In questi ultimi tempi, si è cominciato da qualche parte a sospettare che l’ottimismo di superficie finora sostenuto è improvvido e che sarà difficile evitare, già dal prossimo anno, la più grave crisi del dopoguerra. Il 19 ottobre, sul Corriere della sera, David Roche, considerato un esperto di economia internazionale, concludeva così un suo pessimistico articolo: «In un mondo multipolare privato della leadership americana [corsivo mio], caratterizzato da una carenza di capitali e da una profonda recessione nelle economie emergenti, con un FMI senza soldi e senza idee, e con un Giappone paralizzato, gli investitori hanno di fronte un inverno rigido». Ho sottolineato la prima frase, perché l’articolista sostiene in fondo una tesi molto simile a quella che è la mia già da tempo: la crisi che al contrario delle precedenti, tipiche dell’epoca trascorsa, è soprattutto di carattere deflazionistico è connessa alla nuova epoca policentrica, di aspra interconflittualità tra imprese e sistemi economico-produttivi. Mancando il coordinamento centrale, assicurato un tempo dall’economia americana, la crisi di deflazione è da attribuire all’imperante situazione di disordine e disorganizzazione sistemica (l’anarchia mercantile, detto in termini, marxisti, di un tempo).
Parlare di crisi quando ancora, nei paesi centrali del capitalismo, si è in fase di sviluppo, sia pure con ritmo decelerato, può sembrare una scommessa azzardata. Ed infatti, starei molto attento a interpretare con troppa foga la parte del profeta di sventure. Tuttavia, non vi è nulla che possa fare pensare alla possibilità di evitare una crescente situazione di disordine con pesanti riflessi anche al livello delle grandezze macroeconomiche. Ciò che mi sembra invece molto difficile è la predizione deterministica di quale sarà il tipo di crisi nella quale dovrebbero cadere le economie capitalistiche. Non bisogna dimenticare che pochi mesi, addirittura forse pochi giorni, prima dello scoppio violento della crisi nel 1929, vi era una incontrollabile euforia in tutti i mercati e in tutte le dichiarazioni dei responsabili economici e politici. Adesso al contrario, sia pure con ritardo, ottimismo e pessimismo si alternano, forse però con una certa prevalenza del secondo ultimamente; e l’essere in allarme può comunque facilitare quanto meno il tentativo di porre in atto delle contromisure. Anche così, tuttavia, non dimenticherei che, malgrado le chiacchiere sulle nuove capacità di controllo coordinato da parte di vari organismi internazionali (situazione considerata quindi profondamente diversa da quella del ’29), gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato un crescente affanno degli organismi in questione nel prevedere e contenere l’esplosione delle cosiddette bolle speculative.
In realtà, credo si possa affermare con una discreta sicurezza che in questo mondo multipolare e senza leadership americana è decisamente carente proprio la capacità di governare i processi: sia economici che politici e, in generale, sociali. Siamo a tutti i livelli, in tutte le sfere dell’agire sociale, in una situazione di palude e di frammentazione e dispersione delle decisioni, legate all’esistenza delle più svariate correnti di difesa di interessi assai particolari e sminuzzati; altro che interesse generale e collettivo! In una situazione (“anarchica”) del genere, si può ben fare appello alla salvezza comune. Non dico che quest’ultimo non debba sortire effetto alcuno, ma penso che si tratterà di un effetto assai limitato, non sufficiente a comporre interessi e direzioni di marcia così divergenti e conflittuali,1 sia all’interno delle coalizioni internazionali (ad es. l’Unione europea) sia nell’ambito dei diversi sistemi economici nazionali o addirittura entro i vari complessi imprenditoriali, che nascono da alleanze spesso labili e sottoposte a frizioni acute.2
In una situazione confusa come l’attuale, ripeto che fare previsioni deterministiche contravviene ad ogni regola di buon senso, quella regola che in genere rispettano i vari servizi di previsione meteorologica, per i quali vige la stessa necessità di controllo di un enorme numero di variabili, sottoposte a estrema labilità e mutevolezza; solo una parte di esse può infatti essere presa in considerazione da modelli basati su certi rapporti causali ipotetici largamente aperti a possibili andamenti caotici ed erratici. Fra l’altro, chi scrive, e molti altri con lui, non ha a disposizione alcun istituto che raccolga informazioni e dati sugli andamenti delle diverse variabili economiche (nel tempo e nello spazio), né sarebbe in grado di elaborarli adeguatamente, per cui è obbligato ad orientarsi in mezzo ad una babele di informazioni e di commenti di cosiddetti esperti (di economia), sulla cui serietà e onestà intellettuale non può non nutrire i dubbi più seri e motivati.
