1.1. Un’opera di fondazione
Tra i numerosi “protofotografi”, che, con espressioni suggestive, sono stati definiti i “pellegrini del Sole” (Eastlake 1857, p. 87) o i “custodi” o “discepoli della luce” (Crawford 1979, Smith 1990), William Henry Fox Talbot occupa una posizione di primissimo piano sia per l’ampiezza, completezza e continuità della ricerca tecnica (dalla registrazione fotochimica su carta dell’immagine fino ai primi passi della sua riproduzione fotomeccanica a inchiostro, sempre su carta) sia per la consapevolezza delle implicazioni scientifiche, estetiche e socioculturali del nuovo mezzo comunicativo e artistico. È a tale consapevolezza, maturata nel contesto di una ricca attività di studi scientifici e umanistici, che si deve dopo solo cinque anni di esistenza ufficiale della fotografia l’ideazione e parziale realizzazione, fra il 1844 e il 1846, del primo libro commercialmente diffuso in cui un testo a stampa sia illustrato da fotografie: The Pencil of Nature (“La matita della Natura”), in cui Talbot esplora e mostra le possibilità del nuovo mezzo in tutte le direzioni.
Per questo la sua opera è fondamentale non solo dal punto di vista storico ma anche da quello teorico: egli è fra i protofotografi quello che più ampiamente esplora le potenzialità della fotografia, ma soprattutto apre lo spazio di riflessione in cui le questioni che essa solleva saranno in seguito approfondite, e pone le premesse dei futuri dibattiti sul fotografico. In particolare, egli avverte che si sta affacciando nel panorama delle arti visive una “nuova arte”, dotata di un significato tecnico-estetico inedito e complesso cui il titolo del suo libro allude col binomio matita-Natura, e che egli ha il merito di non semplificare o ridurre a schemi precostituiti bensì di proporre nella sua stimolante problematicità.
Oggi, disponendo da qualche decennio di una teoria della fotografia consapevole di sé, possiamo vedere retrospettivamente il mezzo in tutta la ricchezza culturale che lo caratterizza fin dalle origini, e dire con Vaccari (1992, p. 135-136; cfr. Maynard 1997, p. XI) che la fotografia è “un incunabolo”, poiché, come il libro, anch’essa è nata già adulta e “la sua rivoluzione l’ha già prodotta al suo apparire” (Vaccari 2001b, p. 28).
1.2. Vuoti culturali e ritardi dell’editoria in Italia
Ci si aspetterebbe dunque che un’opera del rilievo storico e teorico di The Pencil of Nature “un classico [la cui] importanza nella storia della fotografia è paragonabile a quella della Bibbia di Gutenberg per l’arte della stampa” (Newhall 1968), e la cui lettura, come sempre avviene con i classici, offre continue occasioni di riflessione e scoperta a contatto con le sollecitazioni e gli interrogativi del presente fosse oggetto di attento studio e di appassionata divulgazione. In effetti così è in altri paesi, soprattutto di lingua inglese, e in tempi recenti. A partire dagli anni Settanta, cioè dopo un venticinquennio di ricerca sull’opera e la biografia di Talbot da parte di studiosi come Thomas (1964) e White (-1983), dopo la pubblicazione della prima edizione in facsimile di The Pencil of Nature curata da Newhall nel 1969 (Talbot 1844-46b), e forse in non casuale coincidenza con l’inizio di una ricca stagione di dibattito teorico sulla fotografia, si è sviluppata una produzione di studi su Talbot che non ha precedenti per quantità e qualità e che non accenna a rallentare.
In questi lavori, accanto a un prevalente impegno filologico-storico teso all’ordinamento della produzione fotografica e degli scritti di Talbot, e alla ricostruzione della sua biografia, emerge una nuova attenzione critico-estetica per le sue immagini e un crescente interesse per The Pencil of Nature (di cui nel 1989 è apparsa una nuova, accuratissima edizione in facsimile curata da Schaaf: Talbot 1844-46d) come la prima di una lunga serie di riflessioni teoriche sulla fotografia, come un testo di parole e di fotografie che si interroga sulla fotografia, intravedendo questioni che solo molti decenni più tardi verranno formulate esplicitamente.
