Nella sua Storia di Firenze, lo studioso tedesco Davidsohn sostiene che è inutile, e spiacevole, seguire da vicino la storia ingloriosa delle lotte intestine di Pistoia, scritta col sangue del fratricidio. Pistoia ci offre soltanto “lo spettacolo disgustoso di pure discordie familiari e personali, che in sostanza non furono provocate se non dalla bramosia del potere, dall’odio e dalla vendetta”.
Eppure tornare ad avvertire qualche sentore di “pistoiesità”, tentar di ridare un senso più limpido alle antiche parole emesse, nel corso del tempo, da qualcuno dei membri della “tribù” a cui noi stessi apparteniamo, ridare udienza a un passato cui non è stato permesso di dire a voce alta quel che era giusto che dicesse, non dovrebbe essere questo (sì, proprio questo) il punto? Il sangue versato per le vie della città, i tremendi omicidi del tempo che fu, invece di uccidere il sonno e quindi acuire e tener sveglia la coscienza di Pistoia-Macbeth, hanno fatto della nostra provincia una specie di Bella addormentata della Toscana. La sorte di Pistoia? “Morire, dormire... nulla più”. È una consunzione che, una buona volta, dovremo pur smettere di invocare devotamente.
Sono ormai decenni (tanti e tanti anni scolastici) che, per colpa del freddo “inverno di sconforto” ideologico che abbiamo alle spalle, studenti e professori non tengono in alcun conto né Pistoia né la cultura che Pistoia ha prodotto. Così, giovani e non più giovani, non abbiamo fatto che perdere l’opportunità di conoscere uomini rappresentativi e vicende significative della nostra terra.
Ci vorrebbe un libro di scarsa dottrina, poco o punto accademico. Certo! Un non sistematico andar spigolando tra notizie variopinte come il vestito del pifferaio di Hamelin avrebbe il vantaggio di riproporre all’attenzione, con leggerezza, argomenti che già dovrebbero esserci familiari. E invece, ahimé, rispetto a essi in che letargo siamo caduti! Praticamente siamo bell’e “morti e sotterrati”.
Purtroppo la storia fratricida della nostra città non parla che di sangue versato! Eppure deve esserci, nella disperazione delle vittime, nella coscienza degli antichi testimoni sgomenti, un senso più nobile da ritrovare. Noi, i vivi di ora, potremmo rimetterci in ascolto di messaggi che, ora, sarebbe importante cogliere. E dove se non nelle scuole, collaborando insegnanti e alunni a “svegliar dalle tombe i nostri padri” (e noi stessi), dove invitare al dialogo uomini quali Meo Abbracciavacca, Lemmo Orlandi, Paolo Lanfranchi, l’averroista Jacopo da Pistoia, Vanni Fucci, Cino, Buonaccorso da Montemagno, Scipione e Antonio Forteguerri, Antonio Cammelli... e gli altri figli illustri di questa città?
Oh, gran (cioè poca) bontà dei programmi scolastici, “antiqui” e moderni! Oh, ministeriale coazione a ripetere, e a farci ripetere, cose vecchie stantie! Col risultato di far disamare ai giovani l’essenza di ciò che è italiano! Già, col magnifico risultato di precluderci didatticamente ogni contatto autentico con l’Italia vera, con la verità di una patria che molti di noi non hanno mai avuto (e ancora non hanno) il coraggio di amare! Questo libro, pieno di entusiasmo e di buona volontà, ma estraneo allo spirito specialistico degli addetti ai lavori, vorrebbe risvegliare in chi lo prende in considerazione lo stimolo a farsi lettore un po’ più amoroso e appassionato. Proprio grazie alla sua rapsodica incompletezza, vorrebbe suscitare soprattutto il fervore della ricerca personale. Perché no? Si tratterebbe di andarsi a leggere vecchie notizie biografiche, libri del secolo scorso, opere di autori che noi, qui, abbiamo cercato di richiamare almeno un po’ in vita. E ci sarebbe da allargare la ricerca anche ad altri personaggi, da noi solo evocati o lasciati sullo sfondo o addirittura (e sono importanti!) neppure rammentati. Fa presto a trovare chi per passione si mette a indagare per conto proprio!