È curioso, e abbastanza divertente, constatare come, dopo una pressoché generale adesione al liberismo più selvaggio, con il pieno ritorno alle decantate virtù (ideologiche) della smithiana mano invisibile, siano molti a fare oggi marcia indietro, solo parziale a dire il vero, chiedendo una migliore regolamentazione e controllo dei mercati.3 È tuttavia essenziale cercare di orientarsi sui caratteri specifici dell’attuale fase capitalistica; e per ottenere questo risultato è preliminarmente necessario avere una qualche cognizione intorno al problema della crisi, su cui intendo sviluppare, sia pure solo per spunti almeno per il momento, alcune riflessioni di larga massima.
1 Se in un cinema scoppia un incendio e vi è una o poche uscite di sicurezza, la razionalità vorrebbe che si mantenesse la calma e si uscisse ordinatamente, in modo da assicurare la salvezza del massimo numero di persone possibile. Può anche essere che sia così per qualche minuto (ma è già molto improbabile); dopo, quando ci si accorgerà che comunque molti dovranno perire, ognuno griderà al “si salvi chi può”. Perfino sul Titanic accaddero episodi del genere; e in quel caso esisteva un reale comando unificato, che nel capitalismo è inesistente a tutti i livelli, anche ad es. nella tanto decantata unione europea (unita, del resto, solo dal punto di vista monetario, e con una Banca centrale che nemmeno esautora completamente quelle nazionali), o anche semplicemente all’interno di ogni singolo paese.
2 Estremamente istruttivo il disordinato balletto che si sta svolgendo intorno alla Comit e alla sua possibile unione con la Banca di Roma o con l’IMI-San Paolo. Vi sono interessati grossi colossi finanziari europei come Deutsche Bank, Kommerzbank e Paribas, e italiani come le Generali, Mediobanca e l’Ifil-Fiat. Vi è tutto un variare di percentuali di pacchetti azionari in mano ai diversi attori, un multilaterale intreccio di colloqui, liti e quasi accordi, che muta ogni settimana il quadro entro cui dovrebbero infine precipitare certe decisioni (ormai si va verso la fusione tra Comit e Banca di Roma), che avranno sicuramente ricadute politiche, anche se al momento non è semplice dire quali.
3 Fra questi il ben noto speculatore Soros, che si è convertito ad un certo ritorno della regolamentazione da parte dello Stato dopo aver perso una somma smisurata nelle crisi asiatiche e russa. Interessante anche quanto scrive il 2 novembre (sempre nell’inserto economico del Corriere della sera) Lamberto Dini: «Per la ripresa dell’economia reale potrebbe anche essere necessaria una politica fiscale più espansiva e addirittura azzerare i tassi di interesse, per dare priorità alla crescita più che all’equilibrio di bilancio e alla stabilità dei prezzi». Questo è un linguaggio in certo qual modo “keynesiano”, logicamente in un’epoca in cui non fa più paura l’inflazione, ma si comincia a temere che la deflazione possa portare a guai ancora peggiori. L’articolo è tuttavia un florilegio di “pie intenzioni” (anche dette “aria fritta”), che non hanno alla base nessun tipo di anche minima analisi del capitalismo avente le caratteristiche proprie dell’epoca in cui siamo entrati.