mentre la capacità da quella del Partito). Altri ancora, infine, aboliscono ogni distinzione tra posizione antagonistica, interesse al conflitto, radicalità politica e possibilità di padronanza sociale complessiva (riproducendo costantemente una mistificazione delle sconfitte in successi oppure finendo per «scambiare come forma di lotta politica di avanguardia il sabotaggio, che da decine d’anni la classe operaia conduce in diverse situazioni, in diversi momenti, e che è l’espressione permanente della sua sconfitta politica», come osservava un intellettuale non certo sospetto di “distanza dagli operai” come Raniero Panzieri).

 Ovviamente ci rendiamo conto di fare un torto a ciascuna di queste tradizioni (nel senso che esse si fondarono, un tempo, su analisi spesso profonde, oltre che su esperienze politiche e sociali reali, difficilmente riducibili allo “schemino” qui proposto). Tuttavia quel che ci interessava fare, nel corso di questa breve introduzione, era esplicitare come esse appaiono oggi, dopo il diluvio del 1989 e dopo il successivo, innegabile, annacquarsi di ogni tensione realmente innovatrice della teoria e della prassi comuniste. Ci sembra che il nostro, provvisorio, “schemino” dia un’immagine tutto sommato onesta della realtà delle formazioni politiche e culturali comuniste oggi esistenti: una spinta ideale indubbia, una certa chiusura identitaria, una percezione dei conflitti e delle contraddizioni sociali di gran lunga preferibile a ogni ideologia capitalistica sul “migliore dei mondi possibili”, un’innegabile difficoltà ad accettare una discussione con chi mette in dubbio i presupposti ultimi del loro paradigma teorico e gli approdi del loro modello antropologico, una preoccupante afasia e una certa mancanza di rigore nel riempire di contenuti il proprio “Comunismo”.

Le elaborazioni di Antonio Negri, al contrario, sembrano tener conto del fatto che, per fondare la possibilità di una prospettiva di lotta di emancipazione dal legame sociale capitalistico in senso comunista, bisogna prendere sul serio il nesso fra interesse al superamento dell’attuale organizzazione sociale e capacità di delinearne una alternativa. È insomma il coraggio (che fu, ad esempio, anche di Gramsci) di porre il proprio discorso al centro dello spazio fra il concetto di distruzione e quello di costituzione a rendere affascinante il profilo teorico negriano. Negri sa che una “teoria del Comunismo” non può coincidere con una semplice “teoria del Conflitto” e che se si tenta di ridurre l’una all’altra non si fa che ottenere un postulato vuoto da un lato e una cattiva teoria sociale dall’altro. Egli è consapevole che, senza porre ascolto all’elementare domanda su cosa stia alla base della convinzione che all’organizzazione capitalistica del lavoro e della società possa succederne una comunista e che quest’ultima sia qualitativamente migliore, ogni discussione su lavoro produttivo e improduttivo o organizzazione partitica e autorganizzazione è destinata a breve termine a vedere sfumare il proprio orizzonte di senso. Si finisce nello sbadiglio, se si è tra amici, o nel disgusto, se si ha a che fare con politicanti in vena di giustificazioni “teoriche” dell’ultima tattica all’ordine del giorno.

Tuttavia cercheremo di dimostrare che, se Negri ha coscienza di quanto sia importante considerare il problema del legame fra interesse alla ribellione e capacità di alternativa sistemica, è proprio la sua determinazione come problema che esso marginalizza. Non è un gioco di parole. Vedremo come nell’elaborazione di Negri siano disseminati dei dispositivi teorici tali da scongiurare l’inevitabile complessità che ogni determinazione e gerarchizzazione fra diversi livelli di discorso comporta. Ogni contraddizione viene così appianata e gli elementi che si ostinano a ricordarcela vengono relegati a residui ininfluenti rispetto ad una “tendenza” tale che, per essere anche solo pensata, non può conoscere alterità di sorta.

Queste note, dunque, non pretendono di ricostruire l’evoluzione del pensiero di Negri e nemmeno di “cartografare” l’intera estensione della sua produzione filosofica e politica. Esse sono consapevolmente parziali. Stringono programmaticamente il pensiero di Negri intorno all’unico tema del general intellect e dell’intellettualità di massa e gli accostano suggestioni e rimandi provenienti da altri autori che condividono la centralità di queste questioni. Esiste un “partito” del general intellect nel senso che esiste una costellazione di autori, riviste, esperienze politiche e culturali che prende parte, nella selva delle presunte eredità marxiane, per una e (in sostanza) una sola di esse. Certamente si forzeranno alcuni aspetti a discapito di altri. Certamente daremo scarsa rilevanza ad aspetti che, in una diversa prospettiva, sarebbe indispensabile approfondire. Certamente si opereranno parziali sovrapposizioni di sensibilità teoriche fra loro diverse (anche se non consideriamo questo un grosso problema: ogni partito conosce, infatti, entusiasti e scettici senza che ciò comporti una reale fuoriuscita dalla cittadella in cui si è asserragliato). Scopo di questo testo non è, del resto, fornire un riassunto delle posizioni che oggi ruotano intorno al tema del general intellect. È questa, infatti, una delle poche aree culturali, legate a quanto resta del marxismo, di cui non è difficile trovare testimonianza in ogni libreria. Unico scopo reale di queste pagine è quello di interrogarsi sulla vitalità teorica di un pensiero che sembra mantenere nel suo patrimonio genetico molte delle tare che hanno perseguitato il movimento comunista novecentesco conducendolo ad un rattristante declino.

 Per il resto, chiunque ha avuto l’occasione di potere esprimere, scrivendo, le proprie posizioni e le proprie riserve critiche, conosce in anticipo alcuni dei limiti di quanto ha scritto. Egli sa anche che altri o altre esperienze gli mostreranno che i limiti della sua analisi sono molto più numerosi di quanto egli potesse immaginare, tuttavia continua a ritenere che l’oggetto del suo discorso meriti il confronto aperto piuttosto che il silenzio.

 

 

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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