Ma se in questo ricco panorama di studi si cercano dei contributi italiani, non si può non constatare che Talbot è un autore da noi quasi per nulla studiato (v. cap. 7, Bibliografia), e che The Pencil of Nature resta un puro titolo per giunta spesso tradotto impropriamente a cui si associano poche nozioni sommarie e talvolta imprecise. Del resto, studiare Talbot in Italia è un’impresa ardua, come ho potuto sperimentare di persona. Non solo nessuna biblioteca possiede una copia completa dell’edizione originale (Talbot 1844-46; nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze è custodito un esemplare del libro che consta solo del primo dei sei fascicoli: v. riprod. in facsimile Talbot 1844-46a), ma non è facile consultare neanche le due edizioni in facsimile realizzate negli Stati Uniti, rispettivamente nel 1969 (Talbot 1844-46b) e nel 1989 (Talbot 1844-46d): della prima mi risultano esistenti una copia nella Biblioteca d’Arte dei Musei Civici di Torino, una nella Biblioteca dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma, e una nella Biblioteca Nazionale di Potenza; e della seconda un’opera di alto valore non solo per la cultura fotografica ma anche per le arti grafiche e la bibliofilia, fra l’altro stampata interamente in Italia non mi consta che nessuna biblioteca pubblica o universitaria possieda un solo esemplare: l’unico che conosco si trova presso un’azienda privata, gli Archivi Alinari di Firenze, e della sua esistenza ho avuto notizia solo grazie alla segnalazione dello stesso curatore Larry J. Schaaf. A ciò si deve aggiungere che solo poche biblioteche dispongono di qualcuno dei volumi della vasta bibliografia in lingua straniera su Talbot, e infine che fatto ancora più grave ma connesso ai precedenti non si è mai provveduto in centosessanta anni a tradurre The Pencil of Nature nella nostra lingua.
1.3. Scopi e limiti di questo libro
Le osservazioni precedenti nascono dallo stupore per un vuoto di conoscenza che è veramente assurdo, ma purtroppo non incoerente con la “generale débâcle del pensiero critico”, con l’abdicazione alla memoria storica e con la regressione culturale prodotta dal “pensiero a una dimensione” (Marcuse 1964) e dall’ideologia nichilistica oggi dominanti.
Se, in una situazione come questa, mi arrischio ugualmente a proporre la lettura di The Pencil of Nature, per di più attirando l’attenzione sul suo valore teorico, è solo per la mia esperienza di insegnante. Da dieci anni tengo seminari e cicli di lezioni sulla teoria della fotografia in università, scuole di fotografia, associazioni culturali e circoli fotografici, e ogni volta verifico il grande interesse di studenti e corsisti di ogni età per la fotografia come esperienza non solo tecnica ma anche estetica e teorica, capace di fornire utili chiavi critiche e di aprire rivelatrici prospettive sulla nostra cultura e la nostra storia. Ma è anche vero che ogni volta mi scontro con la mancanza di testi su cui lavorare. In un primo tempo il problema era l’assenza di traduzioni dei teorici della fotografia che cercavo di far conoscere (Krauss, Van Lier, Dubois, Schaeffer, Lemagny, tuttora largamente inediti), così che, dopo avere inutilmente proposto a vari editori mie traduzioni di alcuni loro testi realizzate per le lezioni, mi risolsi a tentarne una sintesi (Signorini 2001). Più di recente, mi sono trovato nella stessa situazione quando ho voluto proporre la lettura di quattro basilari libri fotografici sulla fotografia: The Pencil of Nature, Pittura Fotografia Film di László Moholy-Nagy (1925), La fotografia di Ugo Mulas (1973) e La camera chiara di Roland Barthes (1980): dei quattro, solo l’ultimo risultava facilmente reperibile.
È un tipico circolo vizioso: i grandi editori pubblicano pochissimi testi di impegno teorico sulla fotografia perché secondo loro mancherebbe un pubblico preparato, ma il pubblico non può prepararsi perché non ha testi di impegno teorico su cui farlo. Per fortuna ci sono “piccoli” editori, come Petite Plaisance (già Editrice C.R.T.) di Pistoia e CLUEB di Bologna, che non seguono tale logica e che hanno cooperato nella realizzazione di questo libro.