Partendo da alcune riflessioni sul poemetto di Giuseppe Tigri Le Selve della Montagna Pistoiese (chi lo legge più, ormai?) volevamo fare una rivendicazione preliminare. Abbiamo inteso rivendicare il significato “moderno” in senso tutto italiano di un esperimento letterario del nostro provincialissimo, illeggibile Ottocento. Vediamo all’opera un intellettuale pistoiese che la critica considerò a suo tempo un “arcade” insignificante dell’inguaribilmente arcadica Italia... (Oh, noi del sud, sempre col fiatone della rincorsa! eternamente protesi a inseguire il progresso del nord, l’artificiale, l’irraggiungibile divenire storico del protestante, hegeliano, dialettico nord!). Vediamo il Tigri intento a far proprio proprio e pistoiese il patrimonio poetico dell’Italia da poco risorta e, finalmente, divenuta nazione. E com’è fiero l’arcade della periferica Pistoia di introdursi nella luminosa selva “endecasillabica” della tradizione che da Dante e Petrarca arriva a Foscolo e Leopardi! Egli è felice di poter garantire anche a valli, grotte, boschi e castagni (soprattutto castagni) degli amati suoi monti un angolino del Parnaso nazionale.
Seguirà un excursus che è (vorrebbe essere) insieme ambizioso e bizzarro. Indossando gli stivali delle sette leghe della fantasia, daremo qualche balzo per questi nostri paraggi, qua e là, a casaccio. Proveremo a immaginare di ritrovarci nell’Etruria del tempo dei tempi... Se ci riuscisse, quanto ci piacerebbe stendere uno sguardo retrospettivo “nell’aria aprica” di questa nostra regione! Ci entusiasma l’idea di rimuginare su gente misteriosa come, per esempio, Catilina. Vale a dire su personaggi che, essendo passati davvero di qui, pur appartenendo alla serietà filologico-tedesca della Storia, si sono trasformati in leggenda. Ci piacerebbe soffermarci anche su lontanissimi episodi macabri risalenti al tempo della guerra greco-gotica (quella che fece dell’Italia la più spaventosamente desolata delle terre e che ispirò, poi, al Trissino il suo famoso poema). Si tratta di fattacci orripilanti e ben reali, narrati da Procopio da Cesarea. La lontananza, facendoli scivolare nel fantastico, ci consente ormai di farli apparire fiabeschi.
Ma eccoci al Medioevo! Qui il libro si mette a inseguire, contemporaneamente, storia e letteratura, cronaca e narrativa, politica e poesia. Ci era venuto voglia, andando a caccia di cose che facciano un po’ di luce sul nostro destino (se ne abbiamo uno), di interrogare la tradizione. Avrà o non avrà in serbo, lei, qualche segreto, che so, qualche via misteriosa che ci introduca nella “pistoiesità & dintorni”, cioè nel senso e nel divenire del nostro passato? Dopo i poeti più antichi (Meo Abbracciavacca, Lemmo Orlandi, Paolo Lanfranchi), incontreremo figure molto interessanti. Alcune poco o punto note come, per esempio, l’averroista Jacopo da Pistoia, che a Bologna fu in relazione con Guido Cavalcanti.
Ma anche per quanto riguarda i grandi personaggi, come Cino, “star” che brilla (o dovrebbe brillare) in alto lassù, nel cielo pistoiese, cercheremo di dire qualcosa di nuovo. Dopo aver dato uno sguardo al suo canzoniere, avanzeremo un’ipotesi sulla bella storia d’amore di lui e di Selvaggia. Tale vicenda, a suo tempo, dovette avere molta più risonanza di quella che poi le ha concesso la moderna miopia dei critici, dall’Ottocento in qua. L’ipotesi, azzardata, congiunge l’amore “pistoiese” di Cino e Selvaggia con la storia di Romeo e Giulietta; collega le discordie medioevali della nostra città con le famose zuffe di Verona! Comunque sia, il poeta-giurista merita ben altro che il posticino riservatogli dalla scuola nel limbo ipocrita dei cosiddetti “minori”.