Esso non ha l’ambizione di esporre una ricerca originale, bensì intende offrire ai lettori:
la traduzione italiana di The Pencil of Nature col testo a fronte (com’è doveroso in un paese dove troppo spesso vanno insieme un inglese servile e un italiano sgrammaticato);
un ampio saggio introduttivo che: 1) contestualizza storicamente il libro nel lungo e complesso itinerario di ricerca tecnico, artistico ed estetico di Talbot; 2) cerca di mettere in evidenza, riferendo i risultati di numerosi studi filologici, biografici, tecnici, critici, la grande densità culturale che caratterizza l’intera sua opera e si esprime, in particolare, in The Pencil of Nature; 3) pone quest’opera in una prospettiva teorica, collegando la riflessione di Talbot sulla fotografia col dibattito teorico-estetico sul fotografico degli ultimi decenni (v. Signorini 2001).
L’insieme del lavoro, dunque, costituisce un invito a conoscere Talbot e The Pencil of Nature come un autore e un libro fondamentali per cogliere la ricchezza di idee e di potenzialità che caratterizza le origini della fotografia in quanto “nuova arte” tecnologica.
Il volume non può offrire, per motivi sia tecnici sia economici, un adeguato corredo di immagini. Per quanto riguarda le ventiquattro tavole che fanno tutt’uno con i testi di The Pencil of Nature, si è rinunciato a riproduzioni che cercassero di rendere anche lontanamente la ricchezza e varietà cromatica degli originali, e si è deciso di ripiegare su un semplice bianco e nero standard, puramente indicativo del soggetto e della composizione (un’unica tavola è riprodotta a colori in IV di copertina). Per contenere i costi, inoltre, si sono limitate in numero e dimensioni le immagini di Talbot e di altri autori a cui si fa riferimento nel saggio introduttivo (v. l’inserto Immagini fuori testo). Non resta che confidare nell’intelligenza e nel senso critico dei lettori, sperando che sappiano apprezzare non un libro di fotografie ma un libro sulla fotografia; che comprendano lo sforzo di cominciare a rendere accessibili anche in Italia almeno alcune delle conoscenze storiche, tecniche ed estetiche di cui si dispone all’estero su Talbot; che apprezzino la ricostruzione storica e le riflessioni estetiche qui proposte pur in una veste editoriale modesta; che, infine, abbiano buona volontà e tenacia sufficienti per approfondire la conoscenza dell’affascinante e vasta opera fotografica di Talbot e della sua evoluzione tecnica e artistica su libri come quelli indicati nel par. 7.2 (Raccolte di immagini di Talbot riprodotte) e nel sito web, in via di realizzazione dal 2006, <http://www.foxtalbot.arts.ac.uk> (Catalogue Raisonné of the Photographs by William Henry Fox Talbot & his Circle, Schaaf [cur.] 2006-; v. nt. 10).
Il volume, insomma, non si illude di dire tutto, ma cerca di offrire molto. E molto, anche, chiede ai lettori: la passione per l’intelligenza in tempi bui; la pazienza di addentrarsi in una realtà culturale complessa e contraddittoria, in una rete intricata di riferimenti e di rapporti, a contatto con una personalità e un contesto culturale non riducibili a schemi semplificati; la disponibilità, insomma, a fare un’esperienza di pensiero critico sulle origini della cultura dell’immagine tecnologica, in un’epoca in cui questa immagine è troppo spesso vissuta senza atteggiamento critico e senza cultura.
1.4. Basi della ricerca
Con altrettanta franchezza, dichiaro i limiti della documentazione su cui ho potuto fondare il mio saggio introduttivo.
Anzitutto, non ho lavorato sulle fonti, ossia direttamente sui testi e le immagini di Talbot, bensì sulla bibliografia secondaria costituita da studi sulla sua opera e da raccolte di suoi testi e immagini. Fra quelli che ho potuto consultare (v. cap. 7, Bibliografia) ve ne sono alcuni nei cui confronti mi sento particolarmente in debito per l’impegno di ricerca da cui nascono e per gli stimoli intellettuali che forniscono. Mi riferisco in particolare a: Newhall 1967 e 1968, Arnold 1977, Gernsheim 1981, Schaaf 1989, 1992a e 2000a, Ware 1994, Schaaf (cur.) 1996, Batchen 1997, Armstrong 1998, Gray, Ollman e McCusker 2002. A questi libri va aggiunta un’opera di grande impegno e valore che si sta realizzando dal 1999 per iniziativa e sotto la direzione di Schaaf, col contributo della British Academy, dell’Università di Glasgow e dell’Università De Montfort di Leicester e Bedford: la pubblicazione dell’intera corrispondenza di Talbot nel sito web <http://foxtalbot.dmu.ac.uk> (Schaaf [cur.] 1999-), dove sono rese liberamente accessibili circa diecimila lettere con più di un migliaio di corrispondenti, cioè il materiale di base per ricostruire il complesso contesto sociale e culturale della ricerca fotografica di Talbot, nonché, più in generale, per studiare la storia, la cultura, i rapporti sociali e di genere dell’Inghilterra nei decenni centrali dell’Ottocento. Desidero infine ricordare l’importanza che ha avuto per il mio lavoro la consultazione della rivista History of Photography, che dal 1977 è un fondamentale strumento di comunicazione e aggiornamento delle conoscenze sulla storia della fotografia, e in molti fascicoli ha dedicato ampio spazio e interventi autorevoli all’opera di Talbot.
Ma accanto a questi e agli altri studi di cui ho potuto servirmi, ve ne sono alcuni che non ho avuto modo di leggere, o perché a me inaccessibili per la lingua o perché consultabili solo all’estero o in biblioteche lontane, presso le quali avrei potuto lavorare solo disponendo del tempo e dei mezzi necessari per soggiorni adeguati (mi rammarico in particolare di non avere potuto leggere Amelunxen 1984, 1985, 1987, 1988, e colgo l’occasione per sottolineare quale danno rappresentino la scarsità delle traduzioni e la mancata circolazione di testi fra aree linguistico-culturali tuttora rigidamente separate). Di tali opere ho dovuto limitarmi a riportare il titolo nella Bibliografia (evidenziandolo con un asterisco), quasi a stendere un programma per il futuro e per altri. Spero infatti che il lavoro che qui propongo susciti il desiderio di studiare l’opera di Talbot con tutto l’approfondimento e la consapevolezza storica e teorica che essa merita.
1.5. Struttura del libro e riferimenti bibliografici
Il libro è suddiviso in due parti: la parte I è costituita dal saggio introduttivo; la parte II contiene la traduzione di The Pencil of Nature (Talbot 1844-46), comprendente i due testi preliminari (“Considerazioni introduttive”, “Breve schizzo storico dell’invenzione dell’Arte”) e le riproduzioni in bianco e nero delle ventiquattro tavole, seguite ciascuna dal relativo testo di commento.
Per quanto riguarda la parte I, dopo la Premessa (cap. 1) il saggio informa sull’ambiente sociale e culturale, la vita e l’attività di Talbot fino all’inizio della sua ricerca sulla fotografia (cap. 2); sulla genesi, le caratteristiche e le implicazioni teoriche dei processi fotografici da lui elaborati (cap. 3); sulla struttura e la realizzazione di The Pencil of Nature (cap. 4); sull’ultima fase della ricerca, in cui è centrale il problema della fotoincisione (cap. 5); sul significato che ha The Pencil of Nature per la teoria della fotografia (cap. 6). Il cap. 7, infine, è costituito dalla Bibliografia, in cui i riferimenti sono forniti per esteso nella versione per autore (in ordine alfabetico) e sinteticamente nella versione per argomento (in ordine cronologico).
Per quanto riguarda la parte II, il testo inglese di The Pencil of Nature riproduce quello delle già citate edizioni in facsimile curate nel 1969 da Beaumont Newhall (Talbot 1844-46b) e nel 1989 da Larry J. Schaaf (Talbot 1844-46d). Sia The Pencil of Nature sia i brani da opere inedite in italiano citati nel saggio introduttivo e nelle note sono tradotti da me, e solo a me va attribuita la responsabilità di eventuali inesattezze.
Nel testo e nelle note i riferimenti bibliografici hanno la forma sintetica autore-data.
Le due opere di Talbot più frequentemente citate sono indicate come segue:
Some Account of the Art of Photogenic Drawing…: Talbot 1839a, seguito dal numero del capoverso fra parentesi quadre (e dall’eventuale indicazione della sua prima o seconda parte rispettivamente con a o b);
The Pencil of Nature: Talbot 1844-46, seguito dalle sigle AL, CI o BS (indicanti rispettivamente i testi “Avviso al Lettore”; “Considerazioni introduttive”, “Breve schizzo storico dell’invenzione dell’Arte”) e dal numero del capoverso fra parentesi quadre, oppure dall’indicazione “Tav. + numero romano” (riferita all’immagine di una delle ventiquattro tavole e/o al relativo testo di commento), anche in questo caso seguita dal numero del capoverso fra parentesi quadre (e dall’eventuale indicazione della sua prima o seconda parte rispettivamente con a o b).