Un’attenzione particolare riserveremo a Vanni Fucci, figura-chiave dell’Inferno di Dante. Poi, riflettendo sull’assedio del 1305, cercheremo di ribadire l’importanza che quella tragedia dovette avere nell’immaginazione collettiva. Lo faremo attraverso le parole di due testimoni eccezionali: Dante e Dino Compagni. Richiamata l’attenzione sulla Pistoia di alcune novelle del Boccaccio e di Franco Sacchetti, ci interesseremo delle peripezie, anch’esse novellistiche, di un diabolico frate pistoiese del Quattrocento. Ce le narra, da par suo, Masuccio Salernitano, l’implacabile mangiafrati. Dal suo osservatorio della Napoli aragonese, lo scrittore si diverte a scandalizzarsi delle malefatte di un assatanato religioso pistoiese, il quale era sceso a predicare nel Regno. Giunti al Quattrocento, concentreremo l’attenzione, naturalmente, sugli intellettuali della famiglia Forteguerri: il cardinale Niccolò e i due fratelli, i luminosi Dioscuri: Antonio il petrarchista e il grecista Scipione. Dedicheremo un capitolo alle liriche di Buonaccorso da Montemagno, il cui aureo petrarchismo è insieme sensuale e purissimo. E poi, poi eccoci ai “teneri sensi”, ai “tristi e cari moti del cor” di quel Tommaso Baldinotti che, se (stando al Tommaseo) non fu un grande poeta, probabilmente fu uno degli uomini più adorabili che siano nati a Pistoia. Concluderemo confrontando le vicende di Antonio Cammelli con certi aspetti del destino di Ludovico Ariosto...
Ma torniamo a considerare le lotte che insanguinarono contemporaneamente Pistoia e Firenze. Quelle di Pistoia, secondo il Davidsohn, sarebbero del tutto prive di spinta ideale. Le atrocità fratricide, non mai illuminate da luce alcuna, costituirebbero una concreta, non allegorica “selva oscura” di crimini da cui nessuno sarebbe mai uscito “puro e disposto a salire alle stelle”. Unico risultato, la perdita della libertà da parte dei Pistoiesi. Infatti, per mettere un freno agli orrori di questa “novella Tebe”, si dovette ricorrere all’intervento di Firenze, che calpestò, ma senza domarla, la rabbia pistoiese. E tuttavia, anche così, fu inevitabile passare attraverso l’esperienza spaventosa dell’assedio e del saccheggio del 1306.
Ma è proprio vero che dal sangue di tutte quelle mutilazioni, dai massacri infami consumati durante l’accerchiamento (le cronache parlano di amputazioni che fanno venire in mente quelle del canto XXVIII dell’Inferno) non emerse alcun pistoiese ricco di dolorosa saggezza? Un pistoiese esemplare come Dante?
Se consideriamo quello che produssero i nostri rimatori del secolo XIII, il panorama non è dei più esaltanti. A proposito della poesia italiana delle origini (quasi inaccessibile al lettore comune), Michele Scherillo evocava l’immagine di “una foresta alta, tenebrosa, antichissima: a quando a quando un croscio, un trillo, un sussurro, un forte chioccolio, forse una voce remota: poi, di nuovo la solitudine enorme e l’enorme silenzio”. In mezzo al paesaggio impervio della nostra lirica primitiva, il contributo pistoiese è una specie di angolino di bosco ben poco frondoso. Ne I rimatori pistoiesi dei secoli XIII e XIV (Forni editore, 1979) G. Zaccagnini riporta tre canzoni e nove sonetti di Meo Abbracciavacca, due canzoni e una cobbola di Lemmo Orlandi, sette sonetti (più qualcuno di dubbia autenticità) di Paolo Lanfranchi. Ci sono poi pochissime liriche di oscuri rimatori: Meo di Bugno, Mula de’ Muli, Guelfo Taviani, Zampa Ricciardi. “In quelle poesie scheletrite in un arido convenzionalismo di scuola è assai raro osserva lo Zaccagnini trovare un accento, una frase, un concetto che non sia già noto, che non abbiamo a sazietà sentito ripeterci da tanti di quei rimatori delle origini e che non ci richiami alla memoria qualche motivo più antico, venutoci dai fioriti verzieri di Provenza”.
Meno male che, a confermarci la grandezza del passato pistoiese, ci sono le splendide testimonianze architettoniche che abbiamo sotto gli occhi! Altrimenti, rispetto a Siena, Lucca, Arezzo, Pisa... la nostra città ci farebbe la figura di Cenerentola, di una Cenerentola però di cui mai nessun principe s’invaghì. Comunque, per quanto riguarda la poesia, poiché sono esistiti i dotti esponenti del positivismo, professoroni che avevano letto “tous les livres”, è toccato a loro dire l’ultima parola su tanti dei nostri poeti delle origini. Ma quei divoratori instancabili, quegli (con tutto il rispetto) onnivori struzzi, conoscendo ogni ben di Dio di un passato che non si è continuato a interrogare, dovranno esser loro, in eterno, a sputar sentenze su autori con cui noi non vogliamo contatti?
Gli accademici ricercatori dell’Ottocento hanno dei meriti grandi, su questo non ci sono dubbi. Grazie a loro disponiamo di edizioni di autori altrimenti introvabili. Ma al merito si accompagna il demerito: là dove arrivò, fioca, la luce intellettuale della loro ricerca (loro, i sacerdoti della religione del dato di fatto!), subito dopo ritornarono le tenebre e rifiorì la polvere dell’oblio. E come, in che cosa potrebbero riuscir maieutici coloro che coltivano, scientificamente, la sterilità? Non è detto comunque che la miopia operosa dei dotti positivisti, strani come sono i percorsi di questo lungo labirinto che è la vita, non torni ad aiutarci... Ammesso che, in futuro, noi risentiamo di nuovo l’urgenza di frugare nel passato, pistoiese o italiano.
Non solo a Pistoia, dovunque qui da noi c’è bisogno di riscoprire il senso del passato. E la riscoperta, badate bene, dovrebbe essere più della lettera che dello spirito. In Italia infatti lo Spirito ne ha fatti di danni, grazie al filosofico trapianto del possente idealismo tedesco (il quale, su suolo latino, si deteriorò notevolmente). Per decenni, nei licei italiani, gli studenti hanno partecipato a un dramma intellettuale assurdo come quello vissuto dal cigno di Mallarmé. Tentando di librarsi in alto, “magnifici ma senza speranza”, restavano impigliati nel “lac dur oublié”, cioè nel gelo ostile dei “non fuggiti voli” del pensiero. Sì, perché noi italiani, portati come siamo ad amare chi non ci ama, desiderosi (pur di rinnegarci) di avere almeno una particina nei nordici sogni sognati dalla filosofica smania di potenza, abbiamo chiesto insistentemente allo Spirito tedesco di aiutarci, non a emergere, bensì a sprofondare nel ghiaccio del Cocito, il fiume del tradimento. Contorcendoci nella “bianca agonia”, rivestiti di testardo disprezzo verso noi stessi e l’Italia, ci siamo condannati al nostro “exil inutile”.
Nei lunghi decenni trionfali dello spiritualismo, che trovate escogitò la scuola italiana pur di sgombrare ai suoi studenti “le vie del firmamento”! Un esempio? La geniale, utilissima suddivisione degli scrittori in “maggiori” e “minori”. Ai quali (con enorme vantaggio di chi si dà alla letteratura) è da aggiungere la categoria, fondamentale, dei “minimi”, ovvero di chi vien fatto sparire dalla circolazione. Già, i desaparecidos delle patrie lettere! Altrimenti, perdendo tempo dietro a scribacchini e linguaioli, come potrebbe lo Spirito espandersi? No, di loro “non est disputandum”. E così, noi postmoderni, ignorando infastiditi le faccende, sempre deludenti e provinciali, del nostro Risorgimento, invece di ascoltare la voce di coloro che ci dettero una patria, ormai corriamo frenetici ad americanizzarci!
Quando venne Croce (e la crociata dei crociani torse il collo alla retorica), finalmente il passato della vecchia Italia vuota e cortigiana fu levato di mezzo. Ma che ci restava, di veramente comune a tutti? Niente, se non il ricordo di una malattia dell’anima, una specie di peste che fu morbo “nazionale” per tutti i secoli dei secoli in cui l’Italia, come nazione, neppure esisteva. Ci restava addosso il sogno confuso di una magniloquenza che, se poi risultò ampollosamente inutile, a lungo era stata impareggiabile. Dalle bugie dell’enfasi e dalle ridondanze della nostra cultura avevano imparato più o meno tutti coloro che, europei di lusso e di prima classe tipo Voltaire, ci invitavano a vergognarcene.