Alle immagini dell’inserto fuori testo si fa riferimento con la sigla IFT seguita dal numero dell’immagine.
1.6. Nota lessicale
A proposito del lavoro di traduzione, poiché nei testi citati e riprodotti nel corso del libro ricorrono spesso le parole inglesi image e picture, mi sembra opportuno spiegare la scelta da me compiuta nel tradurle. In italiano, infatti, saremmo tentati di rendere entrambe con immagine. Ma nella lingua inglese i loro significati non coincidono, anche se diversi tratti semantici sono comuni. Se si consultano i lemmi “Image” e “Picture” nell’autorevole Oxford English Dictionary (Simpson e Weiner [cur.] 1989c, p. 665-667; 1989f, p. 784-787), se ne può ricavare, semplificando molto, che l’image è il fenomeno fisico-geometrico in se stesso, mentre la picture è il fenomeno fisico-geometrico in quanto intenzionalmente osservato, prodotto o raccolto. Per rispettare questa sottile ma significativa differenza semantica (anche se non sempre Talbot ne tiene conto) traduco sempre image con immagine, e picture con raffigurazione (e, per analogia, to depict, depicted, con raffigurare, raffigurato).
1.7. Ringraziamenti
Questo lavoro non ha ricevuto il sostegno di nessuna di quelle istituzioni che lo avrebbero promosso se in Italia esistessero più solide strutture di cultura fotografica e visiva; inoltre, significativamente, il corso di fotografia al cui interno esso era iniziato per scopi didattici, è stato chiuso nel luglio 2004 dall’amministrazione comunale di Milano in ossequio al dogma neoliberista dello smantellamento dell’istruzione pubblica. In tali condizioni sfavorevoli (che peraltro mi hanno assicurato il grande privilegio della libertà dai consueti giochi di potere), fortunatamente non sono stato del tutto solo. Desidero quindi ringraziare le persone che hanno capito e aiutato la mia ricerca nei modi più diversi: Cesare Ballardini e i suoi colleghi della Biblioteca della Cineteca Comunale di Bologna; il personale della Biblioteca del Dipartimento delle Arti visive “I.B. Supino” e della Biblioteca del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna; Marco Capovilla, fotografo giornalista e docente; Pierangelo Cavanna, storico della fotografia e docente; Guido Ceriotti, fondatore dell’omonima Biblioteca per lo studio della Storia dell’Arte, Olgiate Olona (Varese); Vincenzo Circosta e Monica Maffioli degli Archivi Alinari, Firenze; Gigliola Foschi, critica fotografica e curatrice; Flavio Franzoni, della Libreria Micamera, Milano; Christian Hauschke, dell’Università di Düsseldorf; Stefano Mastromauro, fotografo; Marina Miraglia, storica della fotografia; Silvia Paoli, conservatrice del Civico Archivio Fotografico di Milano; Paola Pirolo, dirigente del settore Manoscritti e rari della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; Nino Romeo, responsabile del settore Fotografia della Libreria Internazionale Hoepli, Milano; Larry J. Schaaf, storico della fotografia; Roberta Valtorta, direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano); Mike Ware, studioso di chimica dei processi fotografici delle origini.
Emilio De Tullio, architetto, fotografo e promotore culturale, mi ha consigliato nelle prime fasi di elaborazione del progetto della copertina, dopo avere già realizzato quello di Arte del fotografico (Signorini 2001). Carmine Fiorillo, dell’Editrice Petite Plaisance (che come C.R.T. realizzò Arte del fotografico), e Marco De Simoni e Silvia Grandi, delle Edizioni CLUEB, hanno voluto pubblicare questo libro per un impegno di cultura, al di là di una logica puramente commerciale.
Come sempre, la mia compagna Maria Luisa Tornesello ha condiviso con me gli interessi da cui nasce questo libro, l’impegno culturale e civile che l’hanno motivato, la carica affettiva che l’ha reso possibile. Negli stessi anni in cui esso è stato elaborato, ha preso forma parallelamente il suo studio Il sogno di una scuola (Pistoia, Petite Plaisance, 2006), sulla storia delle esperienze politico-didattiche di opposizione svolte dagli insegnanti della scuola dell’obbligo negli anni Settanta: esperienze che sono alla radice del nostro rapporto e del comune impegno di ricerca.
Dedico questo lavoro alla memoria di mia madre Gigliola Cavalli e alla memoria dell’amica insegnante e partigiana Angela Coletta.