Ma stranamente noi, “larve d’Italia” e “mummie dalla matrice”, pur essendo costretti a morire in continuazione, si sopravvive. Il nostro infatti è il destino di Pinocchio! E il miracolo avviene proprio, si può dire, in grazia dello spreco... Da secoli si lascia che chiese e palazzi si sgretolino e vengano giù. Da secoli si consente che intorno a noi sia tutto un fiorire di furti di quadri, sculture, anfore, vasi, gioielli... E a scuola non ci insegnano forse, simmetrico pendent, a buttar via i nostri poeti? Si cominciò con “minori” e “minimi”. Poi si prese a sbarazzarci anche dei sommi e, con loro, inevitabilmente, dei delicati problemi della nostra coscienza. Così la modernità (rigorosamente nordica: romantica, hegeliana, marxista, ecc. ecc.), senza ammazzarci e senza farci esser vivi, ci aiutò a trasformarci in quella bella gente che Dante più amava:
l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.
Il risultato fu magnifico! Un sacco di bravi autori italiani estromessi dall’unico Parnaso in cui, alla meglio, i classici riescono a vivacchiare: lo svogliato e ingrato carrozzone della scuola.
La critica idealistica ci ha insegnato a disinteressarci, tra l’altro, del mondo in cui nasce (e a cui appartiene) un’opera letteraria. La nostra cultura non ha fatto che renderci prigionieri di pregiudizi! Che bisogno avremmo, a questo punto, di diventare dei lettori finalmente liberi! Sì, liberi di adoperare la nostra testa, invece di sortir di classe schifati e indottrinati. Quanti alunni, “messi lì nella vigna a far da pali”, escono vuoti e indifferenti! Da anni la scuola prende sempre i soliti testi e, tradendoli, ci insegna a sradicarli dalla vita della coscienza di coloro che li produssero. I soliti brani dei soliti autori scelti per dimostrare le solite verità: le “belle” verità che, vere solo a scuola, combaciano poi con la sostanziale menzogna del vecchio idealismo.
Questo studio della letteratura avvilisce e scoraggia il desiderio dei giovani di conoscere. Nel periodo in cui sono più che mai avidi di sapere, gli studenti si ritrovano a inghiottire vecchi schemi pieni di muffa. Li rimasticano, provano a digerirli e poi li devon risputare, nauseati, in faccia a chi li imbocca! Così, dilapidando le risorse del cuore, noi italiani facciamo “squallida elargizione” (direbbe Wordsworth) del nostro patrimonio. Divenuti insensibili alla letteratura nazionale, figuriamoci l’estraneità nostra agli autori locali! Neppure ce ne accorgiamo ormai dei provinciali “poetucoli” d’un tempo. Ci fu, sì, quando si era orgogliosi che certi uomini fossero nati dalle nostre parti. Ma poi, cessando di conoscerli, si cessò di riconoscerci nelle loro voci. Chi di noi, al giorno d’oggi, cercherebbe qualcosa di suo in un rimatore di 500 anni fa, nato magari a Montemagno o segregatosi volontariamente a Ramini?
Consideriamo Pistoia e la sua provincia. Quante, tra le persone colte, sanno valutare il contributo dato dai Pistoiesi alla cultura italiana? Molti sono convinti che dove siamo nati noi non possa esserci successo mai nulla d’importante. Che maestri siamo, gl’italiani, nel crogiolarci (alimentando così la piacevolezza del rimorso) tra i nostri bei complessi d’inferiorità! Ci muoviamo nel nostro patrimonio culturale come i paladini dell’Orlando Furioso si aggirano nel castello del mago Atlante. Nonostante tutto ciò che abbiamo alle spalle, non siamo ancora in grado di “abitare” il meraviglioso film storico del quale siamo attualmente attori e spettatori. Non sappiamo immergerci nella corrente del nostro essere e del nostro gioioso divenire “Italiani”.
Riscoprire Pistoia, oltre a imparare cose nuove, significa anche considerare da un punto di vista diverso aspetti che già conosciamo. Prendiamo Dante che, dopo aver assistito alla metamorfosi di Vanni Fucci, inveisce contro la patria del ladro. In Pistoia egli maledice la Fenice diabolica sempre pronta a rinascere dall’odio e dal sangue fraterno versato. L’episodio, letto a scuola, non ci fa neppure lontanamente intravedere l’abisso di orrore in cui il poeta ci invita a scendere. Mescolando storia pubblica e privata, Dante si serve di Pistoia per creare, come vedremo, uno dei più formidabili “correlativi oggettivi” della Divina Commedia.
E Cino? Ci insegnano che è un lirico “minore”, da inserire cronologicamente, e psicologicamente, tra Dante e Petrarca. Gli studenti di buona volontà provano, “con mal secure piante”, a seguire le tracce del poeta pistoiese, ma ecco che, guidati male, hanno bell’e perso di vista ogni valido punto di riferimento. La voce così autentica e originale del cantore di Selvaggia s’è fatta “scolorita e mesta”: fioca per il troppo lungo silenzio a cui l’hanno costretta.
E l’assedio famoso del 1305? E le novelle di Boccaccio, Sacchetti, Masuccio Salernitano che ci riconducono a Pistoia? Chi sa i motivi per cui il cardinale Niccolò Forteguerri meritò il titolo di “pater patriae”? E di Scipione Forteguerri, sommo grecista, quanti studenti del liceo classico sanno che fu elogiato da Erasmo da Rotterdam? Potremmo continuare con nomi e nomi e, di recriminazione in recriminazione, saremmo già oltre il primo Cinquecento... Ci ritroveremmo nel bel mezzo di quel calunniato secolo XVII che fu invece (a Pistoia come nel resto d’Italia) un prodigioso, un fiabesco “siglo de oro”.
Se conosciamo così poco Pistoia e i suoi poeti, è colpa del nostro disamore. Invece di esser fieri dei classici italiani, riteniamo quasi tutti i nostri autori noiosissimi. Si esce dall’università convinti che la nostra letteratura sia sempre stata il paradiso della retorica, del conformismo servile, dell’ipocrita cortigianeria. La cultura ufficiale (quella di cui si appagano di solito gli alunni che vanno bene a scuola) è la complice ambigua di antiche calunnie. L’Italia ne è vittima da almeno cinque secoli. Sobillatori pieni di veleno come Martin Lutero (lui, Calvino, gli altri, ne hanno tirata d’acqua al loro mulino!) ci resero un ottimo servizio... non c’è che dire. A forza di “dir bene” di noi e del nostro paese ci hanno spalancato le porte della modernità. La nostra Storia è stata un festino “in cui tutti i cuori s’aprivano, in cui tutti i vini scorrevano”! E il bello è che quelle nordiche calunnie si sono trasformate, col nostro contributo (lo dice anche Vittorio Messori), in una specie di peste nazionale. La diffamazione luterana “ha fatto fortuna sino al punto di convincere gli stessi diffamati”. Lutero ha evangelizzato anche noi. In ogni modo, e con che successo!, ci siamo dati da fare per assomigliare a quelli che gli slogan della diffamazione protestante hanno voluto che fossimo.
Ci piacerebbe (soprattutto ma non solo) riuscire a dare la sensazione di una Pistoia “presente e viva” nell’ambito della letteratura. Già abbiamo detto che sognavamo un’esposizione estrosa e capricciosa. Pistoia, non lo dimentichiamo, fu anche la patria del grande Francesco Andreini, e di tanti famosi “improvvisatori” dell’Ottocento! Ma è difficile essere bizzarri al momento giusto!
Insieme al rispetto dell’ordine cronologico, ci siamo imposti due limiti. Il primo riguarda il periodo, che va dal Duecento al primo Cinquecento; il secondo, la selezione dei personaggi. Quanti altri individui interessanti c’era da prendere in considerazione in questi tre secoli! Ma di fronte al ricco patrimonio pistoiese bisognava scegliere.
Con questo libro, tra l’altro, abbiamo inteso rendere omaggio anche all’amor patrio di Giuseppe Tigri. Oh, strapparci sul serio (una buona volta!) alla miseria delle ideologie che ci hanno inaridito... Tornare a partecipare in modo attivo a una cultura che finalmente fosse di nuovo nostra e vitale! Scriveva il Tigri, alludendo alla purezza dell’italiano che si parlava 150 anni fa nel Pistoiese: “... il popol nostro ne serbò vergine la favella, come lo mostrano le sue scritture, certe sue tradizionali storie e canzoni, e quel suo sempre parlar vivo e naturale, che, ricevuto da’ padri suoi (retaggio unico forse a tante invasioni sottratto) alle nuove generazioni religiosamente conservò e trasfuse”.
E a noi, che ci resta da fare? Di fronte a quel che abbiamo ricevuto, c’è qualcosa che possiamo continuare? Qualcosa che almeno possiamo salvare?